Questo rivoluzionario moderno -
per molti identificato nella figura di Rafael Sebastián Guillén Vicente –
ha avuto il merito di riproporre, dopo la sconfitta della guerriglia
guevarista e maoista nel continente sudamericano, una resistenza armata
globale all’imperialismo che, nonostante il suo carattere
internazionalista, valorizza contestualmente le culture locali.
Nell’approccio politico di Marcos, a differenza di altre teorie
post-moderniste oggi in voga nel mondo occidentale, le categorie di
stato nazionale e di imperialismo, continuano ad essere centrali, perché
solo con queste si possono spiegare le ragioni che portano
necessariamente i paesi ricchi del mondo a sfruttare quelli poveri.
Un doppio assurdo è il raffronto tra
ricchi e poveri: i ricchi sono pochi e i poveri sono molti. La
differenza quantitativa è criminale, ma il raffronto tra gli estremi si
fa usando la ricchezza come metro di misura: i ricchi suppliscono alla
loro minoranza numerica con migliaia di milioni di dollari. I patrimoni
delle 358 persone più ricche al mondo [migliaia di milioni di dollari] è
superiore al reddito annuale del 45 per cento degli abitanti più
poveri, qualcosa come due miliardi e 600 milioni di persone. Le catene
d’oro degli orologi finanziari si trasformano in pesanti ceppi per
milioni di persone. Mentre la “… cifra degli affari della General Motors
è più elevata del Prodotto interno lordo della Danimarca, quella della
Ford è più grande del Pil dell’Africa del Sud, e quella della Toyota
oltrepassa il Pil della Norvegia” [Ignacio Ramonet, Lmd di gennaio
1997], per tutti i lavoratori i salari reali sono caduti, in più essi
devono affrontare le riduzioni di personale nelle imprese, la chiusura
di fabbriche e la delocalizzazione dei centri produttivi. Nelle
cosiddette “economie capitaliste avanzate” il numero dei disoccupati
arriva già a 41 milioni di lavoratori (Subcomandante Marcos, La Quarta guerra mondiale).
Nel pensiero zapatista, il nemico è
chiaramente individuato nell’occidente capitalista che ha il suo cuore
pulsante negli Stati Uniti e nelle sue multinazionali.
“I professionisti della violenza
legittima”, così chiamano se stessi gli apparati repressivi degli Stati
moderni. Però, cosa dire della violenza che è già insita nelle leggi del
mercato? Dov’è la violenza legittima e dove la illegittima? Che
monopolio della violenza possono pretendere i malconci Stati Nazionali,
se il libero gioco dell’offerta e della domanda sfida questo monopolio?
Non ha mostrato la Tessera 4 che il crimine organizzato, i governi e i
centri finanziari sono ben più che in buoni rapporti? Non è palpabile
che il crimine organizzato conta su veri eserciti senza più frontiera
che non sia la potenza di fuoco dell’avversario? Di conseguenza, il
“monopolio della violenza” non appartiene agli Stati Nazionali. Il
mercato moderno lo ha messo in vendita …”.
E’ importante notare la differenza fra
questa analisi e le elaborazioni degli intellettuali della sinistra
francese o italiana. Gli zapatisti ben sanno che nell’era del
neoliberismo economico, lo Stato, centralizza le funzioni burocratiche e
repressive, e questo è evidente non solo nei paesi coloniali e
semi-coloniali ma anche in quelli occidentali a capitalismo cosiddetto
avanzato.
Non posso fare a meno di evidenziare come l’esperienza zapatista abbia avuto anche alcuni limiti a mio parere strutturali: (1)l’influenza dell’anarchismo che gli ha impedito di avere una struttura analoga ai partiti comunisti (anche armati) tradizionali (il confronto più efficace è con le FARC colombiane), quindi il rifiuto sistemico del concetto di “presa del potere”; (2) la mancanza di una teoria organica (a differenza del guevarismo) della lotta armata contro il neocolonialismo. Il Che aveva elaborato, al contrario di Marcos, delle ipotesi molto realiste sulla possibilità-necessità di estendere ill conflitto, che a parere di chi scrive restano attuali.
Non posso fare a meno di evidenziare come l’esperienza zapatista abbia avuto anche alcuni limiti a mio parere strutturali: (1)l’influenza dell’anarchismo che gli ha impedito di avere una struttura analoga ai partiti comunisti (anche armati) tradizionali (il confronto più efficace è con le FARC colombiane), quindi il rifiuto sistemico del concetto di “presa del potere”; (2) la mancanza di una teoria organica (a differenza del guevarismo) della lotta armata contro il neocolonialismo. Il Che aveva elaborato, al contrario di Marcos, delle ipotesi molto realiste sulla possibilità-necessità di estendere ill conflitto, che a parere di chi scrive restano attuali.
Limiti importanti che però non offuscano
gli indiscussi meriti di Marcos, che sono molteplici e non possono
essere trattati in quello che vuole essere soltanto un primissimo
approccio alla questione sulla quale torneremo in un secondo momento.
Marcos ha riproposto l’estensione su
scala globale della resistenza (armata) al neoliberismo ed
all’imperialismo. Possiamo senz’altro affermare che dopo Guevara e
Santucho (fondatore del Prt-Erp argentino), è il primo a riproporre
questa strategia in un paese semi-coloniale come il Messico.
Resta un ulteriore elemento di
ambiguità: Marcos si contrappone ad una Internazionale antimperialista
che coordini questi movimenti. Per lui gli anticapitalisti (che non sono
necessariamente solo i marxisti) devono mantenere forti basi locali. Il
Partito comunista internazionalista di tipo leninista in Marcos non
c’è, e questo è un limite. Soprattutto se consideriamo il contesto
occidentale dove sarebbe impensabile non estendere le lotte sociali, che
hanno sempre una base nazionale, su tutto il continente europeo
attraverso un fronte anticapitalista, non solo italiano ma, per
l’appunto, europeo (e solo a partire da questo presupposto ha senso
rivendicare l’uscita dall’ Unione Europea). Non posso non muovere
delle critiche (il lettore l’ha di certo notato) che però, come ripeto,
non inficiano gli importanti meriti dell’EZNL. E’ di fondamentale
importanza valorizzare quelle esperienze di lotta dalle quali gli
antimperialisti di tutto il mondo hanno sempre molto da imparare.
L’EZNL ha attribuito all’“indigenismo”
un carattere di classe, dimostrando che la ferocia dello sfruttamento
imperialistico (e la borghesia messicana è solo una agenzia
dell’imperialismo statunitense) rende prioritaria la questione
dell’indipendenza indigena. Le comunità indios (maya) in armi sono il
punto di partenza – nel pensiero e nella prassi di Marcos – di una
rivolta anticapitalistica mondiale (anche se Marcos, come ripeto, non
crede nella necessità di creare una Internazionale e questo a mio avviso
è senza dubbio un errore).
L’assenza di questa lettura (che
dobbiamo in larga parte proprio a Marcos) ha portato la sinistra
sudamericana a commettere dei gravi errori. Pensiamo ad esempio alla
scarsa considerazione che nutriva Allende nei confronti del popolo
Mapuche. Egli non capì che il socialismo poteva avanzare in Sudamerica
solo se si fa, per dirla con Mariategui, una “creazione eroica” che
attribuisca forza e centralità alle plurisecolari culture indigene.
Marcos, da questo punto di vista, ha svolto invece un ruolo eccezionale.
Non credo che l’esperienza zapatista
debba essere liquidata con la solita spocchia e superficialità che
caratterizza certa sinistra occidentale; Marcos è, insieme a Chavez, il
combattente antimperialista che più di altri ha posto il problema di una
alternativa sistemica nell’epoca in cui, dopo la dissoluzione dei
regimi socialisti dell’est europeo, ha trionfato il dogma della “fine della storia” e
della inevitabilità del capitalismo. Marcos e Chavez hanno restituito
forza al socialismo, demolendo il pregiudizio delle destre occidentali e
delle sinistre riformiste. Il capitalismo mortifica la vita di milioni
di persone, ‘genera bisogni che non riesce ad assolvere’ (sosteneva
Trotsky in tempi non sospetti), oggi più che mai.
Marcos è stato ed è uno di quei
combattenti che, armi in pugno ha mostrato che un altro mondo non solo è
possibile ma necessario, ovviamente sporcandosi le mani, confrontandosi
pubblicamente e non rifiutando il conflitto, in questo caso, armato.
Come ben dice Atilio Boron: ‘L´Ezln,
fin dalla sua comparsa, è diventato uno dei più belli e nobili emblemi
delle resistenze e delle lotte al neoliberismo, alla dittatura dei
mercati e a ogni forma di oppressione. Lo zapatismo ha dimostrato
un´efficacia impressionante, come movimento di trasformazione che mette
in discussione lo stato di cose esistente. Va evitato – come invece
accade spesso – che un movimento emblematico, che incarna le aspirazioni
universali dell´umanità, venga sacralizzato, che i suoi dirigenti si
trasformino in profeti e le loro parole siano innalzate al livello di
dogmi indiscutibili. Né l´eroismo, né l´abnegazione e le sofferenze
delle comunità indigene e contadine zapatiste, né la devozione dei
dirigenti al servizio del progetto di redenzione universale dovrebbero
mai portare all´accettazione fideistica di tutto ciò che emana
dall´Ezln; sarebbe un atteggiamento del tutto contrario agli
insegnamenti più validi e più di fondo dello stesso zapatismo’, (Atilio Boron, La polis e la selva, elcubanolibre).
Una analisi impeccabile che non posso
che condividere. Chavez e Marcos, sia pure in modi molto diversi, sono
stati i più efficaci antagonisti dell’ordine imperialistico a guida
statunitense. Hanno interpretato istanze apparentemente diverse verso la
medesima prospettiva socialista.
Resta il monito di Atilio Boron “Né
l´eroismo, né l´abnegazione e le sofferenze delle comunità indigene e
contadine zapatiste, né la devozione dei dirigenti al servizio del
progetto di redenzione universale dovrebbero mai portare
all´accettazione fideistica di tutto ciò che emana dall´Ezln; sarebbe un
atteggiamento del tutto contrario agli insegnamenti più validi e più di
fondo dello stesso zapatismo”. Per questa ragione pongo un
ulteriore quesito: Marcos decide di lasciare la guida dell’EZNL e torna
ad essere un combattente anonimo: questa scelta è dettata proprio dalla
volontà di lanciare un messaggio a coloro che alimentano il fideismo, il
culto della personalità? La risposta, per quanto mi riguarda, non può
essere che affermativa.
Marcos lascia la scena della storia come
un eroe: senza chiedere nulla. Non ci mostra il suo volto e sceglie di
perdersi fra la sua gente, continua a sollevare donne anziane e malate o
bambini senza scarpe circondato, ora che ha deciso di “non esistere
più”, da una cortese disattenzione. In un mondo dove tutto sembra essere
finalizzato al tornaconto personale, Marcos, come Chavez, ci insegna
che non ci sono solo uomini che vivono per se stessi. Una lezione di
dignità.
Stefano Zecchinelli
http://www.linterferenza.info/esteri/il-subcomandante-marcos-smette-di-esistere/
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