Algeri, giugno
DAL 15 AL 19 giugno si è svolto ad Algeri il congresso dei comitati costituiti nei vari Paesi d’Europa per l’aiuto tecnico non governativo all’Algeria, che ho avuto l’onore di presiedere. Erano presenti delegazioni abbastanza nutrite di francesi, inglesi, italiani, tedeschi, austriaci, belgi, olandesi, danesi che offrivano un campionario piuttosto ricco e vario della sinistra europea con prevalenza socialista di sinistra: quasi ogni delegazione comprendeva parlamentari socialisti, ma erano presenti anche comunisti, cattolici, democratici di diversa tinta il che non impedì tuttavia, sia pure attraverso qualche difficoltà, di giungere a risoluzioni unanimi. Se i semi che questo congresso ha gettato e gli accordi che si sono presi con le autorità algerine avranno un seguito, assisteremo a uno sforzo serio e politicamente significativo di organizzare su scala abbastanza vasta un aiuto non governativo: per la prima volta cioè i movimenti democratici e le grandi organizzazioni dei lavoratori occidentali (soprattutto sindacati e cooperative) uniranno i loro sforzi per consentire a uno Stato di recente indipendenza dl beneficiare di aiuti non condizionati, con ciò contribuendo direttamente alla lotta contro il neocolonialismo i cui aiuti sono, com’è noto, fortemente condizionati.
Naturalmente nessuno si illude che l’aiuto così organizzato possa sostituire l’aiuto governativo, in particolare l’assistenza francese prevista dagli accordi di Evian: dal punto di vista degli aiuti finanziari non c’è misura comune fra le possibilità dei comitati e quelle dei governi, mentre i comitati saranno certamente superiori ai governi nella scelta qualitativa delle persone da inviare. L’Algeria ha risorse di materie prime e di energia che permettono dl guardare favorevolmente a possibilità di industrializzazione; ha immense riserve di manodopera che consentono un largo investimento umano; ha per contro grande scarsità di capitali, ma, soprattutto ha bisogno urgentissimo di quadri, non solo per le imprese nuove da costruire ma per sostituire tutti i tecnici stranieri che si sono allontanati. In particolare questa necessità si fa sentire nel “settore socialista”: il suo successo dipende in gran parte dai quadri che vi lavoreranno e dallo sforzo che sarà fatto per creare dei nuovi quadri algerini capaci di autogoverno. Ora è evidente che un compito di questa natura può essere affrontato solo da chi senta la solidarietà politica con le prospettive della rivoluzione algerina: gli aiuti di tipo neocolonialista, a cui l’Algeria non può rinunciare, non sono certo dati per aiutare il Paese a diventare socialista. È su questo terreno soprattutto che la sinistra europea ha un grande compito innanzi a sé.
Qui si pone subito naturalmente la domanda: in quale misura si può seriamente parlare di un’Algeria socialista? Tutti noi abbiamo presenti alla nostra memoria le grandi speranze che la rivoluzione algerina aveva suscitato in larghi strati della sinistra europea, e il senso di delusione che fu provocato sia dal compromesso di Evian sia, soprattutto, dalle lotte accanite che opposero, subito dopo l’indipendenza, i capi della rivoluzione. Credo che in questi atteggiamenti della sinistra europea ci fosse prima un notevole grado di illusioni sulle possibilità della rivoluzione algerina e sulle intenzioni dei suoi dirigenti, e poi un sufficiente grado di disinformazione quando si pronunciarono giudizi sulla linea politica del vari capi e dei vari gruppi. Nessun dubbio, oggi, che il gruppo riuscito vincitore, quello di Tlemcen, era un gruppo assai eterogeneo e che Ben Bella, Khider e Ferhat Abbas, alleati a Tlemcen, rappresentano posizioni e interessi contrastanti, oggi profondamente divisi. Ma sarebbe difficile attribuire posizioni chiare e coerenti anche agli sconfitti di quella lotta, a Ben Khedda, Boudiaf, Krim Belkacem.
L’impressione che ho tratto dal mio recente viaggio in Algeria, e soprattutto dai diretti contatti che esso mi ha consentito con Ben Bella come con parecchi suoi sostenitori o avversari, è che nelle condizioni presenti Ben Bella rappresenti il solo uomo da cui si possano sperare le due cose di cui il popolo algerino ha bisogno: una direzione politica forte e ferma, capace di sollevare il Paese dalle condizioni paurosamente difficili in cui l’ha lasciato volutamente la Francia, e un’opzione fondamentale in senso socialista. È noto che nei Paesi nuovi dell’Africa, dall’Egitto al Senegal e persino al reazionario Madagascar, s’è fatto largo uso e abuso della parola “socialismo” sicché diventa sempre più difficile prestar credito alle “opzioni” socialiste proclamate daileaders africani. Tuttavia, nel caso specifico dell’Algeria, tutti gli osservatori più seri - e fra questi anche alcuni avversari di Ben Bella - mi hanno confermato che con i decreti del 18, 22 e 28 marzo sull’autogestione dei beni vacanti, posti sotto la tutela diretta della presidenza dal consiglio, il presidente algerino ha fatto i primi seri passi sulla via della creazione di quel “settore socialista” che può essere destinato ad assumere importanza sempre maggiore nella vita economica sociale e politica del Paese.
Ma sarebbe probabilmente errato attendersi importanti sviluppi a breve scadenza. Ben Bella mi sembra uomo dotato di acuto senso politico e deciso a muoversi con la cautela e il realismo che sono imposti da una situazione difficile e irta di pericoli. L’Algeria rigurgita di disoccupati, fra cui molti ex-combattenti e vedove di caduti, e di senzatetto; le condizioni dei contadini, a seguito delle vicende recenti, sono piuttosto peggiorate; la fuga dei tecnici europei ha paralizzato o creato confusione in molte branche di attività. Esistono pertanto molte ragioni obbiettive di malcontento, che i rappresentanti della borghesia vecchia e nuova, appoggiati dalla Francia, tentano in ogni modo di sfruttare, cercando di raccogliere le fila di un’opposizione attorno a Ferhat Abbas, presidente dell’assemblea: in una votazione all’assemblea, cui ho assistito, i votiantibenbellisti pareggiarono quasi i voti benbellisti. Gli avversari di Ben Bella siedono accanto a lui nel governo, dal ministero delle finanze a quello dei lavori pubblici, e il loro desiderio di far cadere Ben Bella in conseguenza delle difficoltà economiche è evidente, come è evidente che essi possono contare, per accrescere le difficoltà, sull’ostruzionismo francese nella politica degli aiuti e sull’atteggiamento di una gran parte della stessa amministrazione algerina, decisamente contraria all’“opzione socialista”. Lo stesso Ben Bella mi ha parlato di questa “congiura” che si annida negli stessi uffici della presidenza.
In queste condizioni quale è il disegno di Ben Bella e quali i mezzi a sua disposizione? Non ho la pretesa di rispondere con esattezza ma solo per supposizioni. In primo luogo egli può contare su due grandi forze: l’appoggio dei contadini e, almeno fino ad ora, di Boumedienne e quindi della maggioranza dei militari. Manca inoltre per il momento una valida soluzione di ricambio: i vecchi suoi avversari, compresi gli stessi Kabili Ait Ahmed e Krim Belkacem, sembrano piuttosto isolati. Solo i suoi alleati di Tlemcen possono contrastargli il passo: Ferhat Abbas, attorno a cui si raccoglie appunto l’opposizione borghese delle città ma che non sembra né abbastanza forte né abbastanza deciso per rappresentare un’alternativa, e Khider, che in questo momento è all’estero ma che potrebbe diventare l’uomo pericoloso, capace di raggruppare l’opposizione di tendenza islamico-nazionalista e che aveva tentato di forgiarsi il partito a sua immagine. Ben Bella tenta oggi da un lato di rifare il partito con quadri nuovi, dall’altro è in via di costituire una nuova amministrazione, dipendente direttamente da lui, cioè dalla presidenza del consiglio, per esautorare i capi e la burocrazia dei vari ministeri che gli sono contrari. In pari tempo cerca di orientare l’assemblea costituente verso una costituzione di tipo presidenziale che gli dia gli strumenti anche legali di potere per affermare definitivamente la sua leadership, liberando l’Algeria dai pericoli di un falso democratismo che servirebbe solo in ultima analisi a consegnare definitivamente l’Algeria nelle mani del neocolonialismo.
Sul piano economico Ben Bella si propone di costruire gradualmente un settore socialista, senza peraltro rifiutare, anzi esigendo dalla Francia e, in quanto possibile, anche da altri Paesi, tutti gli aiuti economici di cui ha bisogno e che possono essere ottenuti con compromessi tali da non sacrificare definitivamente l’indipendenza del Paese: questo non facile equilibrio fra spirito rivoluzionario e realismo pratico, in cui fu maestro Lenin, sarà il banco di prova della capacità politica di Ben Bella. Sul piano internazionale egli ha oggi due obbiettivi precisi: la lotta aperta, anche militare, al colonialismo nelle colonie portoghesi, in Rhodesia e nel Sud-Africa, e l’unità graduale dell’Africa; le posizioni prese a Addis Abeba su questi due temi hanno notevolmente accresciuto il suo prestigio africano.
Riuscirà? Non riuscirà? Andrà avanti verso l’“opzione socialista” o si fermerà a mezza strada? Ricadrà negli schemi nasseriani o aprirà delle nuove vie? Sarebbe presuntuoso voler rispondere oggi, ma credo che la sinistra europea non abbia oggi altra carta in Algeria che l’appoggio al socialismo nascente di Ben Bella. Quest’appoggio sarà anche uno strumento di successo.
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