mercoledì 11 gennaio 2012

Il presidente Chavez e le FARC: Stato e Rivoluzione, di James Petras

Nota di Rebelion.org : Questo testo è stato scritto prima della liberazione di Ingrid Betancourt

Quando il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, ha chiesto alle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (FARC) di lasciare la lotta armata e ha dichiarato: “la guerriglia è passata alla storia”, non faceva altro che percorrere la stessa strada che in passato avevano già percorso molti leader rivoluzionari.

Se torniamo all’inizio degli anni 20’, Lenin chiese al nascente comunismo turco di sacrificare la sua indipendenza rivoluzionaria per appoggiare Ataturk; il suo successore, Josif Stalin, chiese ai comunisti cinesi di subordinare il loro movimento rivoluzionario al partito nazionalista guidato da Chiang Kai-Shek. Mao Zedong diede priorità alle coalizioni in cui il Partito Comunista Indonesiano si sottometteva alla guida del dirigente nazionalista, generale Achmed Sukarno.

Nel 1954, durante i negoziati di pace franco-indocinesi di Ginevra, Ho Chi Minh accettò la divisione del paese e chiese ai comunisti del Vietnam del Sud di lasciare la guerriglia e di lavorare per riunificate il paese per via elettorale. All’inizio del nuovo millennio, Fidel Castro ha dichiarato: “la lotta armata è una cosa del passato”, dato che nelle attuali condizioni ci sono altre forme di lotta prioritarie*. Hugo Chávez ha chiesto alla sinistra brasiliana di appoggiare il regime sociale liberale del presidente Lula da Silva, nonostante la sua adozione dell’economia di libero mercato nel Social Forum Mondiale del 2002. Ha pure fatto appello ai movimenti sociali latinoamericani perché appoggiassero una serie di regimi pro capitalisti in America Latina, nonostante difendano gli investimenti stranieri, i banchieri e gli agro esportatori.

Queste esperienze di governi rivoluzionari, radicali, che esortano i loro colleghi ideologici a collaborare con regimi non rivoluzionari ed invitano ad abbandonare la lotta, generalmente hanno avuto conseguenze disastrose: il Kuomintang di Chiang Kai-shek tradì il Partito comunista, massacrò la maggioranza dei suoi militanti e li spinse verso le montagne dell’interno. I comunisti indonesiani legalmente riconosciuti, i loro simpatizzanti e famigliari subirono da mezzo milione ad un milione di morti, quando un golpe della CIA fece cadere Sukarno. I comunisti del Vietnam del Sud che avevano voluto partecipare alla politica elettorale furono assassinati o incarcerati, e quelli che sopravvissero si videro costretti a tornare alla lotta clandestina, alla guerriglia.

I regimi elettorali riformisti che sono giunti al potere in America Latina hanno salvato il capitalismo dalle crisi degli anni 90’, hanno smobilitato la sinistra e aperto le porte alla riscossa dell’estrema destra in quasi tutto il continente.

Nel caso della Colombia, a quanto pare, il Venezuela del presidente Chavez ha scelto di ignorare l’esperienza precedente delle FARC, che hanno già cercato di seguire la strada della politica elettorale. Infatti, tra il 1984 e il 1989, migliaia di guerriglieri delle FARC abbandonarono le armi e aderirono alla lotta elettorale. I candidati che furono eletti, congressisti, uomini e donne, vennero decimati dagli squadroni della morte dell’esercito colombiano, dai paramilitari e dagli eserciti privati dell’oligarchia. Furono assassinati più di 5.000 lider e militanti delle FARC.

Non è sorprendente che Chavez li esorti a aderire al processo elettorale colombiano, nel regime più sanguinario e più feroce nemico dei diritti umani della storia recente? Perché i lider radicali che hanno guidato lotte armate, una volta preso il potere, chiedono ai loro omologhi rivoluzionari di abbandonare la guerriglia e di partecipare a processi elettorali dalle possibilità tanto dubbie? Per spiegare ciò che sembra un voltafaccia politico, sono state date varie spiegazioni in diversi momenti.

La spiegazione morale

Alcuni criticano il “voltafaccia” spiegandolo come l’effetto di una “degenerazione morale”; i lider si trasformano in autocrati burocratici e cercano solo di consolidare il potere nei propri paesi.

Questa è la posizione comune adottata dalla sinistra, l’opposizione alle politiche di Stalin in merito alle politiche russe nei confronti della rivoluzione cinese. I difensori del “voltafaccia” in Cina affermarono che si trattava del riconoscimento dei “tempi nuovi” e delle “oggettive opportunità” su scala mondiale. E argomentavano che la comparsa della rivoluzione anticoloniale mondiale dopo la seconda guerra mondiale, aveva creato una simmetria d’obiettivi tra nazionalisti e comunisti che col tempo si sarebbe evoluta in uno stato non capitalista.

Queste fragili alleanze portarono alla divisione e alla nascita di regimi di ”uomini forti” d’estrema destra, fatto che suggerisce che quell’argomento aveva una durata limitata.

Sono comparse, e ancora compaiono, numerose spiegazioni della politica della ”inversione ad U”, del voltafaccia politico, ma qualunque spiegazione storica strutturale deve tenere conto della differenza fra un movimento rivoluzionario che va verso la presa del potere, e una guida rivoluzionaria che il potere, invece, ce l’ha già.

Nel secondo caso, lo stato rivoluzionario, generalmente, deve fare fronte a un ambiente ostile, a pressioni militari, boicottaggi economici e isolamento diplomatico degli stati imperialisti e dei loro subordinati. In questo contesto, il regime rivoluzionario o radicale ha una serie di opzioni politiche per migliorare la sua collocazione internazionale, che va dall’appoggio dichiarato ai movimenti di opposizione radicale stranieri, fino al mostrare la volontà di moderazione e conciliazione con le richieste imperiali.

Ci sono molti fattori che influiscono nella politica estera dei regimi rivoluzionari. E’ probabile che si applichi una politica rivoluzionaria nei seguenti casi:

1. I movimenti rivoluzionari sono in espansione e sembrano sul punto di ottenere un successo, sia nel far cadere governi pro-imperialisti sia nel mettere in moto governi progressivamente favorevoli.

2. Il regime rivoluzionario ha preso il potere, affronta una minaccia militare imminente per il suo consolidamento e il risultato sarà: “tutto o niente”.

3. Il regime rivoluzionario affronta un solido blocco di opposizione, intransigente, guidato da potenze imperialiste che non intendono negoziare un accordo di convenienza, né sono disposte ad assumere alcun compromesso.

Al contrario, i regimi rivoluzionari sono più propensi a rinunciare o a minimizzare i vincoli con i movimenti rivoluzionari stranieri nel caso in cui:

1. Le possibilità di mantenere i rapporti diplomatici e commerciali, scambi ed investimenti con i regimi capitalisti non siano definitive.

2. I movimenti radicali siano in declino e perdano i loro appoggi, oppure siano eclissati da partiti elettorali che promettono il riconoscimento e migliori relazioni.

3. Gli scambi socioeconomici nello stato rivoluzionario si evolvano verso un accordo con gli investitori locali o stranieri emergenti, e la cui futura crescita dipenda dall’associarsi con le élite imprenditoriali straniere e da un dissociarsi delle forze anticapitaliste radicali.

Il pratica, in luoghi e tempi diversi, le due posizioni polari si combinano in conformità di una serie di circostanze attenuanti. Per esempio, il regime rivoluzionario può dissociarsi dai movimenti rivoluzionari e cercare una posizione di aggiustamento con i grandi regimi capitalisti economicamente importanti, mentre continua ad appoggiare movimenti rivoluzionari in piccoli paesi capitalisti e meno significativi.

In altri casi, il regime rivoluzionario può dissociarsi dai movimenti rivoluzionari per diversificare i suoi mercati e, contemporaneamente, continuare a esprimere una “retorica rivoluzionaria” ad uso e consumo domestico e per mantenere la lealtà dei movimenti riformisti stranieri.

La politica estera, rivoluzionaria o no, è una prerogativa del corpo diplomatico, che di solito è costituita da molti professionisti sprovvisti di una cultura rivoluzionaria e dell’epoca precedente. Il loro modo di intendere la politica estera è ricorrere ai vincoli e relazioni anteriori con i loro omologhi dei paesi capitalisti, e con le élite imprenditoriali del loro paese.

Quindi, in generale, sono in costante “stato di negoziazione”, immune alle dinamiche rivoluzionarie interne, cercando di aumentare al massimo i lacci diplomatici e di ridurre al minimo i legami esterni coi movimenti rivoluzionari che compromettono le loro quotidiane relazioni con i colleghi stranieri.

Governi e partiti: la solidarietà e gli “Interessi di Stato”

Si può immaginare una situazione in cui un governo rivoluzionario stia conducendo una politica moderata, mentre il partito, partiti o movimenti rivoluzionari che sostengono il governo esprimano la loro solidarietà con partiti e movimenti rivoluzionari stranieri. Si presuppone che stato e partito si sostengano reciprocamente, ma sono indipendenti a proposito di politica e organizzazione. Questo dualismo è possibile se il partito decide le proprie politiche attraverso i propri istituti, consultando i suoi militanti, e non è una “cinghia di trasmissione” dello stato e del suo potere esecutivo.

Purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, lo stato e il partito tendono a fondersi, i lider del partito e dei movimenti sociali di massa assumono cariche nel governo, i movimenti perdono la loro autonomia e si trasformano in meccanismi per supportare le politiche statali. Le manovre diplomatiche del ministero degli Esteri, a tal punto, invalidano i principi di solidarietà rivoluzionaria di partito e movimenti, riducendoli a una retorica astratta e trascendente. Mentre lo stato post rivoluzionario ha la responsabilità quotidiana di garantire la sicurezza, l’impiego e lo svolgimento dei servizi necessari al popolo, e pertanto trova modo di intendersi con i regimi esistenti per ottenere ciò, i partiti e i movimenti rivoluzionari hanno come uno dei loro principali obiettivi l’approfondimento e l‘estensione dei mutamenti rivoluzionari inclusi nei loro programmi.

In altre parole, vi è una tensione inevitabile tra le “ragioni di Stato” e il “programma rivoluzionario” dei movimenti di massa. Con il consolidamento dello stato post rivoluzionario, la tendenza dominante nella classe dirigente è la stabilizzazione dei rapporti con l’esterno. Ciò implica due processi: limitare il partito rivoluzionario a un appoggio morale dei suoi omologhi esterni, e svincolarsi dai movimenti rivoluzionari stranieri. La retorica rivoluzionaria, radicale e internazionale continuerà ad essere un rituale negli anniversari di vittorie storiche, eroi rivoluzionari e denunce contro gli aggressori imperialisti più vicini, mentre si prendono accordi con i regimi capitalisti. Quando i paesi capitalisti stabiliscono patti diplomatici, economici o politici con un regime rivoluzionario, quest’ultimo qualifica questi suoi nuovi soci come “progressisti”, come se facessero parte di una nuova ondata di governi “antimperialisti” o “indipendenti”. Quello che più sorprende di queste nuove definizioni dei soci capitalisti, economici o diplomatici, è che non si basa su alcun mutamento strutturale, di proprietà o di classe, e neppure sulla rottura dei rapporti con i paesi imperialisti. Il cambio di etichetta politica avviene quasi esclusivamente come risultato della politica estera del paese con il regime rivoluzionario.

Venezuela: il paradosso di cambiamenti rivoluzionari e politica estera conservatrice

Il governo di Chavez prosegue una politica praticata dalla maggioranza dei lider rivoluzionari o radicali anteriori che hanno dovuto affrontare potenze imperialiste ostili; mentre cerca alleati diplomatici esterni fra i regimi capitalisti riformisti e addirittura conservatori, adotta politiche socioeconomiche radicali per indebolire gli alleati interni dell’impero.

Chavez ha sostenuto il regime neoliberale di Lula in Brasile (ed ha esortato i movimenti sociali popolari a fare lo stesso) anche quando l’ex lider sindacale ha abbassato drasticamente le pensioni del pubblico impiego, imposto un patto di stabilità del FMI e favorito gli agro esportatori piuttosto che i lavoratori rurali senza terra.

Chavez ha pure appoggiato economicamente il regime di Kirchner in Argentina mediante l’acquisto di buoni dello Stato, anche quando quel governo non ha impugnato le privatizzazioni illegali degli anni 90’, ha mantenuto le disuguaglianze socioeconomiche del passato e non ha riconosciuto legalmente la Confederazione sindacale indipendente dei lavoratori argentini (CTA). Per Chavez, il fattore chiave era l’opposizione argentina a un intervento statunitense contro il Venezuela e il rifiuto del ALCA promosso dagli USA.

La politica estera di Chavez riguardo alla Colombia, principale alleato politico e militare degli Stati Uniti nell’area, ha alternato la riconciliazione al rifiuto, in base alle minacce pendenti sulla sovranità venezuelana. I punti di conflitto girano intorno a vari interventi flagranti colombiani in Venezuela: nel 2006 l’esercito colombiano ha sequestrato, nel centro di Caracas, un cittadino venezuelano d’origine colombiana, rappresentante all’estero delle FARC.

In precedenza, l’esercito venezuelano aveva detenuto 130 paramilitari armati colombiani in Venezuela, a meno di 100 chilometri dalla capitale. Dopo la detenzione, il Venezuela aveva brevemente sospeso i rapporti economici, ma quelli erano ripresi poco dopo in seguito ad un incontro diplomatico tra il presidente degli squadroni della morte colombiani, Uribe, e Chavez.

Nel 2008, quando Chavez ha cercato di mediare per una liberazione di prigionieri e aprire i negoziati di pace tra le FARC e il regime di Uribe, quest’ultimo ha lanciato un attacco militare assassino contro il gruppo diplomatico delle FARC alla frontiera con l’Ecuador. A fronte dell’offensiva di Uribe e della sua violazione della sovranità ecuadoregna nella lotta alla guerriglia, Chavez è stato obbligato a denunciare Uribe, mobilitare l’esercito venezuelano e presentare la questione all’Organizzazione degli Stati Americani (OEA). Uribe ha poi scatenato un’offensiva diplomatica argomentando che un computer della guerriglia, catturato nell’attacco, conteneva le prove dei rapporti di Chavez con le FARC.

In seguito, Uribe e Chávez hanno negoziato un accordo temporale, sulla base di un minimo intendimento, per cui Uribe si asterrà in futuro da attacchi tranfrontalieri. In questo contesto di levata di scudi e di tensioni diplomatiche, Chavez ha scelto di denunciare pubblicamente le FARC, ha scelto di porre una distanza fra il suo governo e la sinistra rivoluzionaria, chiedendo il suo disarmo unilaterale per guadagnarsi la simpatia diplomatica di Colombia, Europa e Stati Uniti.

Chavez ha creduto di poter pacificare Uribe per diminuire le minacce alla frontiera venezuelana e ridurre le probabilità che la Colombia lasciasse agli USA l’uso del suo territorio di frontiera come base di lancio per un’invasione.

La decisione di Chavez è stata profondamente influenzata dall’indebolimento politico e militare delle FARC negli ultimi cinque anni, i progressi dell’esercito colombiano e il calcolo che l’efficacia delle FARC come contrappeso a Uribe andava scemando. In questo contesto, Chávez probabilmente ha considerato più importante la distensione diplomatica con la Colombia appoggiata dagli USA,

che qualunque solidarietà passata o un futuro recupero tattico delle FARC.

In termini generali, quando i governi rivoluzionari percepiscono o affrontano una situazione di indebolimento, movimenti rivoluzionari sconfitti all’estero e crescenti minacce politiche delle potenze imperialiste e loro satelliti, è più probabile che costruiscano ponti diplomatici con governi centristi o di destra, per ottenere l’appoggio diplomatico, la misura più naturale per costruire la fiducia e sacrificare qualunque identificazione con la sinistra radicale, incluso il ripudio pubblico a qualunque iniziativa extraparlamentare.

Dalle crisi economiche degli anni novanta, Cuba ha stabilito rapporti economici e diplomatici con tutti gli stati dell’America Latina (inclusa la Colombia), si è opposta a tutti i movimenti di guerriglia e ha rinunciato a criticare i regimi di centrodestra, eccetto quelli che l’attaccano pubblicamente, come successo con vassalli degli USA come il presidente Fox del Messico e il suo ex ministro degli Esteri, Jorge Castañeda, un noto portavoce della CIA e dell’esilio cubano a Miami.

Conclusione

I dilemmi dei governi rivoluzionari girano intorno al problema di amministrare lo stato, il che implica massimizzare i rapporti economici e diplomatici internazionali per sviluppare l’economia e difendere la sua sicurezza in un ordine mondiale imperialista, mentre vive in coerenza con la sua ideologia rivoluzionaria e la solidarietà coi movimenti popolari nel mondo capitalista. I rischi della solidarietà diminuiscono quando s’instaurano nuovi regimi di sinistra o prendono quota i movimenti popolari. I rischi sono maggiori quando risorge o si fa minacciosa la destra.

Il dilemma è molto acuto, perché lo stato rivoluzionario e il partito rivoluzionario sono intimamente legati e s’identificano così: il partito è diretto dal presidente dello stato e c’è coincidenza a tutti i livelli tra gli ufficiali e i membri del governo e del partito, così come le attività degli ultimi riflettono le priorità del governo. Nei casi in cui non vi sia uno spazio indipendente tra lo stato e il partito, i movimenti diplomatici necessari per le politiche quotidiane minano la possibilità che il partito (basato su principi e delibere interne) possa agire indipendentemente dai suoi omologhi internazionali. Al contrario, l’esistenza di un partito rivoluzionario indipendente, che appoggia lo stato ma ha una sua vita interna, potrebbe risolvere il dilemma dando priorità alla solidarietà di classe nella sua “politica estera”. Rifiutando il ruolo di cinghia di trasmissione della politica estera governativa, il partito rivoluzionario agirebbe parallelamente allo stato, esercitando la sua opposizione all’imperialismo e ai nemici di classe interni, ma sarebbe indipendente nel momento della scelta delle alleanze straniere e delle tattiche.

Data la differente composizione tra la burocrazia e i corpi diplomatici della politica estera, e la base di massa radicale del partito rivoluzionario, questa separazione di stato e movimenti rifletterebbe le differenze politiche e di classe inerenti fra un corpo diplomatico formato nei regimi reazionari precedenti, e abituati a metodi operativi convenzionali, e gli attivisti popolari radicalizzati, forgiatisi nella lotta di classe e abituati allo scambio di idee nei fori internazionali con rivoluzionari provenienti dall’estero.

I rischi della dipendenza diplomatica da alleati capitalisti poco affidabili e di fragili patti temporanei, devono equilibrarsi con la solidarietà e l’appoggio di partiti e movimenti di massa d’opposizione impegnati in politiche extraparlamentari.


* Nota di resistenze.org

Fidel Castro ha recentemente dichiarato che non chiede alle FARC di deporre le armi, ma solo di liberare i prigionieri …

da: http://www.granma.cu/italiano/2008/julio/lun7/reflexiones-i.html

Le riflessioni di Fidel - La pace romana

“(..) Ho criticato con energia e franchezza i metodi obiettivamente crudeli del sequestro e della detenzione di prigionieri nelle condizioni della selva. Ma non sto suggerendo a nessuno di deporre le armi, se negli ultimi cinquant’anni coloro che lo hanno fatto non sono sopravvissuti alla pace.
Mi azzardo a suggerire ai guerriglieri elle FARC semplicemente di dichiarare per qualsiasi via alla Croce Rossa Internazionale la disposizione di porre in libertà i sequestrati senza condizione alcuna. Non pretendo che mi si ascolti: compio il dovere di dire quello che penso. Qualsiasi altra condotta servirebbe solo a premiare la slealtà e il tradimento. Non appoggerò mai la pace romana che l’impero pretende imporre in America Latina.

Fidel Castro Ruz
5 luglio 2008

http://www.resistenze.org/sito/te/po/cl/pocl8g09-003435.htm

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