lunedì 3 agosto 2015

Definiamo lo Stato di Israele, di Israel Shahak

Tratto dal libro: «Storia ebraica e giudaismo: il peso di tre millenni» di Israel Shahak *


"Shahak è il più recente, se non l’ultimo, dei grandi profeti"


Prefazione di Gore Vidal  

Alla fine degli Anni Cinquanta, quel grande pettegolo e storico dilettante che era John F. Kennedy mi disse che nel 1948 Harry Truman, proprio quando si presentò candidato alle elezioni presidenziali, era stato praticamente abbandonato da tutti. Fu allora che un sionista americano andò a trovarlo sul treno elettorale e gli consegnò una valigetta con due milioni di dollari in contanti. Ecco perché gli Stati Uniti riconobbero immediatamente lo Stato d'Israele.

A differenza di suo padre, il vecchio Joe, e di mio nonno, il senatore Gore, né io né Jack eravamo antisemiti e così commentammo quell'episodio come una delle tante storielle divertenti che circolavano sul conto di Truman e sulla corruzione tranquilla e alla luce del sole della politica americana.
Purtroppo, quell'affrettato riconoscimento dello Stato d'Israele ha prodotto quarantacinque anni di confusione e di massacri oltre alla distruzione di quello che i compagni di strada sionisti credevano sarebbe diventato uno stato pluralistico, patria dei musulmani, dei cristiani e degli ebrei nati in Palestina e degli immigrati europei e americani, compreso chi era convinto che il grande agente immobiliare celeste avesse dato loro, per l'eternità, il possesso delle terre della Giudea e della Samaria. Poiché molti di quegli immigrati, quando erano in Europa, erano stati sinceri socialisti, noi confidavamo che non avrebbero mai permesso che il nuovo stato diventasse una teocrazia e che avrebbero saputo vivere, fianco a fianco, da eguali, con i nativi palestinesi.
Disgraziatamente, le cose non andarono così. Non intendo passare ancora una volta in rassegna le guerre e le tensioni che hanno funestato e funestano quella infelice regione. Mi basterà ricordare che quella frettolosa invenzione dello Stato d’Israele ha avvelenato la vita politica e intellettuale degli Stati Uniti, questo improbabile patrono d'Israele. Dico improbabile perché, nella storia degli Stati Uniti, nessun'altra minoranza ha mai estorto tanto denaro ai contribuenti americani per Investirlo nella "propria patria". E’ stato come se noi contribuenti fossimo stati costretti a finanziare il Papa per la riconquista degli Stati della Chiesa semplicemente perché un terzo degli abitanti degli Stati Uniti sono di religione cattolica.
Se si fosse tentata una cosa simile, ci sarebbe stata una reazione violentissima e il Congresso si sarebbe subito opposto decisamente. Nel caso degli ebrei, invece, una minoranza che rappresenta meno del due per cento della popolazione ha comprato o intimidito settanta senatori, i due terzi necessari per nullificare un comunque improbabile veto presidenziale, e si è valsa del massiccio appoggio dei media.

In un certo senso, ammiro il modo in cui la lobby ebraica è riuscita a far sì che, da allora, miliardi e miliardi di dollari andassero ad Israele "baluardo contro il comunismo". In realtà, la presenza dell'URSS e il peso del comunismo sono stati, in quelle regioni, men che rilevanti e l'unica cosa che noi americani siamo riusciti a fare è stato di attirarci l'ostilità del mondo arabo che prima ci era amico.
Ancora più clamorosa è la disinformazione su tutto quanto avviene nel Medio Oriente e se la prima vittima di quelle sfacciate menzogne è il contribuente americano, all'opposto lo sono anche gli ebrei degli Stati Uniti che sono continuamente ricattati da terroristi di professione come Begin o Shamir. Peggio ancora, salvo poche onorevoli eccezioni, gli intellettuali ebrei americani hanno abbandonato il liberalismo per stipulare demenziali alleanze con la destra politico religiosa cristiana, antisemita, e con il complesso militare-industriale del Pentagono. Nel 1985, uno di quegli intellettuali dichiarò apertamente che quando gli ebrei erano arrivati negli Stati Uniti avevano trovato «più congeniali l'opinione pubblica e i politici liberali ma che, ora, è interesse dell'ebraismo allearsi ai fondamentalisti protestanti perché, dopo tutto, 'Vè forse qualche ragione per cui noi ebrei dobbiamo restar fedeli, dogmaticamente e con l'ipocrisia, alle idee che condividevamo ieri?».
A questo punto, la sinistra americana si è divisa e quelli di noi che criticano i nostri ex-alleati ebrei per questo loro insensato opportunismo vengono subito bollati con i rituali epiteti di "antisemita" o di "odiatori di se stessi".

Per fortuna, la voce della ragione è ancora viva e forte e viene proprio dalla stessa Israele. Da Gerusalemme, Israel Shahak, con le sue continue e sistematiche analisi, smaschera la sciagurata politica israeliana e lo stesso Talmùd, in altre parole l'effetto che ha tutta la tradizione rabbinica sul piccolo Stato d'Israele che i rabbini di estrema destra di oggi vogliono trasformare in una teocrazia riservata ai soli ebrei.
Shahak guarda con l'occhio della satira tutte le religioni che pretendono di razionalizzare l'irrazionale e, da studioso, fa risaltare le contraddizioni contenute nei testi. E’ un vero piacere leggere, con la sua guida, quel grande odiatore dei gentili che fu il dottor Maimonide!

Inutile dire che le autorità israeliane deplorano l'opera di Shahak ma non possono far nulla contro un docente universitario di chimica in pensione, nato a Varsavia nel 1933 che ha passato alcuni anni della sua infanzia nel campo di concentramento nazista di Belsen. Nel 1945 Shahak andò in Israele; ha prestato servizio nell'esercito israeliano e non è diventato marxista negli anni in cui essere marxisti era di gran moda. Shahak era, ed è, un umanista che detesta l'imperialismo sia che si manifesti come il Dio di Abramo che come la politica di George Bush e, con lo stesso vigore, la stessa ironia e competenza, si oppone al nocciolo totalitario del giudaismo.
Israel Shahak è un Thomas Paine più colto che continua a ragionare e, di anno in anno, ci rivela le propsepttive che abbiamo e ci dà gli strumenti per chiarirci la lunga storia che sta alle nostre spalle.

Coloro che si preoccupano per lui saranno forse più saggi o, - devo proprio dirlo? - migliori, ma Shahak è il più recente, se non l’ultimo, dei grandi profeti.




Capitolo I

Se non si mette in discussione il prevalente atteggiamento ebraico nei confronti dei non ebrei, non è dato capire neppure il concetto stesso di «stato israeliano» (Jewish State), come Israele preferisce definirsi. La generalizzata mistificazione che, senza considerare il regime apartheid dei territori occupati, definisce Israele come una vera democrazia, nasce dal rifiuto di vedere cosa significa per i non ebrei lo «stato israeliano». Sono convinto che Israele in quanto Jewish State è un pericolo non solo per se stesso e per i suoi abitanti, ma per tutti gli ebrei e per gli altri popoli e stati del Medio Oriente e anche altrove. Sono altresì convinto che altri stati o entità politiche del Medio Oriente che si proclamano «arabi» o «musulmani», definizioni analoghe a quella di «stato israeliano», rappresentano anch'essi un pericolo. Comunque mentre di quest'ultimo pericolo tutti ne parlano, quello implicito nel carattere ebraico dello Stato d'Israele è sempre taciuto e ignorato. Fin dalla sua fondazione, il concetto che il nuovo Stato d'Israele era uno «stato israeliano» fu ribadito da tutta la classe politica e inculcato nella popolazione con ogni mezzo.

Nel 1985, quando una piccola minoranza di ebrei cittadini d'Israele contestò questo concetto, il Knesset, approvò a stragrande maggioranza una legge costituzionale che annulla tutte le altre leggi che non possono esser revocate se non con procedura eccezionale. Si stabilì che i partiti che si oppongono al principio dello «stato israeliano», o propongono di modificarlo per via democratica, non possono presentare candidati da eleggere al Parlamento, il Knesset. Personalmente, io mi sono sempre opposto a questo principio costituzionale e quindi, in uno stato di cui sono cittadino, non posso appartenere a un partito di cui condivido il programma a cui è vietato eleggere i suoi, rappresentanti al Knesset.
Basterebbe questo esempio per dimostrare che Israele non è una democrazia, visto che si fonda sull'ideologia israeliana ad esclusione non solo di tutti i non ebrei ma anche di noi ebrei, cittadini d'Israele, che non siamo disposti a condividerlo.

Comunque il pericolo rappresentato da questa ideologia dominante non si limita agli affari interni, ma permea di sé tutta la politica estera d'Israele. E tale pericolo sarà sempre maggiore via via che il carattere israelitico d'Israele si accentuerà sempre più e crescerà il suo potere, particolarmente quello nucleare. Un'altra ragione per preoccuparsi è l'aumentata influenza d'Israele sulla classe politica degli Stati Uniti e per questi motivi oggi non è solo importante ma, addirittura politicamente vitale, documentare gli sviluppi del giudaismo e specialmente il modo di trattare i non ebrei da parte d'Israele.

Consideriamo la definizione ufficiale del termine «israeliano», che chiarisce la differenza di fondo tra Israele come «stato israeliano» e la maggioranza degli altri stati. Dunque, secondo la definizione ufficiale, Israele «appartiene» solo a quelle persone che le autorità israeliane definiscono appunto «israeliane», indipendentemente da dove vivono. Al contrario, Israele non «appartiene» giuridicamente ai suoi cittadini non ebrei, la cui condizione è ufficialmente considerata inferiore.
In realtà, questo vuol dire che se i membri di una tribù peruviana si convertono al giudaismo e così sono definiti e considerati, come ebrei hanno immediatamente diritto alla cittadinanza israeliana e a sistemarsi in circa il 70% delle terre occupate del West Bank, e nel 92% dell'area vera e propria d'Israele, destinate all'uso dei cittadini ebrei. A tut­ti i non ebrei, e quindi non soltanto ai palestinesi, è proibito usufruire di queste terre, e il divieto riguarda persino i cit­tadini arabi d'Israele che hanno combattuto nell'esercito israeliano e raggiunto anche gradi assai elevati.

Alcuni anni fa, scoppiò il caso dei peruviani convertiti al giudaismo. Ad essi furono assegnate terre nel West Bank vi­cino a Nablus, zona da cui sono esclusi i non ebrei. Tutti i go­verni d'Israele sono stati e sono pronti ad affrontare qualsiasi rischio politico, tra cui la guerra, perché gli insediamenti del West Bank restino sotto la giurisdizione «israeliana» come è affermato continuamente nei media, che sanno perfettamen­te di diffondere una menzogna, decisiva a coprire l'ambiguità discriminatoria dei termini «ebreo» e «israeliano».
Sono sicuro che gli ebrei americani o britannici accuse­rebbero subito di antisemitismo i governi degli Stati Uniti, o dell'Inghilterra, se questi decidessero di definirsi «stati cristiani», cioè stati che «appartengono» solo a cittadini de­finiti ufficialmente «cristiani». Conseguenza di una simile dottrina sarebbe che, solo se si convertissero al cristianesi­mo, gli ebrei diventerebbero cittadini a pieno diritto e, non dimentichiamolo mai, proprio gli ebrei, forti dell'esperien­za di tutta la loro storia, sanno quanto grandi fossero i be­nefici per chi si convertiva al cristianesimo.
In passato, quando gli stati cristiani, e islamici, discrimi­navano quelle persone, compresi gli ebrei, che non seguivano la religione dello stato, bastava convertirsi per essere accettati come tutti gli altri. La discriminazione che lo Stato d'Israele sanziona nei confronti di tutti i non ebrei cessa nel momento in cui quelle persone si convertono al giudaismo, e sono riconosciute come tali. Ciò vuol dire che lo stesso genere di esclusivismo che gli ebrei della diaspora denunciano come antisemitismo è fatto proprio dalla maggioranza di tutti gli ebrei, come principio ebraico. Chi, tra di noi, si oppone sia all'antisemitismo che allo sciovinismo ebraico è accusato di essere affetto dall'odio di sé, concetto che ritengo assolutamente privo di senso.

Nel contesto della politica israeliana il significato del termine «ebraico» (Jewish) e dei suoi derivati ha la stessa importanza del termine «islamico» così com'è ufficialmente usato in Iran o anche del termine «comunista» com'era stato ufficializzato nell'URSS. Comunque, il significato di Jewish non è chiaro né nella lingua ebraica né nella traduzione in altre lingue, per cui il termine ha dovuto esser definito ufficialmente.
Secondo la legge dello Stato d'Israele è da considerarsi «ebreo» chi ha avuto una madre, una nonna, una bisnonna e una trisavola ebrea, di religione ebraica, oppure perché si è convertito al giudaismo da un'altra religione, secondo i criteri riconosciuti e accettati come legittimi dalle autorità d'Israele. Chi si sia convertito dal giudaismo a un'altra religione non è più considerato «ebreo». La prima di queste tre condizioni non è altro che la definizione talmudica di «chi è ebreo», fondamento di tutta la tradizione ortodossa ebraica. Anche il Talmud e la legge rabbinica post-talmudica riconoscono la conversione di un non ebreo al giudaismo, come pure l'acquisto di uno schiavo non ebreo da parte di un ebreo cui segue una forma diversa di conversione, come un modo per diventare ebreo, purché la conversione sia avallata da rabbini autorevoli e autorizzati e si svolga secondo modalità per essi accettabili. Per quanto riguarda le donne, una di queste «modalità accettabile» è il rito del «bagno di purificazione», durante il quale tre rabbini ispezionano accuratamente la donna nuda.

La cosa è ben nota ai lettori delle pubblicazioni in lingua ebraica ma i media in inglese non ne parlano, anche se sicuramente susciterebbe un certo interesse. Mi auguro che questo mio libro, le cui fonti sono tutte in lingua ebraica, possa essere utile a correggere il divario tra l'informazione che viene data in lingua ebraica e quella che è tradotta in inglese e destinata all'esterno d'Israele.

Ufficialmente, lo Stato d'Israele ha una legislazione discriminatoria nei confronti dei non ebrei, che favorisce esclusivamente gli ebrei in molti aspetti della vita come, tra i più importanti, il diritto di residenza, il diritto al lavoro e il diritto all'eguaglianza di fronte alla legge.
Per quanto riguarda la discriminazione del diritto di residenza, si fonda sul fatto che, in Israele, il 92% della terra è proprietà dello Stato ed è amministrato dalla Israel Land Authority secondo i criteri del Jewish National Fund (JNF), affiliato all'Organizzazione Sionista Mondiale (World Zionist Organization). Sono regole fondamentali del JNF la proibizione a chi non è «ebreo» di stabilire la propria residenza, di esercitare attività commerciali, di rivendicare il proprio diritto al lavoro e questo soltanto perché non è ebreo. Al contrario, agli ebrei non è in nessun caso proibito stabilire la propria residenza o aprire attività commerciali in qualsiasi località d'Israele. Se discriminazioni simili fossero imposte in altri stati agli ebrei, si parlerebbe subito, e a ragione, di antisemitismo e ci sarebbero massicce proteste.

Quando invece quelle discriminazioni sono normalmente applicate come logica conseguenza della cosiddetta «ideologia ebraica», sono volutamente ignorate o, le rare volte che se ne parla, giustificate. Secondo le regole del JNF, ai non ebrei si proibisce ufficialmente di lavorare le terre amministrate dalla Israel Land Authority. E' vero che queste regole non sono sempre applicate né globalmente imposte, però esistono e vengono tirate fuori tutte le volte che servono. Di tanto in tanto Israele ne impone l'applicazione, come quando, per esempio, il Ministero dell'Agricoltura si scaglia contro la pestilenza di permettere che negli orti che appartengono a ebrei sulla National Land, la terra dello Stato d'Israele, la raccolta sia affidata a coltivatori arabi, anche se questi sono cittadini d'Israele. E severamente proibito agli ebrei insediati sulla National Land subaffittare anche una parte delle loro terre agli arabi, persino per tempi brevissimi e chi lo fa incorre in pesantissime multe.

Al contrario, non c'è nessuna proibizione se si tratta di non ebrei che affittano le loro terre ad altri ebrei. Nel mio caso, per esempio, io che sono ebreo ho il diritto di affittare un orto per il tempo della raccolta ad un altro ebreo, ma a un non ebreo, sia esso cittadino d'Israele o residente non naturalizzato, non è consentito.

Israele è uno stato fondato sull'apartheid. Questo è il principio primo di tutto il suo sistema legale, oltre che la dimensione evidente e verificabile ad ogni livello sociale, residenziale, del viver quotidiano. Tuttavia, la maggior parte delle leggi approvate dal Knesset, il parlamento israeliano, non sembrano discriminatorie, almeno nella forma. Se si analizzano con un po' di attenzione, si vede subito che, alla base dì tutte c'è la discriminazione tra «ebrei» e «non ebrei».
La Legge dell'Ingresso del 1952 aveva apparentemente la funzione di regolare l'accesso al paese ma, senza specificare tra «ebrei» e «non ebrei», recitava che «chi non è in possesso di un visto o di un certificato d'immigrazione sarà immediatamente deportato e non potrà più chiedere il rilascio dei visto». La definizione di chi ha le qualifiche per ottenere il visto d'immigrazione si trova nella parallela Legge del Ritorno: solo «gli ebrei».

Infatti, la clausola della deportazione degli «stranieri» è applicabile solo ai «non ebrei». Il Ministero dell'Interno non ha l'autorità d'impedire a un ebreo, anche se ha precedenti penali e può costituire un pericolo per la società, di esercitare il suo diritto a stabilirsi in Israele. Solo un cittadino straniero non ebreo ha bisogno del permesso, ma agli ebrei che giungono da altre nazioni vengono subito concessi tutti i diritti e i privilegi previsti per i cittadini d'Israele: il «certificato d'immigrazione» conferisce automaticamente la cittadinanza, il diritto di votare e di essere eletti anche se non conoscono una sola parola di ebraico. Il «certificato d'immigrazione» dà diritto immediato alla «cittadinanza» in virtù del ritorno nella «terra madre d'Israele» e a molti benefici finanziari che variano a seconda della nazione da cui provengono gli «ebrei». Per esempio, quelli che provengono dall'ex URSS ricevono subito una «gratifica complessiva» di $ 20.000 per famiglia.

Agli stranieri, cioè ai «non ebrei», può essere revocata la residenza anche se hanno vissuto in Israele anni ed anni, mentre nessuno può espellere gli indesiderabili se ebrei, com'è stato in moltissimi casi di trafficanti e comuni malfattori che sono persino riusciti a farsi eleggere nel Knesset. E ciò grazie alle leggi sulla cittadinanza del 1952 che, senza mai menzionare «ebrei» e «non ebrei», sono il fondamento primo dell'apartheid, insieme alle leggi sull'istruzione pubblica, alle norme della Israel Land Authority, che garantiscono la segregazione delle terre e le leggi matrimoniali religiose che sono mantenute separate dal codice matrimoniale civile.

I «non ebrei» debbono risiedere molti anni in Israele prima di ottenere la cittadinanza, possono essere espulsi dall'oggi al domani e debbono ufficialmente rinunciare alla loro cittadinanza originaria. Per esempio, i cosiddetti «diritti dei residenti che rientrano in patria» (doganali, sussidi per le abitazioni e l'istruzione) valgono solo per gli «ebrei», gli yored. La discriminazione più plateale è quella che appare nei documenti d'identità che tutti sono tenuti a portare con sé e ad esibire in qualsiasi momento. Sotto la dicitura «nazionalità» figurano le seguenti categorie: «ebreo», «arabo», «druso», «circasso», «samarita», «caraita» o «straniero». Dal documento d'identità i funzionari dello stato sanno subito a quale categoria appartiene la persona. Malgrado innumerevoli pressioni, il Ministero dell'Interno si è sempre rifiutato di accettare la dicitura «nazionalità israeliana». A quelli che l'hanno richiesta, viene risposto su carta intestata «Stato d'Israele» che «si è deciso di non riconoscere una nazionalità israeliana», mentre si ricorda che si ha il diritto a lasciare in bianco la voce «nazionalità», previa richiesta al ministero di competenza. Nella lettera non si specifica chi ha preso tale decisione né quando.

La legge sulla coscrizione militare del 1986 non sembra discriminatoria perché usa l'espressione «giovani di leva arruolati» come termine universale e riferibile a tutti i cittadini d'Israele. In realtà contiene un semplice marchingegno che ne fa una delle leggi più discriminatorie, un vero e proprio pilastro dell'apartheid: è la figura dell'enumerator, autorizzato a chiamare i giovani ad iscriversi nelle liste di leva, a convocarli al distretto con uno specifico richiamo alle armi. Nella legge si fa uso del termine «autorizzato», il che implicitamente lascia all'enumerator la facoltà di chiamare, o di non chiamare alle armi, i giovani in età di leva. Quelli che non ricevono la chiamata sono automaticamente esentati dal servizio militare. E’ semplicissimo: quelli che dai documenti d’identità risultano appartenenti al «settore arabo» non vengono chiamati. 




* Israel Shahak: Dopo alcuni anni nel campo di concentramento nazista di Belsen, nel 1945 si stabilì in Israele, dove si laureò in Chimica. Ha prestato servizio nell’esercito israeliano e dopo una carriera come docente universitario è morto qualche anno fa.

https://www.radioislam.org/islam/italiano/giudaismo/israel-shahak.htm

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