giovedì 6 ottobre 2011

MUNTAZER: SADDAM E' VIVO E LOTTA INSIEME A NOI, di Fulvio Grimaldi

RIPROPONGO QUESTO FANTASTICO ARTICOLO DI FULVIO GRIMALDI. BUONA LETTURA !!!





domenica 21 dicembre 2008

MUNTAZER: SADDAM E' VIVO E LOTTA INSIEME A NOI






















Ho sempre ritenuto le azioni delle persone i migliori interpreti dei loro pensieri.
John Locke

These shoes are made for walking
And walking they will do
Some day these shoes will walk all over you

(Queste scarpe son fatte per camminare
E infatti cammineranno
Un giorno queste scarpe
Cammineranno addosso a te)
(Nancy Sinatra)

Due anni fa il legittimo presidente dell’Iraq, Saddam Hussein, veniva impiccato, sotto supervisione degli occupanti statunitensi, tra ingiurie e percosse di Moqtada Al Sadr e delle sue belve al servizio dei carnefici del popolo iracheno, al termine di un processo-farsa durante il quale tre avvocati dell’imputato furono assassinati e numerosi testimoni a difesa vennero espulsi, percossi e incarcerati. Ai criminali di Washington che gli avevano assicurato un salvacondotto per l’estero e la vita se avesse ordinato alla Resistenza di arrendersi, ha opposto lo stesso rifiuto con cui per trent’anni aveva risposto alle minacce, alle blandizie e alle aggressioni dei gangster del Nord. Nel corso del cosiddetto processo e dell’esecuzione, Saddam, svergognando e ridicolizzando i suoi accusatori e boia, ha dimostrato di che tempra fosse un iracheno che, dopo aver guidato due rivoluzioni contro il regime colonialista e contro la destra reazionaria, in trent’anni ha costruito la nazione più progredita, socialmente giusta, coerentemente antimperialista e antisionista dell’intero Medio Oriente. Ha retto, contro incessanti aggressioni, complotti filo-occidentali, attentati, rivolte istigate dai neocolonialisti, embarghi genocidi, la guerra scatenata su istigazione USraeliana dagli oscurantisti di Khomeini, uno Stato che noialtri ci impuntiamo a definire “autoritario”, per la spocchiosa indisponibilità a comprendere imprescindibili condizioni storiche e culturali da noi lontanissime. Ha rappresentato, con il consenso della stragrande maggioranza del suo popolo, l’estremo baluardo della resistenza laica e socialista alla rivincita imperialista, all’espansionismo israeliano, al dilagare della vandea integralista. Ha costruito diritti umani collettivi, quelli che contano nel riscatto di un popolo dopo millenni di dominio e depredazioni di tiranni esterni, l’alfabetizzazione, la sanità, l’istruzione, il lavoro, la casa, il benessere, lo sviluppo industriale, l’emancipazione delle donne, il rispetto delle minoranze (unico paese ad aver concesso ai curdi autogoverno e autonomia), l’esplosione di una creatività letteraria e artistica senza pari nella regione, il sostegno incessante a popoli perseguitati, palestinesi in testa, il ruolo di polo aggregante per le forze rivoluzionarie arabe e del Sud del mondo.

Tutto questo è stato sepolto, con la piena e ottusa complicità delle sinistre internazionali, da una campagna di diffamazioni contro l’uomo e la sua opera che non ha paragoni nella storia, dall’intento, evidente a chiunque non si disponesse alla lobotomizzazione politica e mediatica imperialista, di impedire che all’Iraq di Saddam e del Baath la società veramente civile, le masse proletarie, le classi sfruttate, i popoli oppressi, le avanguardie di lotta offrissero quella solidarietà che, in altri tempi, aveva sostenuto la decolonizzazione, le guerre di liberazione nazionale, le rivoluzioni socialiste. A un gruppo dirigente espresso dalla volontà di emancipazione del suo popolo, sotto incessante assedio da parte di potenze predatrici, intrise di ogni cinismo e ogni ferocia, ma impegnato contro tutto e contro tutti a costruire uno spazio di benessere, sovranità e dignità, si pretendeva di imporre il modello di borghesie sedicenti democratiche. Borghesie che alle spalle non avevano solo secoli di oppressioni dispotiche, ma il Rinascimento, il riscatto illuminista, la rivoluzione francese e quella russa. Liberatosi nel 1958, a prezzi di sangue altissimi, dell’ultima e più brutale dominazione straniera, quella britannica, l’ipocrisia occidentale, cristiana, bianca, esigeva che la società irachena, quella araba in generale, avessero maturato nelle istituzioni, prima ancora di una coscienza collettiva, le forme di governo con le quali dalle nostre parti ci si vanta di essere i migliori. I migliori, come si vede ogni giorno meglio, a ingannare, sfruttare, sterminare. Una pretesa antiscientifica, prima ancora che ipocrita e immorale.

Quello che Saddam ha saputo realizzare, per quanto sia stato occultato o deformato a noi nel Nord del mondo, sinistri eurocentrici, settari e presuntuosi, vive nel ricordo e nella coscienza del Sud del mondo, di quasi mezzo miliardo di arabi, della cui liberazione e unità è stato il massimo protagonista. Vive nella memoria e nella volontà di rivincita di tutti gli iracheni, esclusa la, a noi familiare, schiatta di lenoni, prostitute e cavernicoli religiosi. Vive nell’abbagliante contrasto tra come quest’uomo ha saputo resistere e morire e come lo hanno ucciso i vermi rigurgitati dal corpo frantumato del suo popolo. Vive e ha iniziato a demolire la colossale muraglia di menzogne – dalle armi di distruzione di massa ai curdi gassati, dagli sciti repressi ai comunisti sterminati, dai grotteschi sadismi all’“uomo degli americani” – con cui i mostri della guerra e del vampiraggio hanno seppellito la verità. Ultima, la vicenda della sua cattura, presentata come quella di un barbone nascosto in un buco, sotto un albero pieno di datteri quando di datteri non era il tempo. Il racconto di testimoni iracheni e di marines ci hanno restituito un combattente che, tradito e individuato in casa di amici, si è difeso armi in pugno fino all’ultima pallottola, è stato messo in ceppi, drogato e torturato. Quindi esibito settimane dopo. Al suo popolo Saddam ha saputo portare la gentilezza della dignità e della vita, anche se il prezzo da pagare era quello di non poter essere sempre gentile.

Saddam, apparso tra la folla nel cuore di Baghdad il 9 aprile del 2003, mentre già i tank degli invasori massacravano tutto ciò che incontravano, aveva appena comandato le sue forze nella grande battaglia dell’aeroporto, costato agli invasori il più alto prezzo in vite di tutta l’invasione. Nei successivi nove mesi aveva organizzato e guidato quella Resistenza che ancora oggi, dopo cinque anni, è protagonista dell’opposizione armata e civile agli occupanti e ai loro fantocci, sotto il comando di Izzat Ibrahim Al Duri, già vice di Saddam e sempre vicepresidente legittimo dell’Iraq. Mi rendo conto che molti tra i lettori di questa inadeguata orazione funebre se ne ritireranno sconcertati, se non oltraggiati nelle convinzioni coltivate in tanti anni con il concime delle calunnie arrivate da orizzonti a 360 gradi. Non mi sottraggo al rischio di perderli, questi interlocutori. Lo debbo alla verità. Io ci sono stato nell’Iraq di Saddam. Sono stato negli anni ’70 e ’80 nella Baghdad spumeggiante delle accademie d’arte, delle scuole, delle organizzazioni di donne assurte a parità con gli uomini a tutti i livelli della politica e delle professioni, dei sindacati che agli operai costruivano le case, della sanità gratuita pari a quella cubana, degli ospedali visitati da pazienti da tutto i Sud del mondo, delle università frequentate gratis da milioni di studenti stranieri, di quartieri in crescita secondo i canoni di un’architettura attenta alla storia e alla qualità della vita, del milione di curdi sfuggiti alla morsa di capitribù radicati nel medioevo e spesso agenti del colonialismo (altro che Kirkuk “arabizzata” da Saddam, piuttosto una Baghdad curdizzata), tra contadini per la prima volta padroni della loro terra, tra puerpuere che godevano di ferie di maternità doppie delle nostre. Ci sono stato, in Iraq, quando un Khomeini appena insediato dall’Occidente, sterminati gli attori comunisti e islamici della rivoluzione contro lo Shah, veniva armato dagli israeliani (lo scandalo Iran-Contras, ricordate?) e lanciato contro il paese che aveva costituito il “Fronte del Rifiuto” per neutralizzare il connubio israelo-egiziano, sancito nell’accordo Begin-Sadat di Camp David. Pace tra due farabutti con la quale s’intendeva abbandonare il popolo palestinese al suo destino. Ci sono stato, in Kurdistan, quando, per la prima volta nella storia, quattro dei 20 milioni di curdi sparsi in quattro paesi e lì sempre esclusi e decimati, ebbero riconosciuta la loro identità, un autogoverno con tanto di parlamento, un’università e la loro lingua posta al pari in tutta la nazione a quella araba, il loro partito, PDK, incluso nella coalizione di governo con baathisti e comunisti. Era la fine di un ordinamento gerarchico tribale di stampo medievale, con la tirannia assoluta di capitribù predatori e narcotrafficanti e quella dei maschi sulle donne. Furono poi un paio di questi capitribù a vendere, in cambio di un po’ di man bassa sul petrolio, se stessi e i loro sudditi al predatore straniero, soprattutto israeliano, e ad opporre, insieme agli sciti di obbedienza iraniana nel sud del paese, la massima resistenza alla laicizzazione del paese, alla liberazione delle donne, alla fine dello schiavismo feudale.

Ci sono stato, sulle montagne curde al confine con l’Iran, quando Khomeini sbraitava dalle emittenti persiane contro il governo iracheno, invitava gli iracheni a uccidere il loro presidente, faceva seguire provocazione armata a provocazione armata, infiltrava terroristi nella regione di Basra, pretendeva di rivedere a proprio vantaggio i confini sanciti da accordi, occupava con colpi di mano isole arabe nel Golfo, cannoneggiava i villaggi appena al di qua della frontiera. Ne scampammo per un pelo. Tanti curdi ci rimasero. Gli iraniani avrebbero poi ripetuto l’operazione nel 1988 con i gas sul villaggio di Halabja, due anni dopo attribuiti a Saddam, onde agevolare la prima Guerra del Golfo Tutto questo mesi e mesi prima dello scoppio del conflitto, documentato e denunciato al Consiglio di Sicurezza nell’astuta indifferenza delle Grandi Potenze.

Ero in Iraq quando, spedito da Reagan (che i persiani avevano voluto presidente al posto del meno bellicoso Carter: vedi l’operazione ambasciata USA), Donald Rumsfeld chiese a Saddam di riaprire a un Israele privo di risorse energetiche l’oleodotto Kirkuk-Haifa. In cambio avrebbe avuto dagli Usa rivelazioni satellitari sui movimenti e sulle basi delle forze di Teheran. Il futuro torturatore fu rispedito a casa con le pive nel sacco. E le pive erano lo stesso rifiuto che Saddam aveva opposto alle pressioni e ai ricatti succedutisi dalla rivoluzione e dalla nazionalikzzazione del petrolio in poi allo scopo di ricondurre l'Iraq allo stato di un obbediente e redditizio sceiccato. C’ero quando un Iraq, già dissanguato dall’aggressione clericalfascista di Khomeini sponsorizzata dai colonialisti spodestati, dovette difendersi dal più spietato embargo mai inflitto a un popolo innocente, complice l’Italia, e lo sostenne mantenendo i capisaldi della sua giustizia sociale, della sua forza morale, della sua coesione patriottica, nell’isolamento della “comunità internazionale”, internazionalisti “comunisti” e brezhneviani compresi, e sotto i costanti eccidi delle bombe del taumaturgo veltroniano Clinton. E c’ero, infine, ancora una volta con il grande, con il mai abbastanza compianto Stefano Chiarini del “manifesto”, quando arrivò l’ultima ondata dei barbari, quella delle stragi e dell’uranio, con l’impennata oscena delle imposture e denigrazioni recepite avidamente o pigramente da tutti. Quando il popolo iracheno, inerme, non aveva più altro da sbattere in faccia ai suoi assassini che la forza inaudita della normalità della vita, il rifiuto del panico, la determinazione a proseguire quella resistenza di decenni, di secoli, che già aveva eliminato dalla regione l’impero mongolo, quello ottomano, quello britannico.

Mentre a Baghdad, sul carro dell’invasore, giungeva la feccia dei rinnegati e prezzolati fuorusciti in Occidente o in Iran, per succhiare al paese sbranato il sangue avanzato dal banchetto imperialista, mi trovavo affiancato sul taxi in fuga verso Amman da un pullmino di Stato iracheno. A un posto di ristoro lungo i mille chilometri di deserto i suoi passeggeri mi si rivelarono funzionari del Ministero per gli Affari Palestinesi che stavano portando alle vittime del nazisionismo l’ultima consegna di aiuti: 20mila dollari per le famiglie dei caduti, 10mila per quelle cui era stata rasa al suolo la casa. Alle loro spalle bruciava il paese in cui non sarebbero più potuti tornare. Oggi, nell’indifferenza di tante meritevoli associazioni di solidarietà con la Palestina, quel che resta dei 35mila profughi della Nakbaaccolti e restituiti alla vita e al benessere da Saddam e decimati dagli sgherri di Moqtada al Sadr e di altri fantocci, è sparso in campi dell’orrore e dell’agonia in tende dell’Onu sulla terra di nessuno tra Iraq e Siria. Se il silenzio perdura, la sabbia del deserto seppellirà presto anche il ricordo di questi dannati della Terra che la ferocia del mondo ha ridotto in condizioni peggiori dei martiri di Gaza.

E l’anniversario del più turpe assassinio dei nostri tempi che Muntazer al Zaidi, scita iracheno, ha celebrato lanciando le scarpe contro il vero pendaglio da forca che ha guidato lo sterminio del suo paese. “Un bacio d’addio nel nome degli orfani (5 milioni), delle vedove e di tutti gli assassinati iracheni”, gridò questo grande erede della dignità e del coraggio del suo presidente. Potenza di un paio di scarpe: in Iraq, in tutto il mondo arabo, in molti altri paesi sono apparse decine di migliaia di scarpe sollevate da mani e inalberate su aste. Manifestazioni antiamericane di massa che hanno assunto un particolare significato nell’indomabile Fallujah, in quel che resta della città fosforizzata dagli stragisti Usa, dove gli studenti, oggi ovunque vera avanguardia politica e primo soggetto rivoluzionario, hanno opposte scarpe alle pallottole dei marines. Le pallottole dei mercenari Usa hanno ferito un ragazzo, le scarpe hanno coperto di ridicolo e di infamia i necrocrati che li hanno armati. In Palestina, a Bilin, altra città che, a dispetto del quisiling Abu Mazen e della sua camarilla di corrotti e venduti, resta in piedi sotto l’uragano della repressione nazisionista, nella ricorrente manifestazione contro il muro dell’apartheid israeliana a centinaia hanno lanciato scarpe contro le bande armate degli occupanti. I colpi di queste hanno ferito otto resistenti, ma le scarpe di Muntazer si sono schiantate sulla maschera di perbenismo che la cricca nazisionista presenta al mondo. A Betlemme hanno sollevato le scarpe i giornalisti palestinesi, quelli che, come in Iraq gli Usa, Israele non è ancora riuscita a togliere di mezzo. E scarpe hanno bucato il cielo, la rassegnazione, lo scoramento e come aquiloni si sono trascinate dietro speranza e coraggio in Grecia, Egitto, Pakistan, Yemen, Libia, Algeria. Lo schiaffo scarpato inflitto al cretino che la cupola Usa aveva mandato avanti per la sua geostrategia di rapina e killeraggio, non potendosi stavolta nascondere il fatto avvenuto in diretta mondiale, ha costretto sguardi distratti o pervicacemente chiusi a rivolgersi verso quella resistenza irachena che tanto imbarazza le nostre sinistre, specie quando dimostra che la guerra asimmetrica rende invincibile un popolo e che l’Iraq è la trincea del mondo dei giusti. Una trincea in cui si riconoscono, a scorno dei sinistri taffaziani italiani, tutte le forze di resistenza all’imperialismo, a partire da quelle che stanno facendo dell’America Latina l’avamposto della liberazione. Una trincea dalla quale si uscirà per l’attacco finale e che concluderà la sua vicenda come fossa dei padroni e della loro era.

Di Muntazer, che aveva in casa il poster del Che e perciò con più gusto è stato massacrato di botte dai gorilla del premier-fantoccio Al Maliki, apprendiamo che il fratello Udai lo ha potuto finalmente vedere, ridotto in condizioni pietose, con la faccia sfigurata. Al momento dell'arresto gli avevano già spaccato la faccia, rotto il polso e diverse costole. Nei giorni della detenzione ha subito ininterrotte torture a base di bruciature, scosse elettriche e bastonate. Udai ha riferito che Muntazer ha giurato che non chiederà mai scusa a Bush e che intende perseguire penalmente tutti coloro che lo hanno torturato e maltrattato. Le sue condizioni e il rischio che corre la sua vita nelle mani degli aguzzini iracheno-statunitensi impongono che si rafforzi la mobilitazione internazionale e che si moltiplichino le firme sotto l'apppello per la sua liberazione (qui in calce). Se l’imputazione sarà di tentativo di assassinio di un capo di Stato, la pena non sarà inferiore a 15 anni. Se ci si ferma al’ingiuria, scende a sette. Dall’ufficio del quisling iracheno è uscita la notizia che Muntazer, da bandiera del riscatto mondiale si sarebbe degradato a pentito che chiede scusa. Ne ha riso tutto l’Iraq e il fratello Udai Al Zaidi ha ricordato come Muntazer non fosse stato ridotto a piegare la testa neanche quando fu sequestrato e torturato dai miliziani del regime e poi dai marines. Intanto il gesto, che equivale al botto del franchista Carrero Blanco spedito su un balcone e disintegrato dalla Resistenza, o allo schiaffo all’ominicchio democristiano Fanfani, o al ceffone dato dalla rivoluzionaria nordirlandese Bernadette Devlin al ministro della difesa di sua maestà, o alla pistolettata della Gibson sul naso del duce, tutte crepe insanabili aperte nella pomposa iattanza dei bonzi colpiti, sta avendo l’effetto del classico sasso nello stagno. In Iraq ha fatto esplodere il parlamento, dove è scoppiata una rissa senza precedenti tra bande di crassa obbedienza Usa e bande che o incorporano gli interessi degli iraniani, o sperano di salvarsi un frammento di faccia davanti alle masse in rivolta patriottica contro tutta la ciurmaglia predatrice iraniano-statunitense. Chi voleva Muntazer scorticato vivo, magari dagli stessi manigoldi che fecero scempio di un Saddam irriducibile da vivo e inerme da morto. Chi, cosciente della catastrofe che lumeggia all’orizzonte alla partenza delle truppe Usa (già in vaste zone i ras locali sono stati abbandonati in mutande dagli altri contingenti della “coalizione dei volenterosi” e gli inglesi se ne andranno quest’estate), s’illude di salvare almeno la pelle chiedendo indulgenza per il più amato scarparo della storia. Nella Zona Verde dei fortilizi con piscina Usa, delle stratosferiche ruberie dei fantocci, degli alberghi di lusso per giornalisti puttane siamo a una specie di Goetterdaemmerung (crepuscolo degli dei). La nemesi in avvicinamento, clamorosamente annunciata da Muntazer e che, quando Obama sposterà i suoi killer da lì all’Afghanistan per far fuori il Pakistan e poi concentrarsi su Russia e Cina, sbranerà l’intero bordello messo su da Bush, sta già provocando reazioni da panico. In un turbinio di colpi di scena e contraccolpi l’intero postribolo di regime sta sprofondando nel grottesco. Giorni fa è stato annunciato l’arresto di 38, no 35, no 28, no 17, alti funzionari del ministero dell’interno, quello decisivo negli equilibri di potere della camarilla, quello che si può vantare di buona parte del milione e mezzo di civili morti e dei quattro milioni di espulsi di cui si ha conta certa dal 2003 a oggi (non 75mila, Tommaso Di Francesco del “manifesto”, come vorrebbe quell’ Iraqi Body Count che omaggia gli occupanti con i soli uccisi riportati dai velinari sulla stampa di regime; nemmeno i 600mila riportati dalla rispettabile rivista medica “Lancet” ben due anni e mezzo fa, prima dei massacri del Surge e dei trapanatori di Moqtada e del ayatollah Al Hakim). Si sarebbe trattato, veniva detto subito, di infiltrati di Al Hawda (“Il Ritorno”), partito clandestino di baathisti. Poi non più, piuttosto di rivali di cosca, in vista delle prossime elezioni-farsa per i governi provinciali. Insomma, una resa dei conti tra branchi di sciacalli in decomposizione.

In Grecia siamo alla gloriosa terza settimana di una rivolta innescata sulla rabbia di milioni per la loro criminalità organizzata al potere dall’assssinio del Carlo Giuliani greco, Alexis.
Insurrezione che si potenzia con la moltiplicazioni degli “incappucciati”, tanto deprecati dal PRC, e con nuove occupazioni di emittenti radio e tv, sedi governative, giornali e piazze vaste come il paese. Vi saettano ancora le pietre e molotov che tanto imbarazzano quel KKE “comunista”, assunto dai sinistri cagasotto nostrani ad alibi delle proprio accidioso quieto vivere. E anche qui sono arrivate, nel loro volo planetario, le scarpe lanciate da Muntazer. Da noi, invece, niente scarpe. L’unica calzatura cui si ambisce sono le pinne che agevolino le varie consorterie per le loro gare di nuoto nella fogna della corruzione e della prevaricazione. Vi sguazzano hitleruzzi con il plusvalore della mafiosità e veltrusconi criptocamorristi. Vi si tuffa anche, uscendo di tanto in tanto dalla formalina, con il caravanserraglio dei suoi Svendola, Sansonetti, Migliore, Giordano e il sempre più osceno Luxuria, quella specie di Gorbaciov da saldi Upim che è il vecchio Bertisconi. In qualche modo le scarpe di Muntazer hanno rasentato anche quel cranio di nonviolento da salotto vespiano. Infatti l’infausto in disarmo s’è ben guardato dal farne cenno. Né ha ritenuto di pubblicare e magari firmare l’”Appello dei Cinquantamila” per la liberazione del collega e compagno Muntazer “il manifesto”, che si è limitato al beau geste di nominare Muntazer direttore per un giorno. Non male, ma vuoi mettere Muntazer con Giuliana Sgrena!

Qui, invece, si insiste a chiedervi la firma per una delle migliori cause del mondo d’oggi.
http://www.ipetitions.com/petition/iwffomuntatharalzaidi?e



 
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