E’
immaginabile che un italiano o un francese o un tedesco
decida di ‘dimissionare’ dal popolo al quale appartiene? Una
domanda strana questa e credo nessuno se la sia mai posta. O
almeno non in questi termini. Noi non decidiamo in seno a
quale popolo nasciamo e di solito cresciamo acquisendo
naturalmente la lingua, la cultura, il modo di pensare e di
sentire del popolo a cui apparteniamo. A scuola poi studiamo
la storia della nostra nazione; di solito gli insegnanti
cercano di farci appassionare ad essa, con incerti
risultati. Talvolta però, noi giudichiamo la nostra storia,
cioè il nostro passato. Può ben darsi che da adulti
decidiamo di rigettare aspetti della storia del popolo a cui
apparteniamo. E’ molto probabile, per esempio che un tedesco
che abbia una forte sensibilità democratica, una buona
cultura e una discreta intelligenza, venendo a conoscenza
dei crimini del nazismo, decida di rigettare totalmente quel
periodo sciagurato della storia della sua nazione. Lo
stesso, verosimilmente, accade, nei confronti del fascismo
ad un italiano che comprende di quali crimini si sia
macchiato il nostro paese a causa di quella ideologia
nazionalista, guerrafondaia e colonialista. Aver contribuito
a scatenare la seconda guerra mondiale, essere intervenuti
in Spagna in una guerra civile che non ci riguardava, aver
voluto costruire un impero coloniale (tra l’altro quando i
tempi erano maturi per la decolonizzazione e i popoli
sottomessi già si apprestavano ad affossare gli imperi
coloniali di Francia e Inghilterra), aver fatto ricorso ad
armi chimiche proibite dalla convenzione di Ginevra contro
gli etiopi e i somali, ecc., sono tutte cose di cui c’è poco
da andar fieri. Qualche altra volta non è solo un breve
periodo della nostra storia che noi rigettiamo. Talvolta
sentiamo che un aspetto del nostro carattere nazionale non
ci soddisfa, quasi ce ne vergogniamo; vorremmo non essere
stati e non essere in un determinato modo. A più di un
francese il senso tradizionale della « Grandeur » e il
nazionalismo d’oltralpe può, a ragione, dare fastidio. Ad un
italiano, il nostro eccessivo cinico particolarismo e il
tradizionale menefreghismo possono risultare
insopportabili, come pure l’ipocrisia e il servilismo delle
classi dirigenti verso le ‘autorità’ religiose. Immagino che
un inglese colto, che conosca bene la letteratura del suo
paese, debba sentirsi poco a suo agio quando considera che i
più grandi scrittori del suo paese, da Chaucer a
Shakespeare, da Thackeray a Dickens, da Kipling a Orwell
abbiano potuto apertamente o velatamente esporre nelle loro
opere atteggiamenti o idee antisemite e razziste. La stessa
persona non credo possa andare fiera della storia
dell’impero britannico. Un individuo non è certo
responsabile del passato della sua nazione, tuttavia, questa
considerazione (consolatoria) non può impedire di aver
l’obbligo di assumerci, in casi simili a quelli menzionati,
tutte le responsabilità della storia della nostra nazione e
quindi prendere l’impegno che cose del genere non accadano
più. Un individuo continua a sentirsi italiano, francese,
tedesco o inglese, ben inteso, perché quel periodo
incriminato della storia o quell’aspetto del carattere
nazionale non è tutta la storia del suo paese,
tutto il carattere nazionale. Ci sono stati periodi
storici di cui non solo uno non deve vergognarsi ma
addirittura deve andarne fiero; e così pure ci sono altri
aspetti del carattere nazionale che uno sente come molto
positivi e a cui tiene particolarmente. Non si pensa certo
di « dimissionare » dal proprio popolo perché nella storia
esso ha conosciuto talvolta il disonore o perché non piace
un aspetto del carattere o del modo di essere del proprio
popolo.
Perché allora
l’ebreo Bertell Ollman vuole dare le dimissioni dal popolo
ebraico?[1]
Sionismo,
un’ideologia e una pratica aggressiva e colonialista
Perché mai questo
ebreo americano, professore universitario di Studi Politici
prova una terribile angoscia, come dice lui stesso, all’idea
di morire ebreo?
Questa angoscia e
questa paura più forte della morte gli derivano dal
sionismo, cioè dall’ideologia oggi dominante, ma non unica,
nel popolo ebraico. Un’ideologia che è alla base del
movimento di colonizzazione della Palestina, iniziato alla
fine del 19° secolo, acceleratosi dopo la Dichiarazione di
Balfour (1917) e consolidatosi robustamente con la
fondazione dello « stato ebraico » nel 1948 e con la sua
espansione ancora
in corso dal 1967
ad oggi. Il progetto sionista nasce dunque molto prima
dell’Olocausto e della spartizione della Palestina.
Quest’ultima fu concepita dall’imperialismo britannico negli
anni ’30. Precedentemente i britannici, con la Dichiarazione
di Balfour, avevano accettato l’idea di una « Jewish
National Home » in Palestina e ne avevano favorito la
creazione incoraggiando la colonizzazione ebraica sotto la
protezione del mandato sulla Palestina che avevano ottenuto
dalla Società delle Nazioni dopo il crollo dell’impero
ottomano. Dopo varie rivolte dei palestinesi contro la
colonizzazione delle loro terre (1922, 1929, 1936) la Gran
Bretagna concluse che si dovesse arrivare ad una spartizione
e alla formazione di due stati. Tutto questo senza
consultare il popolo palestinese, ma con una semplice
imposizione imperialista. Fu incaricata di redigere il
documento una commissione parlamentare, la commissione Peel.
Il movimento sionista però, fin dall’inizio, aveva affermato
chiaramente che suo obiettivo finale era la creazione di uno
stato ebraico su tutta la Palestina mandataria con
l’aggiunta delle alture del Golan, il sud del Libano e la
Transgiordania (oggi Giordania). Un obiettivo che andava ben
aldilà dello stesso territorio della Palestina storica. Il
progetto di spartizione fu considerato come un compromesso
provvisorio, utile fintantoché le condizioni non fossero
mature per la realizzazione dell’obiettivo finale.
Ben-Gurion, allora alla testa del movimento sionista,
presentò ai suoi il progetto britannico di spartizione in
questi termini:
Lo stato ebraico
che oggi ci si offre non è l’obiettivo sionista. In questa
ristretta regione non è possibile risolvere la questione
ebraica. Ma può servire come fase decisiva sulla
strada di una più sostanziale realizzazione sionista. Esso
permetterà di consolidare in Palestina, nel più breve tempo
possibile, quella reale forza ebraica che ci porterà al
nostro obiettivo storico. (Ben-Gurion, citato in Norman G.
Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine
Conflict, Verso, Londra e New York, seconda edizione,
2003, p. 15).
E in una lettera al figlio qualche tempo
dopo, lo stesso Ben-Gurion chiariva meglio il suo pensiero:
Lo stato ebraico, scriveva, avrà “un potente
esercito – non dubito che il nostro esercito sarà uno dei
più potenti del mondo – e così non ci si potrà impedire di
stabilirci nel resto del paese, cosa che noi faremo o con
accordo e mutua comprensione con i vicini arabi o
altrimenti” (David Ben-Gurion, citato in Norman Finkelstein,
Ibidem.)
La posizione di
Ben-Gurion divenne subito la posizione di tutto il movimento
sionista e il 10 ottobre 1937, il rappresentante sionista in
Egitto, Feivel Polkes, ribadiva perentoriamente a due
inviati del III Reich, uno dei quali era …. Adolf Eichman,
che:
Lo stato sionista deve essere fondato con
ogni mezzo e appena possibile ... Quando lo stato ebraico
sarà stato fondato secondo le attuali proposte contenute nel
documento della Commissione Peel, e in linea con le promesse
parziali dell'Inghilterra, allora i confini potranno essere
spostati ulteriormente in avanti secondo i nostri desideri”
(citato in Lenni Brenner, “Zionism in the Age of the
Dictators”, cap. 8.
Dopo la
spartizione iniziarono subito l’espansione e la pulizia
etnica.
Negli ultimi
tempi, come Bertell Ollman, tanti altri ebrei si sono
espressi contro Israele e il sionismo, suscitando grande
scandalo tra gli altri ebrei e tra i goy (non ebrei).
Senza timore di andare contro corrente, essi si sono messi
alla testa non solo di coloro che condannano Israele per la
violazione dei diritti umani dei palestinesi, per la sua
politica in Medio Oriente o per la sua perniciosa influenza
sui governi americani, ma soprattutto di coloro che si
oppongono all’esistenza stessa di uno stato ebraico. Si
oppongono cioè al cosiddetto «diritto di Israele ad
esistere» in quanto stato sionista per soli ebrei.
Costruire uno
stato etnicamente puro o comunque dominato fortemente da
una sola etnia, la quale viene fatta affluire a poco a poco
dall’esterno, su una terra già abitata da un altro popolo è
semplicemente un progetto criminale che non può portare
altro a tutta la regione se non sangue, sventure, violenza,
ingiustizia e instabilità per decine e decine di anni. A
circa 60 anni dalla fondazione dello stato di Israele, ciò è
esattamente quello che in Medio Oriente ancora accade.
Israele sostiene che ciò avviene perché gli arabi non
accettano gli ebrei, perché sono antisemiti. La lotta di
Israele quindi sarebbe una lotta per la sua difesa, per la
sua sopravvivenza, per impedire un altro Olocausto
antisemita. Sono pure falsità: gli arabi non sono antisemiti
e non vogliono cacciare gli ebrei dal Medio Oriente;
torneremo su questo punto nell’ultimo capitolo del nostro
scritto. Per ora chiediamo: si può accettare di essere
cacciati dalla propria terra da qualcuno a cui non si è mai
fatto alcun male? Si è antisemiti se si rivendica e si lotta
per tornare nella terra dei propri avi? Ed è innocente chi
si è appropriato con la violenza e l’inganno della tua casa
e dei tuoi beni, ha compiuto un’operazione di pulizia etnica
e di deportazione e ti ha ridotto allo stato di profugo? La
fondazione di Israele è stata resa possibile, e oggi lo
riconoscono anche gli storici israeliani, proprio e solo da
una gigantesca operazione di pulizia etnica che ancora
perdura. Cosa c’è di più aggressivo di una pulizia etnica e
di una deportazione (il politically correct
sionista vorrebbe che usassimo il termine più innocuo «
tranfer »)? Nel 1948 furono espulsi dalla Palestina oltre
750 000 palestinesi ed oggi costoro e i loro discendenti
sono diventati 5 milioni e vivono sparsi in vari paesi
arabi, il più delle volte in campi profughi e in condizioni
disumane o sono sotto occupazione militare nei territori
occupati. L’espulsione dei palestinesi dalla loro terra ha
causato gravi danni ai popoli dei paesi vicini. Il Libano,
la Giordania, l’Egitto, la Siria, l’Iraq, soprattutto. Il
più delle volte i profughi sono stati accusati di aver
portato povertà, violenza, disordine sociale, ecc. sono
stati perciò attaccati, perseguitati e spesso massacrati,
con grande gioia di Israele, dai libanesi (durante la guerra
civile), dai giordani (nel 1970), per esempio. Nel 1991, in
400 000 sono stati espulsi dal Kuwait, oggi sono
perseguitati in Iraq dagli sciiti che li accusano di essere
stati favoriti da Saddam. Succede che dei paesi poveri
vedendo arrivare migliaia di profughi, se la prendano con
loro, soprattutto se in questo sono incoraggiati da politici
arabi corrotti, dagli Stati Uniti d’America o da Israele
come accadde a Sabra e Chatila nel 1982. Ma l’aggressività
di Israele non è solo limitata ai palestinesi. Per esempio,
Israele non è certo indifferente alle recenti sventure
dell’Iraq, dopo il regime di Saddam Hussein. Per assicurarsi
una posizione di dominio sul mondo arabo, lo stato sionista
ha sempre cercato di dividere i popoli e i paesi di quella
regione. Ha anche cercato di distruggere qualsiasi rivale
potenzialmente forte e capace di unificare tutti i nemici
dello stato sionista. L’Iraq era, o poteva essere, questo
paese. Di recente molti hanno cominciato a riconoscere il
ruolo della lobby ebraica negli Stati Uniti (AIPAC) e gli
sforzi degli ebrei neoconservatori sionisti presenti in
forza nell’amministrazione Bush per ottenere le sanzioni
contro l’Iraq prima e poi l’invasione di questo paese. Oggi
Israele spinge per dividere il popolo iracheno in entità
etniche deboli e volge lo sguardo verso quello che
definisce il nuovo nemico: l’Iran. Un gran numero di spie e
istruttori militari israeliani sono già presenti nel
Kurdistan iracheno e operano in funzione anti-Iran. Israele
si muove all’interno di una spinta strategica
americano-sionista tesa a servirsi del territorio curdo in
funzione anti-iraniana, ciò richiede di tenere buoni i curdi
per rassicurare gli sciiti d’Iraq e soprattutto la Turchia,
la quale dovrebbe essere anch’essa coinvolta in una
possibile avventura militare contro Teheran.
Nel passato,
prima della guerra all’Iraq, altri paesi arabi sono stati
vittime di Israele. L’Egitto di Nasser nel 1956, la
Giordania e la Siria nel 1967, il Libano nel 1982.
Nel 1956, la
Francia e Inghilterra erano potenze coloniali in decadenza
ma possedevano ancora la società che gestiva il canale di
Suez, con relativi consistenti guadagni. Quando Nasser
decise di nazionalizzare questa società che era un vero e
proprio stato nello stato, Francia e Inghilterra, per
ragioni di geopolitica e soprattutto di sfruttamento
economico, decisero di far intervenire le loro cannoniere e
i loro aerei per rovesciare il governo nasseriano. In tutta
questa faccenda Israele non c’entrava per niente eppure si
affrettò a entrare in guerra accanto ai colonialisti
franco-britannici invadendo il Sinai. L’aggressività del
giovane stato sionista, la volontà di infliggere una
sconfitta ad un paese arabo e la possibilità di dimostrare
ai paesi colonialisti quanto potesse essere utile
un’alleanza con Israele contro le forze antimperialiste
arabe, furono i fattori che spinsero i sionisti ad
immischiarsi in una guerra che non li riguardava. Il
risultato di quella guerra fu catastrofico per Francia e
Inghilterra perché furono costrette ad accettare la
nazionalizzazione del Canale da parte dell’Egitto e videro
tramontare definitivamente le loro velleità interventiste.
Chi invece ne guadagnò fu proprio Israele che si accreditò
come un sicuro alleato dell’Occidente nella regione. La Gran
Bretagna e la Francia lo ricompensarono del suo aiuto con la
fornitura di tecnologie nucleari che permisero ai sionisti,
negli anni ’60, di costruirsi un arsenale atomico con cui
minacciare i popoli del Medio Oriente. Un arsenale atomico
che oggi sfugge completamente a qualsiasi controllo ONU. Sia
ben chiaro, ciò è avvenuto per volontà degli americani e
dell’Occidente, cioè degli stessi che, per molto meno
(ricerca scientifica in campo nucleare), oggi vogliono
isolare l’Iran e addirittura parlano di attaccarlo con armi
atomiche.
Nel 1967, Israele,
ormai in possesso della bomba nucleare, con una guerra
preventiva, attaccò la Giordania, la Siria e l’Egitto.
Colti di sorpresa, male armati e peggio preparati, questi
paesi cedettero ampi spazi di territorio. La Giordania
cedette Gerusalemme Est e la Cisgiordania, terre palestinesi
che l’ONU aveva affidato al regno ascemita. L’Egitto cedette
la striscia di Gaza, già allora popolata di profughi
palestinesi, e abbandonò anche il territorio egiziano del
Sinai. La Siria fu sconfitta sulle alture del Golan che
Israele prontamente incamerò pur non essendo mai stata
questa regione abitata da ebrei. Cisgiordania e Gaza sono
rimaste occupate e sono state colonizzate dal 1967 ai giorni
nostri. La farsa del processo di pace di Oslo non ha mai
fermato la colonizzazione. Oggi Israele ha deciso di
chiudere i palestinesi nella cinta muraria dell’apartheid e
di incamerare unilateralmente le migliori terre della
Cisgiordania, Gerusalemme Est, dove si trovano i luoghi
santi dell’Islam e della cristianità, e la fertile valle del
Giordano ricca di acqua, così preziosa in quella regione. Il
Golan fu anch’esso colonizzato e militarizzato, dopo essere
stato liberato dei suoi importuni abitanti siriani
naturalmente, e ancora perdura questo stato di cose. Il
Sinai invece fu restituito all’Egitto quando Sadat accettò
di accordarsi con Israele, passando nel campo americano. Il
Sinai tuttavia fu completamente smilitarizzato e la
sovranità egiziana su di esso fu fortemente ridotta. Israele
infatti si assicurò la presenza di osservatori Onu in
funzione anti-egiziana. Oggi è un luogo di vacanza per
turisti israeliani (imprese israeliane vi hanno costruito
decine di alberghi) e per turisti occidentali. Un buon
business per gli imprenditori di Tel Aviv.
Nel 1982, toccò al
Libano di essere aggredito dai sionisti. Fu proprio Sharon
che penetrò nel paese vicino e giunse fino a Beirut. Lì,
armò la mano di una fazione di libanesi « cristiani », i
falangisti, perché massacrassero i profughi palestinesi
inermi dei campi di Sabra e Chatila. Con la complicità degli
Stati Uniti di Reagan, espulse l’OLP da Beirut. Alleandosi
alle fazioni cristiane maronite accese la miccia di una
guerra civile che doveva durare 7 anni e causare centinaia
di migliaia di morti. Infine, ritirandosi da Beirut costituì
la cosiddetta « fascia di sicurezza » in suolo libanese che
per vent’anni ha gestito insieme con un altro gruppo
cristiano, i traditori dell’Esercito del Libano del Sud
(ELS). Da questa « fascia di sicurezza » l’esercito
israeliano è stato cacciato dai patrioti di Hezbollah nel
2002.
Il sionismo non è
quindi una ideologia politica innocente e pacifica ma nella
sua storia si è reso responsabile di varie guerre di
aggressione, non di difesa, di centinaia di migliaia di
morti, di immani sofferenze inflitte ai palestinesi e agli
altri popoli della regione. La presenza dello stato sionista
su terre arabe è foriera di guerra e distruzione per chissà
quanti anni a venire.
Sionismo, ideologia razzista, pulizia etnica e apartheid.
Si dice che il
sionismo non sia altro che la forma di nazionalismo adottata
dal popolo ebraico. In realtà, non tutti gli ebrei sono
sionisti e molti non sono nemmeno nazionalisti. Vi sono
ancora ebrei internazionalisti o marxisti come Bertell
Ollman i quali rifiutano ogni forma di nazionalismo in
quanto ideologia borghese e reazionaria. Molti di più erano
gli ebrei comunisti e internazionalisti nel passato, al
punto da far dire ai nazisti che il comunismo era un
complotto ebraico. I nazisti preferivano gli ebrei sionisti
e li aiutarono a colonizzare la Palestina. Non riuscivano
invece ad accettare gli ebrei comunisti o internazionalisti.
Ma non solo quelli. Dopo i comunisti, i nazisti
perseguitavano gli ebrei assimilazionisti, cioè quelli ebrei
che avevano famiglie miste e si consideravano tedeschi,
polacchi, italiani ecc., a secondo dei paesi dove vivevano.
I sionisti, invece, erano accettati ed è chiaro perché:
nazisti e sionisti si trovavano d’accordo su una cosa: la
concezione del nazionalismo. Secondo i sionisti, la Germania
apparteneva ai tedeschi, alla razza ariana e gli ebrei
avevano bisogno di separarsi da loro, fondare uno stato
popolato esclusivamente da ebrei, uno stato che non esisteva
e che andava fondato in Palestina. Questo avveniva prima
dell’Olocausto quando i sionisti collaborarono con tutti i
dittatori allora esistenti, non solo i nazisti, ma anche i
fascisti, gli ultranazionalisti antisemiti polacchi e
perfino con l’impero del Sol Levante. Tutto questo è
confermato da due libri di un internazionalista ebreo che
vive in America, Lenni Brenner, il quale ha raccolto i
documenti storici che gli hanno permesso di ricostruire
questa pagina vergognosa del sionismo. La ricerca storica
minuziosa è contenuta nei due libri “Zionism in the Age of
the Dictators” (1982) e “51 documents of the Collaboration
of Zionism with Nazism” (2004). Questi libri fondamentali
non sono stati tradotti in italiano ma almeno uno dei due,
il primo, si può trovare in inglese sul web. I sionisti
odiavano gli ebrei internazionalisti perché essi non
volevano « una patria ebraica » e perché, per esempio, erano
pronti a dare la loro vita per la libertà della Spagna
durante la guerra civile spagnola invece di sacrificarsi per
costruire lo stato sionista. I sionisti consideravano gli
internazionalisti dei pazzi idealisti che lottavano per
tutta l’umanità e in quanto pazzi idealisti erano
irrecuperabili. Ma i sionisti odiavano più di ogni altra
cosa quegli ebrei che non volevano emigrare in Palestina ma
desideravano integrarsi nel paese in cui erano nati, magari
sposare una donna o un uomo non di razza ebraica e vivere
come un qualunque cittadino di quel paese. Erano gli
assimilazionisti, i quali quando erano nazionalisti lo erano
nel senso che sostenevano la nazione del paese in cui
vivevano. Molti furono gli ebrei che partirono volontari
nella prima guerra mondiale e si sacrificarono per unire
all’Italia le terre irredente. Vi furono addirittura ebrei
fascisti che sostenevano l’espansione coloniale italiana in
Africa e sostenevano il nazionalismo revanchista di
Mussolini. Uno di questi era, per esempio, il rabbino di
Padova Felice Ravenna che si incontrò a Tripoli con il
governatore Balbo. Alla fine dell’incontro fu emesso il
seguente comunicato:
S.E. il
Governatore della Libia ha ricevuto in lungo e cordiale
colloquio l’avvocato Felice Ravenna, Presidente dell’Unione
delle Comunità Israelitiche Italiane, ed ha esaminato con
lui le condizioni degli ebrei della Libia. Il governatore ha
espresso all’avvocato Ravenna viva simpatia per la
laboriosa, disciplinata e morale popolazione ebraica, che
partecipa attivamente alla vita della nuova Italia
mussoliniana d’Oltremare. (Citato in Renzo De Felice,
Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, Torino,
Einaudi, 1993, p. 203)
Ancora più decisa era la posizione del
generale Liuzzi che nel 1936 in un opuscolo intitolato ‘Per
il compimento del dovere ebraico nell’Italia Fascista’
attaccava i suoi correligionari con queste parole:
E’ indispensabile
e urgente che le nostre Comunità abbiano nell’Unione una
superiore autorità responsabile del loro risanamento e che
pertanto alla loro testa vengano messi uomini nuovi che
posseggano le capacità di sapere e di voler fare, che
dispongano cioè di un’anima ebraica non soltanto italiana
del passato, ma profondamente e sicuramente fascista
dell’avvenire. Equivoci e malintesi, vecchie radici
massoniche e vincoli internazionali devono essere
sicuramente banditi da tutti noi quali errori e tradimenti
superati o trapassati. Anche qui si tratta di lottare e
vincere nell’interesse della Patria [italiana] oltrechè
nostro. (Ibidem, p. 225)
Dire che sionisti
e nazisti avessero concezione del nazionalismo assai simili
è un’accusa grave. Non la lanciamo con leggerezza o per puro
intento di propaganda. Approfondiamo l’argomento. Nel
periodo in cui nacque il sionismo, alla fine del XIX
secolo, in Europa vi erano due concezioni contrapposte
dell’idea di nazione e di nazionalismo. Da una parte vi era
la concezione democratica nata durante la rivoluzione
francese e figlia in via diretta dell’illuminismo. Secondo
questa concezione, era compito di tutti i cittadini
costruire nella propria nazione un ordine sociale che
garantisse i principi di libertà, fratellanza e uguaglianza.
Questi erano i principi democratici condivisi della nazione
e su questi principi ogni cittadino doveva concorrere a
costruire un ordine sociale razionale e giusto,
indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione,
provenienza, ecc. Lo stato-nazione, non più proprietà del re
per grazia divina, veniva quindi edificato su un accordo
consensuale di tutti i cittadini, i quali erano considerati,
sulla base egualitaria, i suoi elementi fondanti.
L’uguaglianza veniva intesa esclusivamente in termini di
diritti civili e politici e non economici e quindi era
foriera di disuguaglianze sostanziali dovute alla ricchezza
e all’influenza che la ricchezza porta con sé. La teoria
marxista affronterà questo punto e cercherà di porvi rimedio
sostenendo che l’uguaglianza politica debba essere fondata
sull’uguaglianza economica e che questa è realizzata con
l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di
produzione. Ma essendo il capitalismo un fenomeno
internazionale, i proletari di tutti i paesi si devono unire
e giungere all’abolizione dei mezzi di produzione in tutti i
paesi capitalisti, da qui la parola d’ordine ‘proletari di
tutti i paesi unitevi!’ Così la nazione stessa perde
significato e viene sostituita dal concetto di
internazionalismo proletario. Comunque, la teoria dello
stato-nazione nata dalla rivoluzione francese costituiva pur
sempre un enorme passo avanti nella storia dell’umanità e ci
si sarebbe aspettato che diventasse presto patrimonio comune
dell’Europa intera. Gli ideali della rivoluzione francese
furono sparsi su tutto il continente dalle armate
napoleoniche e produssero una serie di rivoluzioni nazionali
nel corso del secolo. Ma verso la fine del secolo, come
reazione all’illuminismo e al razionalismo, si andò
lentamente affermando in Germania e nell’est europeo
un’altra concezione di nazione, non democratica e non
egualitaria ma romantica, secondo la quale non tutti gli
individui nascono uguali ed essi sono uniti tra loro da
legami più profondi, più naturali, rispetto all’accordo
consensuale della concezione democratico-rivoluzionaria
francese. Secondo la concezione romantica, l’individuo è
parte di una comunità organica, unita da una storia, una
lingua, una religione, un folklore, una origine, un
sangue comuni. Ogni comunità o nazione di questo tipo
deve essere riunita sotto uno stato comune che esclude altre
comunità o individui non corrispondenti alle caratteristiche
dominanti. Vi sono ragioni storiche di questa diversa
evoluzione ad ovest e ad est del fiume Reno.
Nell’Europa
occidentale, – scrive lo storico Zeev Sternhell – il
nazionalismo è comparso subito nella sua forma politica e
giuridica. La nazionalità si è affermata con il lungo
processo di unificazione dei regni. I popoli ai quali questi
regni davano un potere centrale e una stessa capitale, erano
di fatto composti da popolazioni così differenti quanto
potevano esserlo dei vicini di religioni, culture, lingue ed
etnie diverse. Anche le frontiere erano funzione della
potenza. E se i relativi tracciati, nel caso di trattati –
di pace o d’altro, - finivano con il separare popolazioni di
una stessa lingua, di una stessa cultura, questo destino era
accettato. La Francia, la Gran Bretagna e la Spagna
costituiscono gli esempi più rappresentativi di una tale
situazione. A est del Reno invece, i criteri di appartenenza
nazionale non erano politici ma culturali, linguistici,
etnici e religiosi. Le identità polacca, rumena, slovacca,
serba o ucraina non si sono determinate come espressione di
una fedeltà ad un’autorità centrale ma hanno preso forma
intorno alla religione, alla lingua e al folklore sentiti
come altrettante manifestazioni delle caratteristiche
biologiche o razziali specifiche. A differenza di paesi come
la Francia, la Gran Bretagna o la Spagna, qui la nazione ha
preceduto lo stato. In questi paesi si capiva il pensiero
di Herder, non quello di Locke, Kant, Tocqueville, John
Stuart Mill o Marx. (Z. Sternhell, Sionismo e
Nazionalismo, in Giancarlo Paciello, La conquista
della Palestina, C.R.T., Roma, 2004, p. 136-7).
Questa concezione
era gravida di conseguenze nefaste. Si può rintracciare in
essa l’origine del pangermanesimo e, aggiungendovi, anzi
semplicemente accentuando, il concetto di razza, vi si può
scoprire l’origine del nazismo (un popolo, una nazione, una
lotta). Il sionismo nascente aderì a questa concezione.
Secondo Theodor Hertzl, il fondatore del sionismo, gli
ebrei, ovunque essi si trovassero, non appartenevano alle
nazioni in cui vivevano e non dovevano aderire al patto
democratico dei cittadini della loro nazione, ma dovevano
far valere la loro origine, la loro storia, il loro sangue e
prestare fedeltà solo alla nazione ebraica,
indipendentemente dalla lingua che parlassero e dalla
cultura a cui appartenessero. La nazione ebraica doveva
quindi separarsi dalle altre e fondare un proprio stato.
Questo stato si pensò di fondarlo in Argentina, in Africa,
poi, infine, si decise per la Palestina. Il sionismo non era
in origine un movimento religioso ma tuttavia scelse la
Palestina proprio per il richiamo religioso che la « Terra
di Israele » esercitava sugli ebrei di fede giudaica. Lo
studioso sionista tedesco Hans Kohn riconosce apertamente la
derivazione del sionismo dalla concezione di nazione di
origine germanico-romantica. Egli afferma che il pensiero di
Hertzl derivava proprio dalle « fonti germaniche » che egli
così sintetizza:
Secondo la teoria
tedesca, la gente di origine comune (…) dovrebbe formare uno
stato comune. Il Pan-Germanesimo si fondava sull’idea che
tutte le persone di razza, sangue e origine
germanici,
ovunque vivessero e a qualunque stato appartenessero,
dovevano la loro fedeltà principalmente alla Germania e
dovrebbero diventare cittadini dello stato tedesco, la loro
vera patria. Essi, e addirittura i loro padri e antenati,
potevano essere vissuti sotto cieli ‘stranieri’ o in
ambienti ‘diversi’, ma la loro ‘realtà’ interiore profonda
rimaneva tedesca.
(Hans Kohn, citato
in Norman Finkelstein, Op.
Cit.,
p.8).
Si provi ad
immaginare per un attimo a cosa sarebbe successo se tutti i
popoli avessero adottato questa concezione. Non sono bastate
le innumerevoli guerre etniche fratricide che hanno avuto
luogo nei Balcani da oltre un secolo? L’esempio della
Jugoslavia tra il 1990 e il 2000 è ancora vicino a noi e ci
permette di comprendere l’assurdità di questa concezione.
Non per niente la comunità internazionale si è mobilitata
per ripristinare (assai ipocritamente in verità) il rispetto
delle minoranze, l’inammissibilità delle pulizie etniche e
il principio degli stati multi-etnici. Si pensi al Ruanda e
al genocidio dei tutsi da parte degli hutu. Si pensi allo
sterminio degli armeni da parte dei turchi. Cosa
succederebbe oggi se il principio degli stati etnici fosse
seguito in Cina, in India e nella stessa Europa? Il sionismo
ha seguito questo principio. La storia successiva della
pulizia etnica dei palestinesi era già inscritta in questo
tipo di nazionalismo dall’inizio.
Sionismo come « socialismo » nazionale pseudo-liberale.
Un elemento che ha
contribuito a fare la fortuna del sionismo, soprattutto
catturando l’immaginazione di quella sinistra che da tempo
ha abbandonato il marxismo, è stato quello di essersi
presentato, almeno fino al 1977, data del primo governo
della destra in Israele, come «socialismo» nazionale (anche
se, dopo i governi di destra in Israele - quelli di Begin,
di Shamir, di Netanyahu e di Sharon - dopo la scomparsa dei
kibbutz e di ogni traccia di ‘socialismo’, le illusioni
della sinistra sono dure a morire, come la pigrizia mentale
d’altronde). Scrive sempre Zeev Sternhell sul ‘socialismo’
nazionale:
L’ideologia del
socialismo nazionale nasce in Europa tra la fine del XIX
secolo e l’inizio del XX. Si propone come la vera soluzione,
puntando a sostituire le ideologie marxista e liberale. Il
suo postulato – il primato della nazione – trova le premesse
nel socialismo premarxista di Proudhon. E’ un’ideologia che
presenta la nazione come un’entità storica, culturale o
biologica. Per preservare il suo avvenire e proteggersi
dalle forze che scalzano la sua armonia, la nazione deve
consolidare la sua unità interna, spingendo tutte le sue
componenti alla missione comune. Per questa nuova ideologia,
il liberalismo e il marxismo costituiscono il più grande
pericolo che, nel mondo moderno, minacciano la nazione. Il
liberalismo, perché concepisce la società come
un’aggregazione di individui in eterna lotta per un posto al
sole, una sorta di mercato selvaggio, la cui sola ragione
d’esistenza è di soddisfare gli egoismi dei singoli, quelli
dei più forti ovviamente e il marxismo, perché
sostiene che la società è divisa in classi nemiche impegnate
in una lotta senza pietà tanto più inevitabile in quanto
iscritta nella logica interna del capitalismo. (Op. Cit.,
p. 135)
Il « socialismo »
nazionale rifiuta categoricamente la lotta di classe e
l’internazionalismo proletario. La sua singolarità consiste
nel fatto che esso aderisce al principio del primato della
nazione, la quale è posta in posizione assolutamente
prevalente rispetto a qualsiasi altro aspetto, rinnegando
così i principi universalistici del socialismo. Tuttavia, se
pure rinnega il marxismo, il ‘socialismo’ nazionale non
rinuncia a voler risolvere a suo modo la questione sociale.
Rifiutando i principi marxisti, primo fra tutti l’abolizione
della proprietà privata dei mezzi di produzione, il «
socialismo » nazionale afferma di voler risolvere la
questione sociale con una critica ai settori parassitari del
capitale, alla rendita, alla grande finanza, agli
speculatori, ai borsisti, a tutti coloro che dispongono
facilmente di denaro e non lo investono attivamente creando
posti di lavoro e facendo crescere la società e la nazione.
Costoro vengono definiti, parassiti, plutocrati, usurai,
perché si arricchiscono solo loro senza benefici per la
nazione. Ci si rivolge al « lavoratore » (certo non al «
proletario », naturalmente), al contadino, al negoziante,
all’artigiano e a quei settori del capitale produttivo, il
borghese ‘positivo’ che investe e rischia il suo denaro
nella produzione. Ovviamente, il « socialismo » nazionale
non intende affatto cambiare la società, né mai esso ha
preso provvedimenti per eliminare il ceto dei parassiti,
degli speculatori, dei finanzieri tanto criticati. Anzi i
provvedimenti principali sono diretti contro gli operai,
costretti in corporazioni, senza sindacati, senza partiti
politici che li rappresentino in modo autonomo. Gli operai
vengono invece iscritti, con le buone o con le cattive, nel
partito nazionale, associati nelle sue istituzioni,
arruolati nell’esercito. Il socialismo « nazionale » è
infatti un’ideologia aggressiva che punta alla conquista di
territori altrui per metterli a disposizione della propria
nazione e per impadronirsi delle loro ricchezza
(colonialismo). E’ anche un’ideologia razzista che ritiene
la propria nazione superiore alle altre. Nella storia, il «
socialismo » nazionale si è realizzato prevalentemente sotto
forma di sistema antidemocratico e reazionario, anzi
decisamente dittatoriale. La sua forma più brutale è stata
il nazismo (Nazional Socialismus), ma anche il fascismo
mussoliniano può essere considerato una forma di «
socialismo » nazionale. Vi è tuttavia anche una forma di «
socialismo » nazionale con caratteristiche
pseudo-democratiche. Tale è il sionismo; tali sono certe
forme di ‘socialismo’ nazionale nel terzo mondo (la Corea
del Sud al tempo degli agglomerati industriali nazionali,
prima che questi fossero minati dalla globalizzazione
liberista).
Il movimento
laburista prese la direzione e il controllo della
colonizzazione sionista durante gli anni trenta e al momento
della proclamazione di Israele furono i laburisti a guidare
politicamente lo stato e a deciderne le strutture sociali ed
economiche. Fondamento di questo ordine sociale è
l’Histadrut, l’onnipotente corporazione dei ‘lavoratori’ e
degli industriali. Non è un sindacato, come spesso si dice,
ma una struttura nazionale che inquadra « i lavoratori » e «
le altre forze produttive » e affida a tutti la medesima
missione nazionale. L’Histadrut possiede banche, imprese nel
settore dell’industria pesante, degli armamenti, dei lavori
pubblici e delle costruzioni, possiede anche la maggiore
centrale nazionale di distribuzione dei prodotti agricoli,
catene di grandi magazzini e negozi. L’Histadrut controlla
l’intero settore cooperativo, si occupa dei contratti tra
lavoratori e le imprese che gli appartengono, gestisce
direttamente la Cassa Malattia Nazionale, dispone di
ospedali, scuole, case di riposo e pubblica un proprio
giornale, il Davar. In Israele solo l’esercito è
un’organizzazione più capillare e meglio organizzata
dell’Histadrut. Tuttavia, seppur meno capillare
dell’esercito, questa istituzione è un vero stato nello
stato e fornisce al parlamento gran numero di parlamentari e
buona parte degli uomini di governo, di sinistra e
sorprendentemente, (per chi ha schemi in testa), anche di
destra. Dopo l’Histadrut e l’esercito, vengono le altre
istituzioni politiche e sociali che completano il quadro. In
seguito alla fondazione di Israele, furono sempre i
laburisti a dirigere lo stato, fino agli anni settanta
quando persero le elezioni a vantaggio del partito del
Likud. Questo è un partito seguace di Wladimir Jabotinsky,
amico personale del Duce. [Egli chiese, tra l’altro, a
Mussolini, di contribuire alla formazione di un nucleo di
ufficiali di marina che sarebbe diventato in seguito la
marina di Israele. E, naturalmente, il Duce lo accontentò.
Così, tra il 1934 e il 1937, fu aperta a Civitavecchia una
scuola marittima per aderenti all’organizzazione sionista «
Betar », ramo giovanile del partito di Jabotinsky.]
La destra una
volta salita al potere non ha mai combattuto l’Histadrut, il
cosiddetto « sindacato », come fa la destra in tutte le
democrazie parlamentari e in tutti i regimi capitalistici
liberali con i sindacati veri. Questo perché l’Histadrut non
è un sindacato ma un’organizzazione nazionale di lavoratori,
di capitalisti e di boiardi di stato, i cui dirigenti
vengono scelti ogni 4 anni sulla base di liste presentate da
tutti i partiti politici. Attualmente i dirigenti
laburisti dell’Histadrut detengono una risicata maggioranza
interna rispetto ai rappresentanti della destra.
La struttura della società nazionale
israeliana è retta da alcune leggi e istituzioni che hanno
poco a che vedere con le istituzioni e le leggi di una
democrazia liberale. Facciamo alcuni esempi: prima di tutto
non esiste in Israele una costituzione, cioè una carta
costituzionale.Perché mai? Come mai un paese che si vanta di
essere « democratico » anzi l’unica democrazia in Medio
Oriente non ha una costituzione? Ebbene Israele non ha una
costituzione perché non può averla. Se dovesse provare a
scrivere una costituzione laica, gli ebrei religiosi o
fanatici, che considerano Israele la realizzazione di una
promessa messianica, si rivolterebbero contro lo stato. Se
dovesse invece scrivere una costituzione religiosa,
moltissimi sarebbero gli ebrei atei o laici che
abbandonerebbero il paese per cercare in Occidente quel poco
di tolleranza e libertà che vedrebbero sparire del tutto
nello stato sionista. Incredibilmente e diversamente da
tutte le democrazie liberali, Israele non ha un corpo di
leggi che riguarda il potere giudiziario. Anche qui, un
corpo di leggi di carattere laico urterebbe contro l’antico
codice religioso, l’« Halachà », seguito dai potenti
tribunali rabbinici, che si intromettono in tutte le
faccende dello stato. In queste condizioni si preferisce
procedere come se nulla fosse; se non che, certe leggi sono
laiche (quando non urtano troppo i religiosi) ed altre sono
religiose (se non urtano troppo i laici). Tutti sanno, per
esempio che non esiste il matrimonio laico in Israele, per
cui se un cittadino di Israele vuole sposarsi fuori
dall’autorità dei rabbini, ebbene… deve farlo all’estero.
Potrebbe addirittura farlo in un paese musulmano come la
Giordania o la Turchia. Il potere dei rabbini è talmente
forte che costoro costringono gli ebrei riformati (una nuova
forma di giudaismo nata negli Stati Uniti) a rinunciare alla
loro fede se vogliono stabilirsi in Israele. Lo stato
sionista li accetta comunque e questo crea un contrasto tra
settori dello stato e autorità religiose. I tribunali
rabbinici gestiscono gran parte della ‘giustizia’ e
naturalmente lo fanno secondo i dettami della religione. Il
potere dei rabbini è talmente forte che non esiste in
Israele una cittadinanza « israeliana ». Sulle carte di
identità si troverà scritto « ebreo » se si è ebreo (laico o
religioso non importa); si troverà « arabo » se si è
palestinese, cioè ‘cittadino di secondo rango. Si vive nello
stesso stato di Israele ma non si è « israeliani »; si è o «
ebrei » o « arabi ». Questo ha anche una valenza non
religiosa. Se esistesse la cittadinanza « israeliana »
questo vorrebbe dire che gli ebrei non israeliani sarebbero
considerati o non cittadini di Israele o non ebrei. Lo stato
di Israele infatti è uno stato « ebraico », cioè uno stato
per tutti gli ebrei del mondo, indipendentemente se essi
risiedono in Israele o meno. Inoltre una eventuale carta
d’identità con sopra scritto « nazionalità israeliana »
metterebbe sullo stesso piano ebrei e palestinesi, cosa che
in uno stato « ebraico » non deve avvenire. Questo è il
retaggio assurdo del sionismo.
La natura del
sionismo si esplicita soprattutto, forse, in un’altra legge,
« la legge del ritorno ». Essa dà diritto a tutti gli ebrei
del mondo di emigrare in Israele ma, contemporaneamente,
nega lo stesso diritto ai palestinesi che sono stati
espulsi. Il fatto che la « Terra d’Israele » sia stata
destinata, per legge, all’esclusivo godimento degli ebrei
(di tutto il mondo) ha un’altra assurda conseguenza: un
arabo o un gentile (cioè un non-ebreo, detto goy,
o goyim in ebraico) d’Europa o d’America non può
acquistare proprietà ebraica in Israele. Si può capire
(ma non approvare) la ragione per cui si impedisca ad un
arabo, palestinese o non, di acquistare una casa o una terra
in Israele; si vuole impedire, cioè, che la terra d’Israele
possa ridiventare araba. Quindi un palestinese espulso da
Israele nel 1948 (o i suoi discendenti) non possono
acquistare la casa e le proprietà che gli furono tolte
durante la sua espulsione. Ma non è tutto. Un arabo
israeliano può acquistare proprietà solo da altri arabi
israeliani, mai da un ebreo; non può neanche acquistare
terre sequestrate ai palestinesi dei territori occupati
(queste devono andare solo agli ebrei); solo un ebreo invece
può acquistare da un arabo israeliano e solo un ebreo ha il
titolo di ricevere (quasi gratuitamente) proprietà
palestinesi sequestrate dallo stato israeliano nei territori
occupati. Ma non basta ancora; se un goy, che vive
fuori da Israele, volesse acquistare in Israele una villetta
o un appezzamento di terreno per costruirvi un albergo o
semplicemente per coltivarlo, non potrebbe farlo. La
proprietà della terra e delle case deve restare in mani
ebraiche, altrimenti si rischierebbe sempre di perdere
l’ebraicità della terra d’Israele. Potrebbe succedere, per
esempio, che una organizzazione di carattere umanitario
raccogliesse dei fondi e acquistasse terre e proprietà in
Israele e poi le lasciasse in eredità ad alcuni profughi
palestinesi del Libano o di altrove. Non sia mai! I
risultati della pulizia etnica sarebbero vanificati. Si
osservi il seguente paradosso: è ovvio che un ebreo
israeliano può acquistare proprietà in Europa, America o
altrove (molti israeliani hanno proprietà in due paesi) ma
un goy che vive fuori da Israele non può acquistare
proprietà in Israele. Cosa succederebbe se fosse proibito a
un ebreo di qualsiasi paese di acquistare proprietà in un
paese qualsiasi diverso da Israele? Sarebbe naturalmente
ritenuto antisemitismo da tutti gli ebrei del mondo. Ma
Israele non pratica forse una discriminazione simile o molto
simile all’antisemitismo contro gli arabi e i non-ebrei?
Dal punto di vista
politico le cose non stanno meglio. Vi è infatti una legge
che impedisce a qualsiasi partito o gruppo che non accetta i
principi del sionismo di presentarsi in parlamento o di
competere nella campagna elettorale. Se un gruppo di ebrei o
arabi israeliani o misto si presentasse alle elezioni con un
programma politico finalizzato alla trasformazione dello
stato sionista in uno stato democratico per ebrei e
palestinesi, esso verrebbe immediatamente escluso dalla
competizione elettorale e messo al bando. Vige poi un
sistema elettorale assolutamente antidemocratico e
discriminatorio nei confronti dei cittadini arabi di Israele
(20% della popolazione). Secondo questo sistema, alle
elezioni politiche, non si vota per candidati ma solo per
partiti, non ci sono cioè preferenze. Sono poi i dirigenti
dei partiti che decidono chi debba andare alla Knesset
(parlamento). In questo modo le direzioni dei partiti
discriminano pesantemente verso i palestinesi e portano al
parlamento solo un numero limitato di rappresentanti
palestinesi rispetto al numero dei votanti palestinesi. In
questo modo si fa votare i palestinesi per i sionisti. Ci si
aspetterebbe che quel 20% di elettori palestinesi fossero
rappresentati dal 20% di deputati. In realtà i deputati
palestinesi non superano mai il 10% degli eletti in
parlamento.
Ma la cosa più
abnorme è chiaramente il fatto che lo stato sionista non ha
ancora confini definiti. Sembrerebbe una cosa da niente ma
ha conseguenze assolutamente importanti e non solo
ripercussioni internazionali. In una democrazia liberale
come la Francia o la Gran Bretagna, tutti gli individui che
si trovano all’interno dei confini dello stato godono degli
stessi diritti politici. Questo non accade in Israele. Dopo
l’occupazione dei territori palestinesi nel 1967, Israele
allargò, unilateralmente, i suoi confini inglobando anche i
territori occupati dove oggi vivono quasi 4 milioni di
palestinesi. Ma queste persone pur essendo all’interno dei
confini che Israele riconosce come suoi (e provate ad
attraversarli e vedrete cosa vi succede!) non hanno mai
goduto dei diritti di cui godono gli ebrei e nemmeno dei
diritti dei già discriminati arabi israeliani. Viceversa gli
ebrei che vivono fuori dai confini riconosciuti a Israele
dalla comunità internazionale e che si sono stabiliti nei
territori occupati godono degli stessi diritti degli ebrei
di Israele, anzi ricevono particolari vantaggi economici e
legislativi proprio perché si sono stabiliti nei territori
occupati. Con le « trattative » di Oslo, Israele ha pensato
di risolvere questa contraddizione razzista. Si è visto come
è andato a finire, per Sharon e Olmert, ma anche per i
laburisti, cioè per tutti i sionisti, Israele deve
continuare a conservare gli stessi confini raggiunti dopo
la guerra del 1967 (la risoluzione 242 dell’ONU
sancisce invece che lo stato ebraico deve ritornare ai
confini di prima del 1967). Così lo stato dei
palestinesi, se mai sorgerà, sarà costituito dall’8% della
loro patria storica e verrà racchiuso, col Muro
dell’Apartheid, dentro il territorio israeliano. Esattamente
la stessa cosa che stava succedendo ai bantustans neri entro
la Repubblica Sudafricana di De Clerck e soci razzisti. La
lotta sionista è sempre stata la lotta per prendere la terra
dei palestinesi, senza i palestinesi e l’anomalia tutta
israeliana, che cioè i due partiti, il laburista e il likud,
sia in alternanza al governo sia più spesso uniti,
pratichino la stessa identica politica di pulizia etnica e
di discriminazione contro i palestinesi prova che questi
partiti hanno buttato alle ortiche i principi di uguaglianza
tra tutte le persone ed agiscono discriminando in base alla
razza e la religione delle persone che vivono in Palestina.
Fanno questo in nome degli interessi supremi della nazione
ebraica e dello stato-nazione sionista. Come può Israele
aspirare a diventare un paese normale?! Come può la comunità
internazionale definire Israele uno stato « democratico » e
accoglierlo nel suo seno permettendogli di fare tutto ciò
che vuole?! In realtà quando l’Occidente parla di « comunità
internazionale » intende solo se stesso. La vera comunità
delle nazioni non ha mai veramente e in modo democratico e
rappresentativo sancito la nascita di Israele. La
risoluzione sulla spartizione della Palestina, la 181, fu
imposta ai palestinesi quando l’ONU era costituito da soli
56 paesi [oggi sono 191] e fu votata a maggioranza ristretta
da paesi che nel 1947 non rappresentavano più del 18% della
popolazione mondiale di allora.
Sionismo e antisemitismo
Abbiamo parlato
dell’odio che i sionisti hanno per gli ebrei
assimilazionisti, a ragione del loro rifiuto di emigrare in
Israele. Quest’odio traspare evidente dalla lunga intervista
che un personaggio molto vicino a Sharon concesse allo
scrittore Amos Oz nel 1982, poco dopo la conclusione
dell’avventura militare israeliana in Libano:
Se anche lei mi
provasse – dice il nostro sionista all’intervistatore - con
matematica precisione che l'attuale guerra nel Libano è una
sporca guerra immorale, non m'importerebbe. Dirò di più:
anche se lei mi provasse che noi non abbiamo raggiunto e non
raggiungeremo mai alcuno dei nostri obbiettivi in Libano, e
che neppure potremo creare in Libano un regime amico né
sconfiggere i siriani e neppure 1'OLP, nemmeno allora mi
importerebbe. Questa guerra valeva comunque la pena di
farla. Anche se la Galilea venisse di nuovo bombardata dai
‘katjusha’ entro un anno, anche di questo in fondo non
m'importerebbe. Noi cominceremmo un'altra guerra,
uccideremmo e distruggeremmo ancora e ancora finché quelli
ne avranno abbastanza. E lo sa lei perché ne vale la pena?
Perché sembra che questa guerra ci abbia reso ancora più
impopolari presso il cosiddetto mondo civile.
Non sentiremo più
ripetere le assurdità sulla famosa moralità ebraica, sulla
lezione morale dell'olocausto o sulla immagine di purezza e
virtù degli ebrei emersa dalle camere a gas. Facciamola
finita. La distruzione di Eyn Hilwe (è un peccato che non
abbiamo spazzato via del tutto questo nido di calabroni [ si
tratta di un villaggio libanese, n.d.t.] ), il salutare
bombardamento di Beirut e quel modesto massacro (si può
chiamare massacro l'uccisione di cinquecento Arabi nei loro
campi?) che avremmo dovuto compiere con le nostre delicate
mani invece di lasciarlo fare ai falangisti, queste ottime
operazioni hanno troncato finalmente tutti quei merdosi
discorsi su ‘un popolo eccezionale, faro per tutte le
nazioni’. Basta con questo popolo eccezionale, buono, faro
di civiltà, sbarazziamocene.
Personalmente non
desidero affatto essere migliore di Komeini o di Breznev, o
di Gheddafi, di Assad o della signora Thatcher e nemmeno di
Harry Truman che ammazzò mezzo milione di giapponesi con due
belle bombe. Io voglio solo essere più intelligente, più
veloce e più efficiente di loro, non più buono o più bello..
secondo lei i cattivi di questo mondo se la passano male? se
qualcuno prova a toccarli, quelli gli tagliano le mani e
anche le gambe, sono cacciatori che inseguono e acchiappano
tutto quello che gli par buono da divorare. E non soffrono
di indigestione e il Cielo non li punisce. Io voglio che
Israele si associ a questo club cosi, forse, alla fine il
mondo comincerà a temermi invece di compatirmi. Forse allora
cominceranno a tremare, a temere il mio furore invece che
ammirare la mia nobiltà. Grazie a Dio! Lasciateli tremare,
lasciate che ci chiamino uno stato aggressivo, lasciate che
capiscano che siamo un paese selvaggio, pericoloso per i
popoli che ci circondano, non normale, e che potremmo
diventare feroci se uccidono uno dei nostri figli, anche uno
solo. Lasciate che pensino che potremmo perdere ogni
controllo e bruciare tutti i pozzi petroliferi del Medio
Oriente. Se, Dio non voglia, succedesse qualcosa a suo
figlio, lei parlerebbe come me. Si rendano conto a
Washington, a Mosca, a Damasco, in Cina che se uno dei
nostri ambasciatori venisse ammazzato o anche un console o
uno dei giovanissimi addetti d'ambasciata, noi potremmo
scatenare la terza guerra mondiale solo per questo. (…)
Mi lasci dire qual
è la cosa più importante, il frutto più dolce della guerra
in Libano: è che loro ora, non solo odiano Israele, ma
grazie a noi odiano anche quei feinschmecker [palati
delicati, n.d.t.] di ebrei di Parigi, Londra, New York,
Francoforte, Montreal che se ne stanno nei loro gusci. Alla
fine ora odiano anche queste belle anime di Yids che dicono
di essere diversi da noi di non essere come Thugs
israeliani, ma ebrei puliti ed educati. Ma non gli servirà a
niente, a questi Yids cosi per benino, come non è servito
all'ebreo assimilato di Vienna e di Berlino che pregava gli
antisemiti di non confonderlo con i vocianti e puzzolenti
giudei dell'est, perché lui si era liberato dai costumi
degli sporchi ghetti di Ucraina e Polonia. Lasciamoli
gridare che loro condannano Israele, che sono nel giusto,
che non vogliono far del male nemmeno a una mosca,
che preferiscono essere ammazzati che ammazzare, che si
sono assunti il compito di mostrare ai gentili come essere
buoni cristiani porgendo sempre l'altra guancia.. Questo non
gli porterà alcun vantaggio. Ora stanno subendo questo odio
a causa nostra. E io le confesso che per me questo è un
piacere. Questi sono gli stessi Yids che hanno convinto i
gentili a capitolare di fronte a quei bastardi di
vietnamiti, a mollare di fronte a Komeini, a Breznev, a
impietosirsi per lo sceicco Yamani a causa della sua
difficile infanzia e a fare l'amore e non la guerra. O
magari a non fare né l'una né l'altra cosa, piuttosto a
scrivere un saggio sull'amore e sulla guerra. Con tutto
questo abbiamo chiuso. L'ebreo è stato respinto, non solo ha
crocefisso Gesù, ma ha crocefisso anche Arafat a Sabra e
Chatila, ormai essi sono identificati con noi e questa è una
cosa buona, i loro cimiteri vengono dissacrati, le loro
sinagoghe incendiate, tutti gli epiteti sono stati
rispolverati, vengono espulsi dai club esclusivi, la gente
spara contro i loro ristoranti etnici, uccidendo anche i
bambini, costringendoli a cancellare tutte le insegne
ebraiche, costringendoli ad andarsene o a cambiare
professione.
Ben presto i loro
palazzi verranno coperti da slogan: Yids, andate in
Palestina e sa che le dico? Loro verranno in Palestina
perché non avranno altra scelta! Questo è il vantaggio che
abbiamo ricevuto dalla guerra in Libano. Mi dica, non valeva
la pena? Presto avremo tempi migliori. Gli Ebrei
cominceranno ad arrivare, gli israeliani smetteranno di
andar via e coloro che se ne sono già andati torneranno.
Quelli di loro che hanno scelto l'assimilazione capiranno
finalmente che non gli serve a niente cercare di essere la
coscienza del mondo. La coscienza del mondo si prenda nel
culo quello che non gli è entrato nella testa. I Gentili si
sono sempre sentiti insofferenti verso gli ebrei e la loro
coscienza e ora gli Yids hanno una sola via d'uscita,
tornare a casa, tornarci tutti, presto, per installare
grosse porte d'acciaio, per costruire una robusta barriera,
per avere mitragliatrici posizionate in ogni angolo della
loro barriera e combattere come diavoli contro chiunque osi
alzare la voce contro questo paese. E se qualcuno alza la
mano contro di noi gli porteremo via metà della sua terra e
bruceremo l'altra metà, incluso il petrolio. Possiamo anche
usare le armi nucleari. Andremo avanti finché non ce la
faranno più.
Ancora oggi sono
disposto a offrirmi volontario per fare il lavoro sporco per
Israele, per uccidere quanti Arabi è necessario, per
deportarli, per espellerli e bruciarli in modo che tutti ci
odino, per togliere il tappeto da sotto i piedi degli ebrei
della diaspora cosi che essi siano costretti a correre da
noi piangendo. Anche se ciò significa vedere saltare per
aria una o due sinagoghe qua e la, non m'importa. E non mi
preoccupo se a lavoro finito sarò messo di fronte al
tribunale di Norimberga e poi messo in carcere a vita.
Impiccatemi se volete come criminale di guerra. Cosi voi
potete ripulire la vostra ebraica coscienza ed entrare nel
rispettabile club delle nazioni civili, che sono ampie e
sane. Ciò che voi tutti non capite è che il lavoro sporco
del sionismo non è ancora finito. Siamo ancora lontani dalla
fine. E' vero, avrebbe potuto essere finito nel 1948, ma voi
avete interferito, lo avete fermato. E tutto questo a causa
della ebraicità delle vostre anime, a causa della vostra
mentalità di diaspora. (…) Perciò sono contento che questa
piccola guerra in Libano abbia spaventato gli Yids. Si
spaventino pure, soffrano, cosi si affretteranno a tornare a
casa prima che venga buio del tutto. Per questo, io sarei un
antisemita? Bene. Allora non citi me, citi Lilienblum che
non è sicuramente antisemita, tanto è vero che una strada di
Tel Aviv porta il suo nome.
(l’intervistato
cita leggendo in un quadernetto che era sul suo tavolo)
Tutto ciò che
sta accadendo non è forse un segno che i nostri antenati
vollero e noi stessi vogliamo, essere perseguitati, che a
noi piace vivere come zingari..
e questo è
Lilienblum a dirlo, non io. Mi creda ho studiato la
letteratura sionista, posso provare quello che dico. E
scriva pure che io sono una disgrazia per l'umanità. Non me
ne importa, anzi. Facciamo un patto: io farò tutto il
possibile per espellere gli Arabi da qui. Io farò tutto il
possibile per incrementare l'antisemitismo e lei scriverà
poesie e saggi sull'infelicità degli Arabi e si preparerà ad
assorbire gli Yids che io costringerò a rifugiarsi in questo
paese e ai quali insegnerò ad essere un faro per i Gentili.
Cosa ne dice? (Intervista pubblicata sul quotidiano
israeliano Davar, il 17 dicembre 1982. http: //www.
counterpunch.org/pipermai1/counterpunch-1ist/2001-September/013054.htm1)
L’intervista che
abbiamo appena letto è vera al cento per cento, ce lo
garantisce lo scrittore Amos Oz, tra l’altro un sionista lui
stesso, il quale però si rifiutò di dire il nome della
persona intervistata in quanto per poter raccogliere i suoi
propositi Oz aveva promesso che non avrebbe mai svelato il
nome. Si è a lungo discusso se l’intervistato non fosse in
realtà proprio Sharon e si è detto che Oz non abbia voluto
svelare il nome per ragioni politiche visto che il
personaggio era allora ai vertici della politica israeliana.
I propositi sionisti sono stati attribuiti a Shlomo Baum o a
Motta Gur, personaggi vicinissimi ideologicamente a Sharon.
Il primo, non solo ideologicamente visto che negli anni ’50
era il vice di Sharon nella famigerata Unità 101, diretta
proprio da Sharon, un reparto speciale dell’esercito che si
macchiò di varie stragi a Gaza e in Cisgiordania. Chi sia la
persona intervistata, in realtà, non ha molta importanza. Le
cose importanti da dire sono prima di tutto che l’intervista
è sicuramente vera, e poi che i contenuti dell’intervista
corrispondono ad un modo di pensare che non è fuori dal
mondo ma al centro del sionismo, una volta che esso viene
sfrondato dalla sua retorica. Quest’ultimo fatto è
confermato dallo stesso Oz che successivamente
all’intervista affermò di aver ricevuto lettere di numerose
persone le quali « si presero il fastidio di scrivere per
esprimere la loro totale identificazione con
le parole del personaggio » [appendice alla traduzione
inglese dell’intervista, apparsa in The Land of Israel,
London, 1983, pp. 85-100; traduzione e corsivo miei]. Il
personaggio, comunque, ci spiega molto chiaramente che sono
i sionisti i primi ad odiare quegli ebrei che si rifiutano
di emigrare in Israele e che vogliono integrarsi nel paese
d’origine. Egli ci spiega anche come l’antisemitismo sia
funzionale, anzi indispensabile al sionismo, perché esso
spinge gli ebrei in Palestina. Anzi egli dice che vuole fare
« il lavoro sporco » perché si sviluppi l’antisemitismo e
questo spaventi gli ebrei assimilazionisti e li spinga in
Palestina.
Se i sionisti
hanno così tanto bisogno dell’antisemitismo è forse
sorprendente che si siano alleati con i peggiori antisemiti
della storia? E’ sorprendente che essi accusino gli ebrei
marxisti, internazionalisti o assimilazionisti di essere «
palati delicati », « ebrei puliti ed educati » o peggio «
ebrei che odiano se stessi »? Il sionista intervistato vuole
attizzare l’antisemitismo, vuole far odiare gli ebrei per
farli fuggire in Israele, per farli contribuire ad ulteriori
pulizie etniche, ulteriori massacri di palestinesi.
D’altronde il binomio sionismo-antisemitismo era contenuto
nella definizione stessa del nazionalismo ebraico. Fin
dall’inizio della sua affermazione, l’approccio sionista
alla questione ebraica sembrava calcato sulla teoria
antisemita. Come gli antisemiti, i sionisti sostenevano che
gli ebrei costituivano una presenza estranea nelle società
europee le quali « appartenevano » per diritto naturale alle
popolazioni prevalenti. L’antisemitismo era anzi per loro
una cosa non del tutto negativa in quanto costituiva
l’impulso naturale di una società organica che si sentiva
minacciata, quasi « infettata » da una comunità estranea, un
corpo alieno. D’altra parte l’antisemitismo aveva
decisamente l’aspetto positivo (per i sionisti) di operare
contro l’assimilazione degli ebrei nel corpo sociale
prevalente. L’assimilazione era temuta dagli antisemiti ma
era anche quello che temevano i sionisti, cioè che gli ebrei
perdessero le loro caratteristiche culturali, religiose e di
razza, fondendosi con i popoli. Al contrario, i sionisti
lottavano perché gli ebrei conservassero integro tutto il
loro patrimonio. Solo se le società prevalenti rigettavano,
con il loro antisemitismo, tutti gli ebrei sarebbe stato
possibile ai sionisti convincerli ad emigrare in Palestina e
costituire lo stato per soli ebrei. Una società liberale,
democratica e tollerante che avesse incoraggiato
l’integrazione e l’assimilazione degli ebrei nel suo grembo
avrebbe rappresentato per il sionismo la più grande
minaccia. Il sionismo non ha mai cercato di combattere
l’antisemitismo (solo gli ebrei assimilazionisti hanno
interesse a farlo e lo fanno effettivamente). Esso ha più
che altro cercato un modus vivendi con
l’antisemitismo. Da qui la collaborazione col nazismo e col
fascismo a cui abbiamo accennato. Da qui le sorprendenti
frasi che riportiamo di seguito, con i loro autori, e che
possono essere comprese solo se si tiene in debito conto la
vera natura del sionismo che noi abbiamo cercato di
smascherare.
“Ogni paese può
assorbire solo un numero limitato di ebrei, se non vuole
avere disturbi nello stomaco. La Germania ha già troppi
ebrei.” [Chaim Weizman, presidente dell'Organizzazione
sionista mondiale, futuro presidente di Israele, (1912)
citato in Lenni Brenner, “Zionism in the Age of the
Dictators”, cap. 3].
“Anche noi siamo
d'accordo con l'anti-semitismo culturale, in quanto che noi
crediamo che i tedeschi di fede mosaica siano un fenomeno
indesiderabile e demoralizzante.” [Chaim Weizman, presidente
dell'Organizzazione sionista mondiale e futuro presidente di
Israele, “The letters and papers of Chaim Weizman”, Letters,
Vol. 8, p. 81, 1914].
“L'ebreo è una
caricatura di un essere umano normale e naturale, sia
fisicamente che spiritualmente. Come individuo nella società
si rivolta e butta via le briglie degli obblighi sociali,
egli non conosce né ordine, né disciplina.” [Our Shomer
“Weltanschauung”, articolo scritto nel 1917 e pubblicato nel
dicembre 1936 in Hashomer Hatzair, p, 26, organo
dell'Organizzazione Giovanile Sionista].
“Noi ebrei, noi i
distruttori, rimarremo dei distruttori per sempre. Nulla che
voi facciate darà soddisfazione ai nostri bisogni e alle
nostre esigenze.Noi distruggeremo sempre perché noi abbiamo
bisogno di un mondo tutto nostro, un mondo divino, che non è
nella vostra natura di poter costruire ... quelli tra di noi
che non riescono a capire questa verità saranno sempre gli
alleati delle vostre fazioni ribelli, fin quando non
giungerà la disillusione, il destino maledetto che ci sparse
in mezzo a voi ci ha assegnato questo sgradito ruolo.”
[Maurice
Samuel, “You Gentiles”, p. 155,1924].
“Se noi [sionisti,
ndt] non ammettiamo che gli altri abbiano il diritto di
essere anti-semiti, allora noi neghiamo a noi stessi il
diritto di essere nazionalisti. Se il nostro popolo merita e
desidera vivere la propria vita nazionale, è naturale che si
senta un corpo alieno costretto a stare nelle nazioni tra le
quali vive, un corpo alieno che insiste ad avere una propria
distinta identità e che perciò è costretto a ridurre la
sfera della propria esistenza. E' giusto, quindi, che essi
[gli anti-semiti,ndt] lottino contro di noi per la loro
integrità nazionale. Invece di costruire organizzazioni per
difendere gli ebrei dagli anti-semiti, i quali vogliono
ridurre i nostri diritti, noi dobbiamo costruire
organizzazioni per difendere gli ebrei dai nostri amici che
desiderano difendere i nostri diritti.”
[Jacob
Klatzkin, (1925), citato in Jacob Agus, “The Meaning of
Jewish History”, in “Encyclopedia Judaica”, vol II, p. 425].
“Ho elaborato una
filosofia del Giudaismo affine alla Tendenz spirituale del
Fascismo molto prima che quest'ultimo fosse diventato la
regola nella società politica italiana.” [Alfonso Pacifici
ideologo del sionismo italiano, intervistato da Guido
Bedarida, 1932].
“Per i sionisti,
il nemico è il liberalismo; esso è anche il nemico per il
nazismo; ergo, il sionismo dovrebbe avere molta simpatia e
comprensione per il nazismo, di cui l'anti-semitismo è
probabilmente un aspetto passeggero.”
[Harry Sacher,
Jewish Review, settembre 1932, p. 104, Londra].
“L'hitlerismo ...
ci ha reso per lo meno un servizio dal momento in cui non ha
tracciato una linea di demarcazione tra l'ebreo religioso e
l'ebreo apostata. Se Hitler avesse fatto eccezione per gli
ebrei battezzati [al cristianesimo], avremmo assistito allo
spettacolo poco edificante di migliaia di ebrei che
correvano a battezzarsi. L'hitlerismo ha forse salvato
l'ebraismo tedesco, che stava assimilandosi fino
all'annichilimento.”
[Chaim Bialik,
“Palestine and the Press, New Palestine, 11 dicembre 1933].
“Vi
dico che voi siete più potenti del Signor Hitler (...) noi
tutti lo seppelliremo. Ma dovete creare uno Stato ebraico.
Sono sionista, io. L'ho detto già al Dr. Weizmann. Dovete
avere un vero Stato ebraico e non il ridicolo Home National
che gli inglesi vi hanno offerto. Vi aiuterò a creare uno
Stato ebraico. La cosa più importante è che gli ebrei
abbiano fiducia nel loro avvenire e non si lascino
spaventare da quell'imbecille di Berlino”. [Benito Mussolini
a Nahum Goldman dell'Agenzia Ebraica internazionale
(sionista), il 12 novembre 1934].
“E' un fatto
innegabile che gli ebrei presi collettivamente sono infermi
e neurotici. Quei professionisti ebrei che, colpiti sul
vivo, negano sdegnosamente questa verità sono i più grandi
nemici della loro razza, perchè guidano gli altri ebrei alla
ricerca di false soluzioni, o, al massimo, di palliativi.”
[Ben
Frommer, sionista revisionista, (1935), “The Significance of
a Jewish State”, in Jewish Call, maggio 1935, p. 10].
“I
membri delle organizzazioni sioniste non devono essere, date
le loro attività dirette verso l'emigrazione in Palestina,
trattati con lo stesso rigore che invece è necessario nei
confronti dei membri delle organizzazioni ebraico-tedesche
(cioè gli assimilazionisti).” [Circolare della Gestapo
bavarese indirizzata al corpo di polizia bavarese, 23
gennaio, 1935, pubblicata in Kurt Grossman, “Zionists and
Non-Zionists under Nazi Rule in the 1930's”, Herzl Yearbook,
vol VI, p. 340].
“Il momento non
può più essere lontano ormai in cui la Palestina sarà in
grado di nuovo di accogliere i suoi figli che aveva perduto
da oltre mille anni. I nostri buoni auguri e la nostra
benevolenza ufficiale li accompagnino.” [Reinhardt
Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS, “The Visible
Enemy”, articolo pubblicato in Das Schwarze Korps, organo
ufficiale delle SS, maggio 1935].
“Hitler tra
qualche anno sarà dimenticato, ma avrà un bellissimo
monumento in Palestina. Sapete, la venuta dei nazisti è
stato un avvenimento piuttosto benvenuto. Vi erano tanti dei
nostri ebrei tedeschi che pendevano tra due sponde; tanti di
loro navigavano nella corrente ingannatrice tra la sponda di
Scilla dell'assimilazione e quella di Cariddi di una
conoscenza compiaciuta delle cose ebraiche. Migliaia di loro
che sembravano completamente perduti per l'ebraismo furono
riportati all'ovile da Hitler, e per questo io sono
personalmente molto riconoscente verso di lui.”
[Emil Ludwig,
intervistato da Meyer Steinglass, “Emil Ludwig before the
Judge”, American Jewish Times, aprile, 1936, p. 35].
“Uno stato
costruito sul principio della purezza della nazione e della
razza (cioè la Germania Nazista) può solo avere rispetto per
quegli ebrei che vedono se stessi allo stesso modo.”
[Joachim Prinz,
(1936), citato in Benyamin Matuvo, “The Zionist Wish and the
Nazi Deed”, Issues, (1966/67), p. 12].
“Le speranze dei
sei milioni di ebrei europei si fondano sull'emigrazione. Mi
è stato chiesto: 'Puoi portare sei milioni di ebrei in
Palestina?' Ho risposto, 'No' ... Dal profondo della
tragedia voglio salvare ... dei giovani [per la Palestina].
I vecchi passeranno. Sopporteranno il loro destino o non lo
faranno. Sono polvere, polvere economica e morale in un
mondo crudele ... Solo il ramo giovane sopravviverà.
Dovranno accettarlo.” [Chaim Weizmann, futuro primo
presidente di Israele, nel discorso al Congresso Sionista
del 1937 nel quale riporta le sue risposte davanti alla
Commissione Peel, Londra, luglio 1937. Citato in 'Yahya', p.
55].
“Per i sionisti
era molto disagevole operare. Era moralmente imbarazzante
sembrare essere considerati i figli prediletti del governo
Nazista, in particolare proprio nel momento in cui esso
scioglieva i gruppi giovanili (ebraici) antisionisti, e
sembrava preferire per altre vie i sionisti. I nazisti
chiedevano un 'comportamento più coerentemente sionista'.”
[Joachim
Prinz, “Zionism under the Nazi Government”, in Young
Zionist, Londra, novembre 1937, p. 18].
“Lo stato sionista
deve essere fondato con ogni mezzo e appena possibile ...
Quando lo stato ebraico sarà stato fondato secondo le
attuali proposte contenute nel documento della Commissione
Peel, e in linea con le promesse parziali dell'Inghilterra,
allora i confini potranno essere spostati ulteriormente in
avanti secondo i nostri desideri.”
[Feivel Polkes a
Adolf Eichman, citato in Klaus Polkehn, “The Secret
Contacts: Zionism and Nazi Germany 1933-41”, Journal of
Palestine Studies (primavera 1976), p. 74.
Citato anche in
Lenni Brenner, Op. Cit. cap. 8].
“Se sapessi che è
possibile salvare tutti i bambini (ebrei) di Germania
portandoli in Inghilterra e solo metà di essi portandoli in
Eretz Israel, allora opterei per la seconda alternativa.”
[Ben-Gurion nel suo discorso ad una assemblea di Sionisti
Laburisti in Gran Bretagna nel 1938].
“Per essere un
buon sionista uno deve essere in qualche modo un
antisemita.”
[Chaim
Greenberg, “The Myth of Jewish Parasitism”, Jewish
Frontiers, marzo, 1942, p. 20].
“Se mi viene
chieso, 'Potresti dare una parte dei soldi dell'Unione delle
Agenzie Ebraiche per salvare gli ebrei (in Germania), io
dico NO! E ripeto NO!” [Izaak Greenbaum – capo del Comitato
di Soccorso dell'Agenzia Ebraica (Jewish Agency Rescue
Committee) – rivolto al Consiglio Esecutivo Sionista, il 18
febbraio 1943].
“Una mucca in
Palestina vale più di tutti gli ebrei in Polonia.” [Izaak
Greenbaum – capo del Comitato di Soccorso dell'Agenzia
Ebraica (Jewish Agency Rescue Committee) – rivolto al
Consiglio Esecutivo Sionista, il 18 febbraio 1943].
“Finanche nel
1943, mentre gli ebrei d'Europa venivano sterminati a
milioni, il Congresso americano propose di istituire una
commissione per 'studiare' il problema. Il rabbino Stephen
Wise, che era il principale portavoce sionista in America,
si recò a Washington per testimoniare contro il progetto di
legge perché esso avrebbe sviato l'attenzione (degli ebrei)
dalla colonizzazione della Palestina. Si tratta dello stesso
rabbino Wise che, nel 1938, in quanto dirigente del
Congresso ebraico d'America, scrisse una lettera nella quale
si opponeva a qualsiasi cambiamento della legislazione
americana sull'immigrazione, cambiamento che avrebbe
permesso agli ebrei di trovare accoglienza. In quella
lettera scriveva: 'Può essere d'interesse per voi sapere che
alcune settimane fa i dirigenti delle più importanti
organizzazioni ebraiche si sono riuniti in una conferenza
... Vi si è deciso che, in questo momento, nessuna
organizzazione ebraica avrebbe sponsorizzato una legge
destinata a cambiare in qualsiasi modo la legislazione
sull'immigrazione'.”
[Citato in Lenni
Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”, p. 149].
Abbiamo concluso
il nostro viaggio nell’inferno del sionismo. Pur di giungere
alla creazione di uno stato ebraico in Palestina, esso si è
alleato con i peggiori antisemiti e con lo stesso nazismo.
Si ricordino di questo, coloro che con troppa leggerezza
ripetono pappagallescamente l’infamante accusa di
antisemitismo rivolta da Israele e dai sionisti a coloro
che combattono il sionismo. Sono i sionisti che hanno
bisogno dell’antisemitismo. Al punto che quando questa
vergognosa forma di razzismo non c’è o è molto debole, come
ai giorni nostri, i sionisti fanno di tutto per suscitarlo o
per gonfiarlo e poterlo sbandierare come reale minaccia e
favorire quindi l’emigrazione in Israele, la politica
sionista in generale nonché per nascondere i crimini dello
stato d’Israele contro i palestinesi. Poco importa ai
sionisti se a soffrirne siano i loro stessi fratelli,
colpevoli di non essere sionisti come loro e di non volersi
macchiare dei crimini di Israele contro i palestinesi e gli
arabi
Ebrei
antisionisti, vantaggi della Diaspora e l’unica soluzione in
Palestina
Bertell Ollman non
è l’unico ebreo che si vergogni del tenebroso passato
sionista. Non è l’unico ebreo a dichiararsi antisionista.
Gli ebrei in Palestina sono circa poco meno, o poco più, di
5 milioni. Ma la popolazione ebraica mondiale supera i 20
milioni. Israele non è mai riuscito quindi a diventare lo
stato di tutti gli ebrei e nemmeno della maggioranza di
essi. Questo evidentemente perché la maggioranza degli ebrei
nel mondo preferisce vivere in Europa, in America, in
Russia, in Australia o altrove. Non si sente poi tanto
perseguitata. In realtà gli unici ebrei che rischiano molto
di più degli altri sono gli ebrei di Israele. Ma non per l’«
antisemitismo » degli arabi, che non esiste, ma proprio a
causa della pulizia etnica che hanno praticato e praticano
contro i palestinesi e tutte le prepotenze che hanno
commesso nei confronti degli altri popoli del Medio Oriente.
Il mondo che ci descrivono i sionisti, un mondo cioè in cui
i popoli del pianeta non aspettano altro se non la minima
occasione per scatenare l’antisemitismo e la persecuzione
degli ebrei, non esiste. Lo dimostra proprio il fatto che la
maggior parte degli ebrei vive tranquilla, anzi tranquilla e
in prosperità per lo più, fuori da Israele. La cosa è tanto
più vera perché sono moltissimi gli stessi ebrei sionisti,
accesi sostenitori del diritto all’esistenza dello stato
sionista, che non si sognerebbero nemmeno di andare nello «
stato ebraico » accontentandosi da una parte, certo, di fare
nel paese in cui vivono gli interessi di Israele, ma
dall’altra, godendo tutti i vantaggi dell’essere ebrei della
Diaspora. Perché allora lo stato sionista? I sionisti
rispondono che esso dovrebbe servire come ultimo baluardo
contro il pericolo, sempre reale, secondo loro, di un nuovo
Olocausto. Ma si contraddicono da soli. Quando paventano
un nuovo olocausto, i sionisti non si riferiscono tanto ad
una minaccia proveniente dall’Occidente, quanto ad una
minaccia « molto concreta » proveniente dai popoli arabi. I
popoli arabi, essi dicono, non vogliono gli ebrei in
Palestina, vogliono « buttarli a mare ». Questo, secondo i
sionisti, è il significato dell’appello degli arabi di «
distruggere Israele », di « spazzarlo via dalla carta
geografica ». Gli arabi, secondo Israele, vogliono «
uccidere tutti gli ebrei », vogliono compiere « un nuovo
Olocausto ». I sionisti sostengono inoltre che gli arabi
covano questo progetto criminale, non perché Israele ha
preso la terra dei palestinesi (quella sarebbe una scusa) ma
in verità perché essi sono « antisemiti ». Perché allora,
con la fondazione di Israele, andarsi a buttare in braccia
ad un coacervo di popoli « antisemiti »? Israele, nella sua
propaganda (perché di vera e propria propaganda si tratta)
si rivolge all’Occidente, il quale è stato storicamente la
culla dell’antisemitismo, nella sua storia ha perseguitato
realmente gli ebrei, e infine ha compiuto l’Olocausto. E
rivolgendosi a questo Occidente, attribuisce volontà di
sterminio ad un Oriente arabo e musulmano che invece in
tutto il suo passato non ha mai perseguitato gli ebrei, che
non ha mai compiuto olocausti. Un Oriente che ha, semmai,
accolto gli ebrei cacciati dalla Spagna (1492) e da altre
parti d’Europa. Gli storici hanno dimostrato che è proprio
nel mondo arabo e musulmano che è fiorito il meglio della
cultura ebraica; nella Spagna prima del 1492, nell’impero
Ottomano, in Turchia, a Baghdad, a Damasco, in Marocco. E
mentre in Occidente gli ebrei, in parte si auto-escludevano
e, in parte venivano esclusi dalle correnti di pensiero e
dalla cultura occidentale, in Oriente e in Nord Africa essi
si inserivano armoniosamente nelle culture islamiche e
davano, per secoli, un contributo apprezzato e ben accolto a
tutte le correnti di pensiero che in quelle regioni si
sviluppavano. In Occidente, solo dopo la rivoluzione
francese e la duplice emancipazione degli ebrei dalle
autorità religiose delle loro comunità e dall’oppressione
degli stati monarchici cristiani sulle comunità, gli ebrei
hanno potuto dare il loro contributo alle rivoluzioni
sociali e politiche, agli sviluppi scientifici e culturali
degli ultimi 200 anni.
La storia dice che
gli arabi non sono mai stati antisemiti; in Oriente e in
Nord Africa le comunità ebraiche sefardite hanno vissuto
pacificamente con i musulmani per millenni, senza essere
confinate in ghetti, senza essere perseguitate, senza essere
espulse.
E adesso i
sionisti, parlando all’Occidente, adombrano la minaccia di
un nuovo olocausto che gli arabi si preparerebbero a
compiere. L’espressione « buttare gli ebrei a mare » è stata
attribuita dalla propaganda sionista a Gamal Nasser. Di
recente, William James Martin, dell’Università della
Florida, si è preso la briga di andarsi a leggere tutti i
discorsi ufficiali pronunciati da Nasser nella sua vita
politica ed ha scoperto che questa frase non è stata mai
pronunciata dal leader egiziano, mai, nemmeno nei suoi
discorsi più infuocati. Martin ha scoperto, invece, che
questa frase compare per la prima volta l’11 ottobre 1961 in
un discorso di ….. David Ben-Gurion, allora Primo Ministro
dello stato di Israele, il quale attribuisce questo intento
ai suoi nemici.
(Vedi: William
James Martin, Who is pushing whom into the sea?
Counterpunch, 11 marzo, 2005). Lo stesso intento genocida è
stato, in seguito, attribuito ad Arafat e all’OLP. Nella
carta dell’OLP, un tempo, compariva in realtà l’espressione
« distruzione di Israele », questo avveniva prima che
cominciassero le trattative di Oslo. Cosa stava a
significare quell’espressione? Gli israeliani e gli
americani lo sapevano bene ma finsero che quelle parole
rappresentassero la volontà di un nuovo olocausto e quindi
pretesero che fossero cancellate e che l’OLP riconoscesse il
« diritto di Israele ad esistere » preliminarmente
all’inizio delle trattative stesse. L’OLP accettò, e fu il
più grande errore di Arafat e del suo partito Fatah. La
vittoria di Hamas oggi è la conseguenza storica
di questo
errore. Eppure era chiaro quello che significava
quell’espressione incriminata e i palestinesi cercarono più
volte di spiegarlo all’Occidente. Ma non c’è peggior sordo
di chi non vuole sentire. L’espressione « distruggere
Israele » non voleva dire « buttare gli ebrei a
mare ».
Voleva dire ciò che diceva, cioè distruggere lo stato
sionista per
soli ebrei che
Israele rappresentava e rappresenta. Nella carta dell’OLP lo
stato sionista doveva essere sostituito con uno «stato
democratico » per ebrei e palestinesi. In Sud Africa la
distruzione dello stato razzista di apartheid dei soli
bianchi non si è risolto nello « buttare a mare » tutti i
bianchi. Oggi in Sud Africa, i neri, i bianchi, la
popolazione di origine indiana e religione indù (vi è una
discreta comunità indiana presso la quale soggiornò per
qualche tempo lo stesso Gandhi), la comunità ebraica (circa
150 000 ebrei lituani) vivono in pace e costruiscono
un’esperienza esemplare di società multirazziale, tollerante
e concorde. Non è un caso che una delle prime decisioni di
Nelson Mandela, presidente di questa vera democrazia
multirazziale, sia stata quella di denuclearizzare il paese,
rinunciando cioè alla bomba atomica e alla bomba H che il
regime di Apartheid aveva costruito segretamente con
Israele. E il Sud Africa sarà ancor di più, non c’è dubbio,
un esempio per il mondo, man mano che il retaggio
dell’apartheid verrà cancellato. Lo stesso era il programma
dell’OLP per la Palestina. Questo è ancora il programma di
una componente dell’OLP, il Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina (FPLP), questo deve essere il
programma di tutti i veri democratici, altro che riconoscere
il « diritto di Israele ad esistere ». Questo « diritto » di
Israele si concretizza nel « non-diritto » dei Palestinesi a
vivere liberi in uno stato democratico sulla loro terra; si
concretizza nel « non-diritto » dei profughi a tornale nei
villaggi e città dai quali furono cacciati nel 1948 e nel
1967. Eppure il diritto al ritorno dei palestinesi è sancito
nella risoluzione 194, votata l'11 dicembre del 1948
dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e confermata dal
Consiglio di Sicurezza. Essa prevede il ritorno dei profughi
del 1948 nei luoghi dove risiedevano prima della guerra.
Stabilisce che ad ogni profugo sia garantito di poter
scegliere se vuole o non vuole vivere all'interno dei
confini di Israele. Il paragrafo 11 della risoluzione
esplicitamente conferma il diritto dei profughi palestinesi
che scelgano di usufruire del diritto al ritorno, di poter
tornare « alle loro originali residenze e paesi dai quali
sono stati allontanati durante la guerra ». Per coloro che
scelgano di non avvalersi del diritto al ritorno, il
paragrafo 11 prevede « indennizzi ». Il paragrafo 2
istituisce espressamente, presso le Nazioni Unite, la
Commissione di Conciliazione per la Palestina (UNCCP), con
sede a Gerusalemme, la quale ha il compito di far in modo
che sia realizzato proprio quel diritto al ritorno. Israele
si rifiuta di applicare quella risoluzione (come tante
altre); non lo ha mai fatto e ha dichiarato che non lo farà
mai. Perché? Perché se si realizzasse il ritorno dei
profughi palestinesi nello stato di Israele, Israele non
sarebbe più uno stato sionista, uno stato « ebraico »,
evolverebbe verso uno stato democratico multirazziale, un
paese normale insomma. E’ di uno stato del genere che
parlano ormai tanti ebrei antisionisti.
La novità è
proprio questa, che adesso anche tanti ebrei, in Israele e
fuori, sono giunti su questa posizione. Oltre a Bertell
Ollman, vi sono lo storico e militante politico Lenni
Brenner, lo scrittore e musicista Gilad Azmon, lo scrittore
e giornalista Israel Adam Shamir, la scrittrice e
giornalista Daphna Baram, il ricercatore Gary Zatzman, lo
storico e professore universitario americano Norman
Finkelstein, lo storico e professore universitario
israeliano Ilan Pappe, lo scienziato Mordechai Vanunu,
l’ex-sindaco di Gerusalemme Meron Benvenisti, il militante
di sinistra l’israeliano Haim Hanegbi. Il regista israeliano
Eyal Sivan, il filosofo francese Edgar Morin, lo scrittore e
filosofo americano Michael Neumann, e poi i giornalisti e
militanti o scrittori antisionisti Oren Ben-Dor, Ben
Merhav, Noah Cohen, Noel Ignatiev, Yerach Gover, Jeff
Blankfort, i giornalisti e editori del giornale on line
‘Israel Imperial News’, Akiva Orr, Shimon Tzabar, Moshé
Machover, Tzivi Havkin, Rami Heilbron e tanti, tanti altri,
senza dimenticare l’organizzazione religiosa ebraica di
NatureiKarta. In Israele è stata fondata l’Associazione per
un Solo Stato Democratico in Palestina/Israele.
Gli ebrei
antisionisti si rendono perfettamente conto della strada
pericolosa che ha intrapreso lo stato sionista di Israele,
si rendono anche conto dei benefici che la Diaspora ha
portato agli ebrei che, dopo l’Olocausto, hanno scelto di
vivere fuori da Israele. Lo storico inglese Eric Hobsbawm,
di origine ebraica, ha recentemente fatto notare che il
contributo degli ebrei di Israele alla scienza, all’arte e
allo spettacolo è piuttosto « deludente » mentre è di
tutt’altro tenore quello degli ebrei della diaspora.
Hobsbawm si chiede perché accade ciò. La causa, secondo lui
è « la segregazione, vuoi del tipo precedente alla
emancipazione, vuoi la segregazione dovuta alla scelta
nazionalistica territoriale-genetica di Israele ».
(Eric Hobsbawm,
Benefits of Diaspora, London Review of Books, vol
27, n° 20, 20 ottobre 2005).
Egli scrive:
Nella maggior
parte del mondo [all’Olocausto] è seguita un’epoca di
accettazione pubblica degli ebrei quasi illimitata, dalla
scomparsa virtuale dell’antisemitismo e della
discriminazione (…). E da conquiste ebraiche senza
precedenti e paragoni nel campo della cultura,
dell’intelletto e degli affari pubblici. Non vi è alcun
precedente storico del trionfo dell’Aufklärung (illuminismo)
della Diaspora del dopo Olocausto. Tuttavia, vi sono coloro
che desiderano allontanarsi da questo trionfo per
rinchiudersi nell’antica segregazione della religione ultra
ortodossa e nella nuova segregazione di una separata
comunità-stato etnico-genetica [Israele, ndt]. Se costoro
dovessero aver successo io non penso che sarà una buona cosa
per gli ebrei o per il mondo. (Ibidem )
Hobsbawm,
riferendosi a Israele, usa l’espressione «separata
comunità-stato etnico-genetica». È solo il pudore di un
ebreo che non gli fa definire Israele per quello che esso
effettivamente è. Hobsbawm non vuole essere troppo duro con
lo stato sionista, per cui non lo chiama direttamente «stato
razzista». La sostanza però è quella. Tuttavia dobbiamo
essere grati allo storico inglese di aver puntualizzato il
fatto che mentre gli ebrei della diaspora danno vita ad un
trionfo dell’illuminismo ebraico che (in Occidente) non vi
era mai stato prima, in Israele una minoranza sionista di
ebrei si è caratterizzata come stato razzista di Apartheid.
L’ultimo stato razzista del nostro tempo, aggiungiamo, e in
più, uno stato espansionista, guerrafondaio, una reale
minaccia alla pace mondiale. A questo ha portato il
sionismo.
Poco dopo
l’orrendo massacro della prima guerra mondiale un ebreo
della dispora, Franz Rosenzweig, riflettendo sulle
sanguinose responsabilità dei vari « nazionalismi » e «
patriottismi » nella carneficina, esaltava il popolo ebraico
proprio perché esso alla morta terra anteponeva i vincoli
umani, proprio perché esso era l’unico popolo che non aveva
una patria, una terra per cui uccidere e morire.
Attorno alla terra
della patria – egli scrisse - scorre il sangue dei suoi
figli; essi infatti non confidano in una comunità (…)
che non sia ancorata al saldo suolo della terra. Noi
soltanto (…) lasciammo la terra; così risparmiammo il
prezioso succo della vita, che ci offriva garanzia della
nostra stessa eternità e, unici tra tutti i popoli della
terra, separammo il nostro elemento vitale da ogni comunanza
con ciò che è morto. Infatti la terra nutre ma al tempo
stesso lega. E’ la patria, in cui la vita di un popolo del
mondo prende dimora e scava il suo solco nella terra, fin
quasi a dimenticare che essere un popolo vuol dire anche
qualcos’altro che non il semplice essere insediati in un
paese, per il popolo eterno la patria non diviene mai sua in
tal senso; a lui non è concesso incanaglirsi a casa propria,
ma mantiene sempre l’indipendenza di un viaggiatore. (F.
Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di G
Botola, Casale Monferrato, 1985, p. 320).
I sionisti stanno
tentando di fare del popolo ebraico un popolo che si deve «
incanaglire » in casa propria (e neanche tanto « propria »
in realtà) con tutte le conseguenze a cui il mondo,
sbalordito, sta assistendo.
No allo stato
sionista!
Per un unico
stato democratico, pacifico, denuclearizzato e multirazziale
di palestinesi ed ebrei in Palestina!
Febbraio, 2006
Mauro Manno
militante
antimperialista.
[1] Bertell
Ollman, « Lettera di dimissioni dal popolo ebraico
», La Pensée Libre n° 7, 2005 (traduzione mia).
http://www.israelshamir.net/Italian/natura.htm
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