mercoledì 15 agosto 2012

L'aspetto più divertente del potere: la necessità del non essere, di Natale Anastasi



«I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo di uomo: ma l’umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo ( che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo); sia , com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili» ( Pasolini,1975)

Premessa riguardo la fiducia:

In alcuni casi la volontà si infrange sulle scogliere dell'immaturità e, schiavi delle proprie mancanze, ci si crede impossibilitati a rispettare la fiducia altrui. In tal caso, quando si è davvero manchevoli, l'altro avrebbe bisogno d'indagare il perché dell'azione negativa che ha ricevuto e se davvero non si è fatto nulla per meritarsela: bisognerebbe avere quindi la forza di chiarirsi, innanzitutto, prima con se stessi e poi con gli altri. Mentre in altri casi si ignora se gli altri abbiano recepito ed accettato ciò che doniamo, e se davvero interessa loro. La risultante è, quindi, che ci vuole autostima per essere all'altezza di meritarsi la fiducia e il rispetto, ma ancor di più ci vuole maturità per selezionare le persone che vogliamo davvero attorno a noi. Un rapporto è sempre un affidarsi reciproco e quando vi sono delle incomprensioni irrisolvibili e/o delle gravi mancanze che deteriorano il rispetto reciproco o univoco si scade o nel do ut des, o nel cameratismo (si sta insieme perché non si può fare altrimenti), o ci si allontana nel silenzio senza spiegazione. A volte, ancora, la morale personale richiederebbe un comportamento simile a quello che noi adotteremmo, mentre invece ci relazioniamo con persone da cui bisogna aspettarsi sempre di tutto e che risponderanno alle nostre azioni nel loro modo di essere. Quindi, la lezione della vita è che raramente otteniamo ciò che ci aspettiamo di ricevere dagli altri, ma in questo imprevisto nascono anche i migliori rapporti. Altrimenti saremmo tutti narcisisti, credo. Pertanto «il dialogo dovrebbe essere semplicemente un suono fra gli altri, solo qualcosa che esce dalla bocca delle persone, i cui occhi raccontano la storia per mezzo di espressioni visive» (Alfred Joseph Hitchcock). Da questa premessa posso chiarire ora il punto riguardo il potere.

Tesi, antitesi e sintesi sul Potere:

In realtà l'effetto del non essere è motivato dalla relazione inconscia dell'esistenza tramite il gesto: nell'azione, nel poiein, si cerca di modificare la realtà in base alla propria essenza, ma questa vive solo nell'attimo in cui l'azione è pensata virtualmente ed ha un corrispettivo successo. Ed il successo è rappresentato dall'effettivo ritorno potenziato di ciò che noi immettiamo nel sistema; il potere chiama il potere al quadrato. Ed il potere al quadrato si ottiene solo tramite l'imposizione moraleggiante del dover fare, dell'applicare con forza la legge morale universale, cadendo nel moralismo. E’ un concetto conchiuso: da un lato della legge procede per indeterminatezza, dall’altro ricava la sua essenza dall’accettazione del dogma. Vive nascosto, quindi, perché il suo carattere è l’ambiguità. Non si avanza perciò di un sol passo. Morta l'azione, trascorsa la sbornia pragmatica dello "stare nella realtà", si estingue, esanime, l'esistenza. Se l'azione fallisce decade la possibilità di intervenire e, quindi, ci si sente inesistenti perché inefficaci: dei veri e propri fantasmi. Si giunge alla biforcazione: o si desiste, o si potenziano i mezzi a propria disposizione vivendo solo di essi. Stenti.
Si cercheranno tutte le cause del fallimento e ci si imporrà di pensare esattamente nel modo in cui gli altri pensano, perché da sottomettere. Si crea così una sorta di simulacro, uno specchio, un campo di rifrazione in cui viene riflessa la nostra luce, in un bagliore rappresentato dall'azione compiuta; ma l'assenza di azione, dell'esercizio del poter essere, equivale in tal caso al negare la propria esistenza. Si mette in atto un meccanismo di difesa: la rimozione inconscia del "fallire". Il fallimento è l'unico limite che il potere può conoscere, per questo lo oscura. Quindi se non esistiamo, perché le nostre azioni non hanno un senso in quanto non hanno successo, si costruisce una realtà artificiale, si vive di simulazione, si rappresenta l'uomo come animale tecnologico, motivo per cui la compagnia del pc, del libro, del boy toy e della girl toy, dell'oggetto in genere, si preferisce alla vita in piazza, in strada, con altri esseri, perché l'oggetto è l'unica forma che possiamo tenere costantemente sott'occhio modificandola a nostro piacimento ed ottenendo più facilmente i risultati sperati. Ma l'oggetto è in realtà un'altra forma sdoppiata del nostro Io, del tutto in-esistente, che ha bisogno di creare una realtà aliena rispetto a quella ecologica e vi si oppone di fatto alla natura della propria essenza, che non vive solo nella progettualità della techne e dell'artificio, ma anche nell'attesa, nella speranza, nel dubbio, nel sentimento, nella non manifestazione. L’oggetto, tale in quanto mentale, non ha un corrispettivo reale. Proprio perché tale concetto è strettamente connesso alla parola “privato”, col quale non si indica un sostantivo ma un participio passato. L’attaccamento all’oggetto, il bisogno di possesso, l’istinto di proprietà, sono tutte derivazioni e propaggini teoriche indotte dal sistema della cultura occidentale moderna, dalla negazione del carattere d’indeterminatezza degli universali. Curioso l'aggancio possibile con il correlativo oggettivo: "una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare" che nega le caratteristiche, i confini epistemici, della sfera concettuale dell’oggetto. I confini inesistenti tra l’oggetto, la cosa in sé ed il reale generano però una barriera logica e proposizionale.
Dalla deduzione all’induzione non si chiarifica l’essenza e ci reca nella radura dell’ideale: «odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività» (Goethe).
E poi la volontà di possesso coincide con l'assenza della volontà. Volontariamente si crede di poter cercare il "potere" su un qualsiasi oggetto, ma il potere è indefinito perché è sempre riferito a.. perciò, se l'avere non coincide con il possedere, perché il primo determina il secondo a suo oggetto, il riferimento non ontologico serve solo a determinare un perimetro del pensiero ma non dell'azione teoretica. « Può tracciare il perimetro di questo importante concetto? Del resto i suoi testi insistono sullo spazio come distanza "mentale"». Troppo in fretta si pone il corrispettivo oggettivo con l'aggettivo possessivo.
«[…] se l'ideale coincidesse con la realtà, scriveva Croce in pagine forti e acerbe, non ci sarebbe bisogno di distinguere tra ideale e realtà; e il non coincidere con la realtà non toglie all'ideale nulla del suo pregio, né esonera l'uomo dal fare ogni sforzo per raggiungerlo, o, almeno, dal tendere ad esso, e dal sospirarlo». (Zizek)
Risulta così impossibile pensare il pensiero senza oggetto: impossibile smettere di pensare. « Ha senso bramare le “cose”, se domani potranno non essere più mie? ». Non è tutto, purtroppo: ciò che noi siamo può passare tramite le azioni che noi compiamo, quindi che senso ha attribuirsi un significato solo per ciò che riconosciamo come un progetto progettato e realizzato, secondo noi, razionalmente? Quale pensiero è razionale, quale no, chi è razionale, chi è folle ? Le fandonie dell'accademia credo siano delle definizioni per correggere il dubbio allo scarto esistenziale. Funziona così il nostro gioco, basatevi sulle nostre regole, altrimenti non state nella realtà.
Ma come insegna Kuhn, non esiste nella teoresi altro che il paradigma, quell'insieme di teorie condivise da un gruppo che ne sottomette un altro e conferma le proprie credenze con esperimenti ad hoc. Non occorre nessun algoritmo di come la scienza debba essere universalmente esatta, se non si vuol ridurre tutta l'esistenza al linguaggio imposto. Non è una prova a favore del relativismo, certamente, perché tra relatività e relativismo esiste una sola differenza: l'esperienza vissuta che, in quanto immediata ed autentica, non abbisogna di dimostrazioni per assurdo valide per tutti gli esistenti. Si dimostra logicamente solo ciò che si vuol possedere dialetticamente, perché in realtà il desiderio di possesso aliena la nostra essenza dal nostro corpo, e poi occorre delegare un movimento triadico e circolare per "accorgersi" che la proprietà è privazione e la privazione è la morte del Sé. Per questo si ricerca sempre ciò che sfonda le nostre barriere sensoriali, perché ogni stimolo dev' essere più forte del precedente per riuscire a toccarci; così si perde però il gusto del minimale, identificato col mediocre e col banale. Si può esprimere l'esserci in molti modi, e bisogna rendersi conto che ciò che si prova non trova un identico corrispettivo nell'altro: l'empatia verte sempre sullo scarto di esperienza, di sensibilità, di cognizione, e di molto altro. Non ci si dà pace, per questo in molti e per non esiste la pace. D'altronde l'atto del manifestarsi è sempre dovuto all'aspettativa che dobbiamo mantenere su di noi e l'azione quindi è tale solo se è pubblica, evidente sul piano oggettivo perché sovrasta sulle altre. Arriviamo così al sostanziale dubbio iperbolico: siamo impossibili perché in(de)finite sono le nostre possibilità. Si giunge alla psicopatologia di massa, al culto della persona, al self made man, alla dittatura. Poter essere coincide quindi con l'ansia del divenire un progetto compiuto, quando in realtà si è già immersi nel divenire ed il progetto si compie anche senza la nostra consapevolezza. Insensato porre quindi un Ego davanti allo specchio per generare un duplicato attivo, perché la differenza tra l'interiorità e l'esteriorità è mutuata dal fallimento e dal successo dell'azione sul mondo. Quindi, se il successo e il fallimento sono soltanto delle illusioni dello stato umano che si rapporta al mondo con la premeditazione sugli effetti necessari che si otterrebbero dalla sua azione, cosa resta ? Il rapporto frammentario dell'Io col proprio ambiente, con la comunità, e la strenua ricerca del non essere ciò che si è immediatamente e pre-riflessivamente, per costruirsi delle infinite possibilità formali basate sul razionalismo e sulla credenza valoriale. L'azione “vale” solo se ha un effetto che noi vogliamo, si giunge all'idealismo del nostro tempo: la tecnica. E la forza della tecnica è visibile, solo secondo un’accezione proustiana dell’abitudine, perfettamente consonante a mio avviso al concetto humiano di uniformità della natura, secondo cui «la costanza di un’abitudine è di solito proporzionale alla sua assurdità». Una giusta proposta per la conclusione pare quindi il seguente pensiero, non credete ?

«Guardo spesso indietro nel mio passato e mi dispera il tempo che ho impiegato a trovare questa soluzione. Ho una sola consolazione: quella di dirmi che mai ho potuto usare forme procedenti da vie logiche, ma solo quelle che un interno impulso faceva nascere in me. Mai ho potuto "combinare" una forma: ogni forma voluta mi ripugnava. Quelle di cui mi sono servito nascevano spontaneamente, mi si presentavano già pronte davanti agli occhi, non mi restava che copiarle; oppure si formavano mentre lavoravo e spesso avevano il potere di sorprendermi. Con gli anni appresi a guidare un poco questa forza creatrice. Mi sono esercitato a non lasciarmi semplicemente andare, ma a dirigere e a frenare la forza che opera in me. Con gli anni ho imparato che il lavoro con il batticuore, un senso di oppressione al petto e di angoscia in tutto il corpo, con dolori intercostali, non basta. Può salvare l'artista ma non la sua opera. Il cavallo porta il cavaliere con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l'artista con forza e rapidità verso grandi altezze, ma l'artista conduce il suo talento». (Vasilij Kandinskij)

Natale Anastasi




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