lunedì 28 dicembre 2015

Israele-Kenya-Uganda, ovvero un laboratorio per il "sionismo africano", di Lorenzo Centini

Israele in Africa: conservazione e reazione

(note: Nell'articolo, per comodità espositiva, non si usa distinguere tra Uganda e Kenya, che almeno fino all'indipendenza hanno avuto una storia simile sotto la amministrazione coloniale britannica. Tuttavia i luoghi sono sempre indicati, e sarà quindi possibile al lettore rinvenire facilmente dove si trovi, attualmente, il luogo in questione, se in Uganda o Kenya) 

Il rapporto Israele-Kenya ed Israele-Uganda è un utile lente di ingrandimento per comprendere alcune dinamiche proprie dell'espansionismo israeliano in terra d'Africa, importate nella misura in cui il comune passato coloniale di molte nazioni africane,  i sentieri interrotti della costruzione di un identità nazionale, e le indubbie opportunità neocoloniali, creano ponti immediati tra i giovani stati africani e lo stato "Incompiuto" per antonomasia.
Israele-Kenya è un "laboratorio" del sionismo politico e culturale privilegiato per alcuni motivi: prima di tutto Israele e Kenya condividono un passato coloniale comune, sotto i territori della corona inglese; dentro alla quale, peraltro, condividevano anche un subruolo importante, dato che entrambi erano i rispettivi cuori pulsanti dell'imperialismo inglese, rispettivamente, in Africa e in Medioriente.
In secondo luogo, e proprio in virtù di queste comunanze strategiche, Israele e Kenya sono rimaste architravi dell'imperialismo occidentale (adesso passato in consegna agli States) andando a costituirsi 
Raila Odinga, premier Kenyota, e Bejamin Netanyahu, 14 Novembre 2011
come luoghi di snodo delle attività di soft e hard power dell'imperialismo americano.
Israele possiede peraltro una storia interessante di ingerenze africane: fin dalla Crisi di Suez (1956) quando Israele si trovò schierata a fianco di Francia e Regno Unito, al supporto di Israele alle forze conservatrici nelle guerre civili di Angola (1975)[1] e Rhodesia (1964), fino alla stretta collaborazione col Sudafrica, sinanche nella costruzione della bomba atomica[2].
In un quadtro generico vediamo che la longa manusisraeliana in Africa si costituisce come bastione degli interessi più vicini a quelli coloniali occidentali. La strategia israeliana in Africa per tutta la guerra fredda fu quella di impedire che gerarchie progressiste o filosovietiche prendessero il potere, istituendo un collegamento stretto tra l'antisionismo arabo-musulmano e quello sovietico-antimperialista. Impedire questo collegamento diventa quindi prioritario per Israele, almeno dalla vittoria dei nazionalisti in Algeria e l'exploit di Nasser in Egitto. 
Questo sconto porterà quindi Israele a fianco con i regimi conservatori arabi (su tutti Arabia Saudita e Giordania) e la Cina antisovietica, gli uni interessati a non allargare l'islamosfera rivoluzionaria, gli altri per contrastare l'ascendente sovietico in Africa.
Reazionaria nella reazione, Israele è impegnata anche a difendere le isole di sionismo africane, come per esempio l'Etiopia, dove interviene, al pari di Angola e Rhodesia, al fine di difendere il Beta Israel, una nutrita minoranze ebraica nella zona di Gondar (vedi Operazione Salomon [3])
Anche il Kenya ha attivamente partecipato alla Guerra Fredda in Africa, anche lui dalla parte della conservazione. Kenyatta, indipendentista borghese, per difendere la nazione dal ritorno del fiamma neocoloniale, intrattenne rapporti positivi col blocco occidentale ed anticomunista, lasciando praticamente intatta la questione sociale lasciata aperta dalla decolonizzazione. L'incarcerazione dei nazionalisti più spinti (Oginga Odinga) e l'entrata nel Movimento dei non-Allineati nel 1964 testimoniano la volontà di Kenyatta di non iniziare un reale percorso anticapitalista ma soltanto di replicare il nazionalismo borghese. In questo quadro risulta chiara l'adesione di Nairobi alle crociate anticomuniste, guidate dalla paura che il contagio sociale potesse valicare i confini (labili) delle nazioni in guerra e arrivare in Kenya.
Anche in Uganda, dopo i controversi legami e scontri tra Amin Dada (al potere dal 1971 al 1979), quindi l'operazione Entebbe (4 Luglio 1976), le relazioni con l'Uganda sono diventate proficue, come riconosciuto dallo stesso sito dell'ambasciata sionista in Uganda[4]
Anticomunismo, passato coloniale,militanza nel blocco occidentale, e alcuni trascorsi socio-religiosi sono quindi i molteplici motivi per cui i rapporti (stretti) tra Kenya, Uganda e Israele costituiscono un ottimo impianto per approfondire a più ampia questione dei legami Israele-Africa.

 La "Nuova Akko" e il colonismo ebraico in Kenya ed Uganda

Come risulta evidente ad un primo esame della storica dell'Africa britannica, la minoranza ebraica ha sempre svolto un ruolo di un certo peso nella gestione dei territori colonizzati, costituendosi come un "tramite" etnico tra la maggioranza negra e le gerarchie coloniali britanniche.
Importanti figure ebraiche come Cecil Rhodes furono i luogotenenti dell'imperialismo britannico, e si sono occupati non soltanto di amministrazione ma anche di una teorizzazione dello sfruttamento razziale sulla maggioranza negra. Rhodes si peritò inoltre, negli anni, di costruire un circolo di eletti, specificatamente ideato per perorare la causa di un "distacco concordato" dell'Africa bianca degli oppressori inglesi in modo razionale e non dannoso per l'Impero britannico. In questo circolo troviamo nomi storicamente legati al sionismo, come Alfred Milner, firmatario della proposta di Balfour, lo stesso Arthur Balfour, e Lionel Walter Rothschild.
Alle soglie del XX° secolo il movimento sionista andava espandendosi, anche grazie alle opere intellettuali di Theodor Herzl, in particolare al suo Der Judenstaat (1892). Tuttavia, solo in un secondo momento Herzl e la maggioranza dei sionisti optarono con decisione per una colonizzazione nella Palestina storica, e ancora alla fine del XIX secolo Leon Pinsker, fondatore degli "Hovevei Zion"(amanti di Sion), sosteneva: "La meta delle nostre aspirazioni attuali non deve essere la "terra santa", ma una terra nostra"[5].
In questo brodo di cultura Joseph Chamberlain, allora segretario per le colonie, dopo un incontro con Herzl (che già aveva espresso vicinanza all'Africa nel suo "Altneuland" del 1902[6]) propone a 
Semei Lwkairenzi Kakungulu (1869-1928)
quest'ultimo una soluzione "africana", offrendo nel 1903 un altipiano nell'attuale Kenya (l'altopiano di Mau Mau) per creare un insediamento ebraico. 
Il VI congresso sionista di Basilea, tenutosi nel 1903, decretò l'invio di una commissione per visitare il luogo offerto, che però non riscosse successo, soprattutto tra i delegati russi (dove già figurava un certo Vladimir Zabotinskij, in futuro figura di spicco del sionismo israeliano).
Tuttavia tra i convinti dall' "Uganda proposal" di Chamberlain si formò un gruppo di coloni, guidati dal rabbino Israel Zingwill, fondatore della Organizzazione territorialista ebraica, i quali iniziarono un discreto flusso migratorio verso le due colonie di New Akko e Kampala (entrambe fondate nel 1905): flusso che nel giro di un anno conta circa 12'000 unità in entrambe le colonie.
 Il massiccio arrivo di coloni di religione ebraica in Kenya ed Uganda, e la loro rapida scalata a livelli discretamente alti dell'amministrazione coloniale, portò anche alla conversione all'ebraismo di alcune tribù bantu, gli Abayudaya ("Popolo di Giuda" in lingua Luganda). La conversione di queste tribù, convinte da un notabile locale, Semei Kakungulu (1869-1928), fattosi ebreo per reagire alla scelta dell'amministrazione inglese di non farlo Re di Busoga, rimane dubbia e controversa.[7][8]
Questa filiazione religiosa ebraica in Uganda ed in Kenya risultò un indubbia arma mediatica a favore delle successive puntate diplomatiche israeliane, che, non diversamente dal trattamento riservato agli ebrei etiopi, si serviranno della presunta influenza ebraica per accampare diritti culturali e politici.
La storia degli Abayudaya, in Uganda e Kenya ci mostra che, oltre che la odiosa dominazione inglese, i popoli africani han dovuto subire la subcolonizzazione ebraica, connessa ma diversa a quelle locali europee. Non sporadicamente le diaspore ebraiche allocate nei paesi africani sono diventate i segmenti più retrivi dell'imperialismo europeo in ritirata (come dimostra egregiamente il succitato esempio sudafricano).

Il "Jerusalem Consensus" e la costruzione di un "sionismo africano"

Il periodoche va da metà anni '60 a metà anni '80 è il lasso di tempo nel quale Israele getta le basi teoriche e pratiche del suo legame con l'Africa. L'attenzione riservata a queste zone è dovuta soprattutto a tre fattori:
  1. Il Comune passato coloniale inglese e la comune politologia liberale post coloniale costituiscono un terreno di incontro culturale tra le elites sioniste e i frammenti anticoloniali delle ex gerarchie amministrative inglesi
  2. Una comunanza socio-economica. Entrambe le zone (specificatamente proprio il duo Uganda-Kenya) sono a vocazione di specializzazione agricola, e grandi latifondi coloniali si alternano a piccole proprietà fondiarie, politicamente conservatrici ed anticomuniste
  3. La dialettica cristianesimo-Islam offre uno spunto interessante alla retorica antiaraba che attraversa Israele. L'eterno scontro, nell'Africa Subsahariana tra identità negra/cristiana e musulmana permette  ai diplomatici israeliani di calcare la mano sullo scontro religioso e sulla vicinanza ebraismo-cristianesimo
Questi tre fattori si interfacciano con una più prosaica capacità di Israele di finanziare "Piani Marshall ad uso e consumo della ricostruzione delle statualità appena indipendenti. Dispositivi diplomatici come il MASHAV e l'USAID (in collaborazione con gli States) hanno permesso di introdursi nell'economia di questi paesi, finanziando progetti capaci di riutilizzare il capitale umano (e quello fondiario) dei paesi africani. Dice il sito dell'ambasciata israeliana in Kenya, riguardo la collaborazione MASHAV-Kenya:

 "This cooperation diversified into large-scale projects, which were a welcome addition to the efforts being made by private Israeli companies to advance Kenya’s infrastructure.  The pinnacle and more well known of these projects was the “Kibwezi Irrigation Project”.  A large scale “school of irrigation”, created in the Kibwezi district, aimed, in collaboration with USAID, to bring the successes made in Israel in the field of irrigation to Kenya.  The result, following ten years of the intense training of hundreds of Kenyan farmers, was the complete transformation of the region surrounding the Project, into a self-sustaining, flourishing area.  The Kenyan graduates of the Kibwezi Project, learned to plant and operate using new and innovative irrigation techniques, which transformed them from farmers whose crops were barely sufficient to sustain their own families, into farmers whose efforts yielded not only enough for their households, but enough to earn a decent living"[9]

Un progetto a lungo termine, con un attenzione particolare alla "magnetizzazione" di quadri medio borghesi e tecnici, che, una volta ritornati nel paese di origine, avrebbero presumibilmente contribuito alla nascita di un sentimento filosionista.
Lavoro questo che ha permesso nel tempo di creare un sostrato ideale per un sionismo a bassa intensità. La fitta rete di relazioni tra sionismo cristiano, missionari, ONG e gruppi di pressione esteri hanno creato un discorso filosionista acceso e diffuso. Gruppi come Africa For Israel sono contenitori
Uhuru Kenyatta incontra Avigdor Liebermann, Giugno 2014
 ideali per edificare un sentimento di blando filosionismo, accessibile alla propaganda occidentale. Così parla Luba Mayekiso, fondatore di "African for Israel":

"Many African leaders are realising that transcending politics and looking for ways to improve the situation of the people in their countries is far more productive. Israel asks for nothing but is prepared to share technology and empower African citizens so that we do not lose vital skill sets [...]
Politicians listen to numbers and many Christians feel that their silence on Israel has been misinterpreted. We have established relationships in Nigeria, Congo, Uganda, Burundi, Kenya and Tanzania who are very eager for us to stand together and have requested our assistance in providing them with the correct modern narrative about Israel.”[10][11]

Innovazione tecnica, opportunità economiche e un cristianesimo al ribasso sono i tratti distintivi di questa emanazione del Soft Power isrealiano. Questo lungo discorso qua rapidamente accennato è riuscito a sopravvivere, in Uganda, a stagioni di fervente antisemitismo dal basso (Amin Dada) e al ricollocamente strategico di questi paesi nella sfera sovietica (quindi antisionista). Sia in Kenya (prima con Odinga e adesso con Uhruru Kenyatta) che in Uganda (fin dallo switch diplomatico di Yoweri Museveni nel 1994) nessun partito maggioritario ha messo mai in discussione seriamente l'architettura sionista, ne' nella formula assolutista ne' nella formula ingentilita dei "due popoli, due stati".
Il "Jerusalem consensus" è quindi una strategia di soft power atto a demagnetizzare spazi culturali facilmente recettivi verso messaggi antimperialistici e antisionisti. Inoltre, la maggior malleabilità del cristianesimo protestante (che fin da Cromwell ha un debole per la fascinazione ebraica) rispetto al cattolicesimo romano ha permesso di sovrapporre una narrazione religiosa ad una strategico-politica, mascherando la seconda, anche grazie alla pluridecennale copertura "morale" che molte ONG americane offrono a narrazioni sioniste e filoccidentali.

Guerra in Somalia: dove Sion e Nairobi si danno la mano
  
Luoghi e tempi del sionismo africano sono sottoposti alle molteplici difficoltà di discorsi ideologici
unitari in terra d'Africa, dove una pluralità di attori non maggioritari rende complesso un uniforme indirizzo ideologico/diplomatico. Purtuttavia un luogo e un tempo dove il sionismo è riuscito a mobilitare le forze diplomatiche (e militari) di un paese contro un obbiettivo sensibile è la Somalia, in preda ad una guerra civile somala.
Un quadro generico della crisi somala ce lo può dare Mohamed Hassan, esperto di geopolitica del Corno d'Africa. intervistato daGregoire Lalieu e Michel Collon:

"  Come si è sviluppata la pirateria in Somalia? Chi sono questi pirati? 
Dal 1990, non c'è alcun governo in Somalia. Il paese è nelle mani dei signori della guerra. Imbarcazioni europee e asiatiche hanno approfittato della situazione di caos per pescare indiscriminatamente e senza licenza lungo la costa somala. Hanno infranto regole fondamentali: per esempio non hanno rispettato le quote in vigore anche nei loro paesi per la conservazione delle specie e hanno usato alcune tecniche di pesca - comprese le bombe - che hanno creato un danno enorme per la ricchezza dei mari della Somalia.
Ma questo non è tutto! Sempre approfittando dell'assenza di un'autorità politica, alcune imprese europee, con l'aiuto della mafia, hanno scaricato rifiuti nucleari al largo delle coste della Somalia. L'Unione Europa ne era al corrente, ma ha chiuso gli occhi ritenendo vantaggiosa questa soluzione per il trattamento delle scorie radioattive. Lo tsunami del 2005 ha gettato buona parte dei rifiuti sulla terra ferma. Malattie prima mai riscontrare sono comparse tra la popolazione somala. E' questo il contesto in cui si è sviluppata la pirateria. I pescatori somali, che usano tecniche rudimentali non erano più in grado di lavorare. Hanno deciso così di proteggere se stessi e i loro mari. Questo è esattamente ciò che gli USA hanno fatto durante la guerra civile contro gli inglesi (1756 - 1763): non disponendo di adeguate flotte navali, il presidente George Washington fece un accordo con i pirati per tutelare la ricchezza dei mari americani.
Nessun governo in Somalia da quasi venti anni! Come è possibile?
Questo è il risultato della strategia statunitense. Nel 1990, il paese era martoriato da conflitti, carestie e saccheggi. Il suo governo cadde. Gli Stati Uniti, che da alcuni anni avevano scoperto riserve di petrolio in Somalia, lanciavano nel 1992 l'operazione "Restore Hope". Per la prima volta i Marines statunitensi intervenivano in Africa per cercare di prendere il controllo del paese. Fu anche la prima volta che veniva usato il pretesto dell'intervento umanitario per attuare un'invasione militare.
[...]


 Il vero obiettivo? 
Controllare lo sviluppo economico delle potenze emergenti, soprattutto India e Cina. La metà della flotta mondiale di navi porta-container e il 70% del traffico complessivo di prodotti petroliferi passano dall'Oceano Indiano. Da questo punto di vista, la Somalia occupa una posizione strategica: ha la costa più lunga tra i paesi dell'Africa (3.300 km), di fronte al Mar Arabico e lo Stretto di Hormuz, due centri nevralgici dell’economia. Inoltre, una risposta pacifica per il problema somalo potrebbe svilupparsi attraverso l'Oceano Indiano con relazioni tra Africa da un lato e India e Cina dall'altro. I concorrenti degli Stati Uniti potrebbero avere influenza in questa regione dell'Africa. Mozambico, Kenya, Madagascar, Tanzania, Zanzibar, Sudafrica ... questi paesi collegati dall'Oceano indiano potrebbero avere un facile accesso al mercato asiatico e sviluppare relazioni economiche proficue. Nelson Mandela quando era presidente del Sudafrica, aveva già sollevato la necessità di una rivoluzione nell'Oceano Indiano, con nuove relazioni economiche. Questo progetto, gli Stati Uniti e in Europa non lo vogliono. Pertanto, essi preferiscono mantenere la Somalia nel caos "[12]
In questo quadro di aggressione imperialista si replicano alcune geometrie dello sfruttamento interne al campo degli oppressori. Il paese egemone offre il banchetto della nazione smembrata ad alcune forze regionali e non regionali, utili alla funzione di gendarme regionale. Gli Stati Uniti quindi offrono ad Israele e all'Europa (detentori di una certa influenza, come abbiamo visto e possiamo 
Truppe dell'AMISOM in Somalia (la seconda bandiera da sinistra è quella Ugandese)
intendere, in loco) un pezzo della torta somala. Israele e soprattutto Kenya, vera e propria "guardia giurata" della guerra contro la Somalia, si sono quindi mobilitati alla volta della gestione della guerriglia popolare somala.
Fin dalla metà degli anni 2000 gli obbiettivi della guerriglia popolare somala si sono rivolti contro le forze kenyote, invece che contro quelle statunitensi. In particolare il Kenya si è impegnato in Somalia dopo il 2006/2007, anno in cui l'Unione Africana ha varato l'AMISOM (African Union Mission in Somalia), fortemente voluto dall'ONU e dall'AFRICOM. 
Il Kenya è stato quindi giustificato in nome della copertura morale internazionale, ma ancor più fortemente dall'appoggio logistico e diplomatico di Israele. Come sostiene Alex Kane per Mondoweiss[13], Israele, grazie alle  parentele spionistiche del Mossad, ha creato un legame tra Addis Abeba e Nairobi, per migliorare e potenziare il meccanismo di intervento in Somalia. La retorica israeliana (con l'equiparazione di Al-Shaabab ad Hamas ed Al-Qaeda) serve appunto a rendere, agli occhi dell'opinione pubblica, accettabile la "normalizzazione" ed "occidentalizzazione" dello spazio somalo.
 Il supporto di Israele diventa quini necessario nel  tessere le fila del "marketing" della "war on terror", un dispositivo psicopolitico estendibile oltremodo a molte zone ad a molti gruppi. Tale lavoro psicodiplomatico rende ancor più unita la comunità africana attorno al sionismo, proposto come unico antidoto al diffondersi dell'islamismo bombarolo.
 sia dovuta alla repressione poliziesca in loco di alcuni movimenti di liberazione nazionale palestinese (la "Army of Palestine") che
rivendicarono gli attacchi a Mombasa.
In conclusione possiamo compendiare la posizione di Israele in Africa, ed in particolare nella ex British East Africa, in conservazione ereazione: conservazione delle tradizionali influenza euro-americane in Africa, all'interno delle quali Israele e il sionismo politico può più facilmente ambientarsi e diffondersi, e reazione,vale a dire repressione culturale e militar-politica delle attività antisioniste e antimperialiste in loco, grazie a governo amici.
Come negli States e in Europa il sionismo africano ha due teste: una testa politica, che sono le relazioni internazionali con Tel Aviv e il corrispettivo supporto di questa ad esponenti conservatori e anticomunisti nella regione, ed una testa culturale, che sono le associazioni ebraiche o cristiane che, in polemica con l'Islam o con gli stati laici della regione, diffondono messaggi di adattamento culturale al sionismo.
 
 

[1] Brian Bissonette, "The Angolan proxy war: a study of foreign intervention and its impact on war fighting", 2008
[2] Chris McGreal, "Brothers in arms - Israel's secret pact with Pretoria", pubblicato sul The Guardian il 7 Febbraio 2006
[3] Stephen Spector "Operation Solomon: The Daring Rescue of the Ethiopian Jews", 2005
[4]  http://embassies.gov.il/nairobi/bilateral-relations/Pages/Israel-and-Uganda.aspx
[5] Leo Pinsker, "Auto-emancipazione", 1882 (citato in "Israele: terra,ritorno,anarchia", Donatella Di Cesare, Capitolo I, Paragrafo XVI, Pg 28)
[6] "Una volta che sarò stato testimone del riscatto degli ebrei, il mio popolo, spero di assistere anche al riscatto degli africani",Theodor Herzl, "Altneuland", 1902.
[7] Henry Lubega, "M'Bale jews", articolo internet uscito a Settembre 2001
[8] Vedere anche: Arye Oded, "A history of Abayudaya jews of Uganda"
[9]  Embassy of Israel in Kenya, "History of Freindship between Kenya and Israel", (http://embassies.gov.il/nairobi/bilateral-relations/Pages/Israel-and-Kenya.aspx)
[10] Citato in:  Rolene Marks, "The steady rise of African Zionism", uscito il 17/05/2014 sul The Algemeiner
[11] Intervento di Luba Mayekiso alla "South African friends of Israel conference in Johannesburg (Marzo 2014): https://www.youtube.com/watch?v=w28unk6Pq68
[12] Intervista a Mohamed Hasan: "Come le potenze coloniali mantengono il paese nel Caos", di  Gregoire Lalieu e Michel Collon, 2010
[13] Alex Kane, "Unpacking the Israel-Kenyadeal to help wage war in Somalia", uscito il 16/11/2011 su Mondoweiss
[14] Khaled Kanafi, "Mombasa 2002 attacks: a strong message to Mossad in Africa", uscito il 29/11/2012 su IslamOnline  
[15] Yossi Melman e Julio Godoy, "The influence peddlers", uscito il 13/11/2002 su The Center for public integrity

http://ruberagmen.blogspot.it/2015/12/israele-kenya-uganda-ovvero-un.html

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