giovedì 13 ottobre 2011

Il concetto di nazione nella teoria marxista: da Gramsci a Frantz Fanon, di Stefano Zecchinelli


''Il popolo è deciso a offrir la propria vita per dare ai propri figli un tetto e da mangiare, per dare soprattutto a chi verrà domani la patria non più schiava dei nordamerìcani'' Proclama di Camilo Torres

''Se eliminaste l'esercito inglese domani e si issasse la bandiera verde in cima al Castello di Dublino, a meno che non si disponesse l'organizzazione della Repubblica Socialista i vostri sforzi sarebbero inutili. Il Regno Unito vi governerebbe comunque: Lo farebbe tramite i suoi capitalisti, i suoi coloni, i suoi finanzieri, attraverso l'intera massa di istituzioni commerciali e individualiste che ha piantato nel paese abbeverate con le lacrime delle nostre madri e il sangue dei nostri martiri'' James Connolly

" Amo il mio secolo, perchè è la patria che posseggo nel tempo.
L'amo già perchè mi permette di allargare di molto i limiti della mia patria nello spazio. Io amo la mia patria nel tempo, questo ventesimo secolo nato tra tempeste e procelle. Esso reca in sè possibilità illimitate. Il suo territorio è il mio mondo'' Leon Trotsky

1. I colpi di coda dell’imperialismo il quale a suon di bombardamenti al fosforo, e con i suoi mercenari islamisti, cerca di chiudere il ciclo delle rivoluzioni panarabe in Nord Africa, per poi allungare i tentacoli nel Medio Oriente, ha posto una serie di problemi che i marxisti non possono lasciare indefiniti. I movimenti di liberazione nazionale hanno ancora un carattere progressivo e antimperialista? Quale posizione deve assumere un (neo)marxista davanti il concetto di ‘’nazione’’? Lasciando stare la squallida ‘’sinistra colta’’, ormai cagnolino da guarda dell’imperialismo yankee, ed occupandomi solo delle posizioni marxiste, devo dire che il dibattito è tutt’altro che ‘’pieno di certezze’’. In questo intervento, cercando di rispolverare qualche contributo teorico originale (e purtroppo messo in cantina), proverò a rispondere a queste domande. Se non ci riuscirò, spero almeno di spingere chi legge a fare qualche riflessione, anche solo per respingere.

2. Premetto che il primo a dire che la sovranità nazionale non ha senso per i ceti più deboli, non fu Marx, ma Robespierre il quale sottolineò che l’idea di ‘’patria’’ negli Stati aristocratici valeva solo per le famiglie patrizie che se ne erano impadronite. Tutti i concetti hanno una loro ‘’genesi storica’’ e quindi non si può, con superficialità, bollarli senza una contestualizzazione ragionata.
Uno dei tanti meriti di Robespierre fu quello di aver provato a restituire al Quarto Stato il concetto di ‘’patria’’, rendendo partecipi i ceti più deboli alla ‘’gestione del bene comune’’. Questo era il progetto dell’ ‘’incorruttibile’’ interrotto bruscamente dalla contro-rivoluzione termidoriana.

Secondo i fondatori del ‘’comunismo scientifico’’ (Marx ed Engels) lo Stato si sarebbe estinto con il passaggio dal socialismo al comunismo puro, ma i fatti storici hanno posto problemi di maggiore complessità, e Marx, come ogni ‘’materialista storico’’ sa, ci ha lasciato un metodo e non un feticcio ideologico.
La Seconda Internazionale, guarda caso, al Congresso di Londra (luglio-agosto 1896) difese il diritto delle nazioni a decidere del proprio destino. Lo stesso Lenin aderisce a questo principio e infatti nel primo manifesto del ‘’Partito operaio socialdemocratico russo’’ non viene trattato il problema nazionale.
Nel 1903 il Partito di Lenin aggiunge nel suo programma (su pressione del Bund, i socialdemocratici ebrei) questi punti: 1) amministrazione autonoma per le regioni che si distinguono per modo di vivere (art.3); 2) introduzione dello studio delle lingue locali nelle scuole e la loro parità con la lingua di Stato (art.8); 3) diritto delle nazioni all’autodeterminazione (art.9).
Gli articoli 8 e 9 furono voluti dai menscevichi mentre Lenin, giustamente, ha sempre dato la precedenza alla lotta di classe. Negli anni seguenti il grande dirigente bolscevico difese il ‘’diritto di autodecisione dei popoli’’ contro le tendenze di destra (gli austro-marxisti) e quelle di sinistra rappresentate da Rosa Luxemburg.

Non è mia intenzione parlare in questo breve paragrafo dei testi che Lenin dedicò all’argomento delle nazionalità però voglio dare ai lettori un valido riferimento su cui soffermarsi e riflettere, anche in rapporto al proseguo di questo articolo. Il nostro amava ricordare il pensiero di Chernyshevsky e parlando ‘’dell’orgoglio nazionale dei grandi russi’’, disse:

‘’ Noi siamo pieni di un senso di orgoglio nazionale, e proprio per questa ragione noi odiamo particolarmente il nostro passato schiavista (quando la nobiltà terriera guidò i contadini in guerra per soffocare la libertà dell'Ungheria, della Polonia, della Persia e della Cina), ed il nostro presente schiavista, quando proprio questi stessi proprietari terrieri, aiutati dai capitalisti, ci stanno guidando in una guerra per strangolare la Polonia e l'Ucraina, abbattere i movimenti democratici in Persia e Cina, rafforzare i Romanov, i Bobrinsky ed i Purishkevich, che sono il disonore della nostra dignità nazionale Grande-Russa. Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo al quale non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù (che chiama, per esempio, " difesa della patria " dei grandi russi lo strangolamento della Polonia e dell'Ucraina), un tale schiavo è un lacchè e un bruto che desta un senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza’’. (Vladimir Ilic Lenin, Sull’orgoglio nazionale dei grandi russi, Pubblicato per la prima volta nel Sotsial-Demokrat No. 35 del 12 dicembre 1914).

In questo caso Lenin sembra descrivere la ‘’nazione’’ come qualcosa da conquistare, aliena alle classi dominanti che sono, al contrario, una puntella delle potenze imperialistiche, quindi dei corrotti. Un Lenin diverso, per alcuni aspetti più vicino a Gramsci e ai suoi studi sulla cultura ‘’nazional-popolare’’.
Penso che possa bastare per introdurre il dibattito su ‘’marxismo e questione nazionale’’

Nei paragrafi successivi entrerò nel cuore del problema, criticando, con basi marxiste, il cosmopolitismo astratto borghese. Cercherò di ‘’estirpare’’ questo male dalla radice.

3. Woodrow Wilson l’8 gennaio 1918 formula i 14 punti del ‘’piano di pace’’ della Società delle Nazioni. Dall’altra parte un giovane teorico marxista, Antonio Gramsci, capì subito che la struttura economica mondiale stava cambiando. Gli Stati Uniti si preparavano a diventare la potenza più forte e con organismi come la Società delle Nazioni vollero fronteggiare il proletariato sul suo stesso terreno, l’internazionalismo. Vediamo come il grande sardo inquadra questa fase.

Wilson – dice Gramsci – rappresentava i ‘’produttori non protetti’’ e gli industriali che avevano bisogno di esportare capitali all’estero, insomma ‘’un ceto capitalista che è la quinta essenza del capitalismo’’, sempre volendo citare il nostro (Gramsci).
Il pensiero di questi ‘’nuovi signori’’ è il liberismo economico che si preparava a distruggere ciò che restava degli Stati feudali, e del protezionismo ottocentesco. Gramsci ha descritto con chiarezza la distruzione dei piccoli Stati, l’apertura dei mercati, la concorrenza capitalistica, e come le macchine statali vennero sburocratizzate. Insomma si colloca in continuità con gli scritti di Lenin sull’imperialismo.

Il grande sardo parlando della Società delle Nazioni fissa queste coordinate:

‘’In questo scorcio della vita del mondo lancia l’ideologia della Lega delle Nazioni. Essa rappresenta per la borghesia liberista anglosassone la garanzia politica dell’attività economica di domani e dell’ulteriore sviluppo capitalistico. E’ il tentativo di adeguare la politica internazionale alle necessità degli scambi internazionali. Rappresenta per i singoli Stati, quella garanzia di sicurezza e di libertà che corrisponde nel seno di ogni Stato all’habeas corpus per la libertà e la sicurezza individuale dei singoli cittadini. E’ il grande Stato borghese supernazionale che ha dissolto le barriere doganali, che ha ampliato i mercati, che ha ampliato il respiro della libera concorrenza e permette le grandi imprese, le grandi concentrazioni capitalistiche internazionali’’ (Antonio Gramsci, La Lega delle Nazioni, Pubblicato su ‘’Il Grido del Popolo’’ n. 704 19 gennaio 1918).

E’ tutto molto chiaro: il vecchio capitalismo borghese ormai era giunto al capolinea e gli Usa, appoggiati dall’Inghilterra, avrebbero costruito delle forti sovrastrutture per mantenere la loro egemonia. Gli Stati europei erano (ed infatti poi sono stati) destinati a fare la parte dei vassalli. L’analisi di Gramsci, già dagli ‘’scritti torinesi’’, è geniale e ci porta ai grandi temi dibattuti nei ‘’Quaderni’’.
Il nostro porrà il problema della conservazione dello Stato operaio davanti le minacce imperialistiche, osservando con intelligenza la politica (interna ed estera) dei proletari russi, senza mai rinunciare alla necessità di esportare la rivoluzione.
Insomma la ‘’nazione degli operai’’ ha bisogno, per mantenersi, che la borghesia venga rovesciata ovunque, ma, dall’altra parte, una auspicabile ‘’Federazione di Stati socialisti mondiali’’ non significa affatto che i ‘’proletariati nazionali’’ debbano rinunciare alla loro ‘’cultura tradizionale’’.
Anche in ciò, e faccio questo piccolo appunto, si vede la distinzione fra il marxismo di Gramsci (un marxismo eretico) e la rigidità teorica di Bordiga (cito ad esempio ‘’I fattori di razza e nazione nella teoria marxista’’), massimo teorico della Sinistra Comunista.

In quegli stessi anni, non casualmente, dall’altra parte del mondo, il marxista peruviano J.C. Mariàtegui pronunciò queste parole:

‘’La Società delle Nazioni avrebbe riunito i delegati dei popoli; ma non avrebbe riunito i popoli stessi. Non avrebbe eliminato i motivi di contrasto tra questi. Le stesse divisioni, le stesse rivalità che avvicinano o rendono nemiche le nazioni nella geografia e nella storia, le avrebbero avvicinate o rese: nemiche all'interno della Società delle Nazioni. Si sarebbero con­servate le alleanze, i compromessi, le ententes che riuniscono i popoli in blocchi antagonisti e nemici La Società delle Nazioni, infine, sarebbe stata un'internazionale di classi sociali, un'Internazionale di Stati; ma non un'Internazionale di popoli. La Società delle Nazioni sarebbe stata un internazionalismo di etichetta, un internazionalismo di faccia­ta. Questa sarebbe stata la Società delle Nazioni nel caso in cui avesse riunito nel suo seno tutti i governi, tutti gli Stati. Attualmente, quando non riunisce altro che una parte dei governi e una parte degli Stati, la Società delle Nazioni rappresenta molto meno ancora. É un tribunale senza autorità, senza giurisdizione e senza forza, al margine del quale le nazioni contrattano e litigano, negoziano e si attaccano’’ (J.C. Mariàtegui, 15° conferenza del ciclo “Storia della crisi mondiale”, tenuta presso l’Università Popolare “ Manuel Gonzàles Prada” del Perù il 2/11/1923).

Le analogie con l’articolo di Gramsci, che ho citato in precedenza, sono impressionanti. Sul rapporto di Antonio Gramsci con Mariàtegui si potrebbero dire, infatti, tantissime cose; io mi limito a  rilevare come la ‘’solidarietà di classe’’ (espressione cara a Lenin) cammini, per entrambi, a braccetto con la valorizzazione del patrimonio storico, e il quindi del bagaglio culturale, che i ceti subalterni (ri)conquistano, lottando contro le borghesie imperialistiche.

4. Non tutti sanno che il fondatore del ‘’Partito comunista peruviano’’ soggiornò in Italia più volte, nei primissimi anni ’20. Osservò l’impresa di Fiume e maturò grande interesse per la letteratura dannunziana, scrivendo interessanti articoli di critica letteraria.
Nel 1921  partecipò al Congresso del Partito socialista di Livorno, dove conobbe Gramsci. Fra i due ci fu subito un grande dialogo su temi come il rapporto fra gli intellettuali e il popolo, la letteratura italiana, il marxismo inteso come ‘’filosofia della prassi’’. Una tappa, questa, non di poco conto, che ci aiuta a capire lo spirito di queste grandi personalità che tanto ci hanno insegnato.

5. Chiusa la parentesi Gramsci-Mariàtegui non possiamo non porci minimamente il problema della ‘’colonizzazione culturale’’, data la grande attenzione che questi due marxisti vi hanno dedicato (Gramsci parlò, per l’esattezza, di ‘’egemonia culturale’’).

L’imperialismo con la sua forza devastante crea nuovi rapporti sociali, modifica le fondamenta giuridiche della società colonizzata,  distrugge le economie tradizionali, impone la sua ideologia messianica bandendo le singole culture nazionali.
Per dare una idea della bestialità del neo-imperialismo faccio, ora, un eloquente esempio storico, di storia recente.

In Paesi come il Cile, l’Argentina, il Brasile, o l’Uruguay, quando al potere ci furono le ‘’famose’’ giunte militari al servizio degli Usa, furono pianificati dei veri e propri genocidi culturali.
Con l’Operazione Chiarezza furono tolti di mezzo la bellezza di ottomila educatori di sinistra. Come simbolo della distruzione della cultura popolare ci fu il massacro del cantautore folk socialista, Victor Jara, a cui furono strappate le dita nello stadio di Santiago, in Cile.
Scrittori come Augusto Boal ed Eduardo Galeano furono esiliati, mentre Rodolfo Walsh fu ucciso.
Gli unici raduni consentiti riguardavano prove di forza militare e partite di calcio. In Cile un editoriale diceva ‘’in tutta la Repubblica è in atto una ripulitura completa’’, ed ancora ‘’ben presto tutte le superfici risplenderanno liberate da quell’incubo con acqua e sapone’’. Non guasta mai citare direttamente il nemico di classe.

L’imperialismo, e questo deve essere chiaro, interpreta lo ‘’spirito nazionale’’ come un rifiuto a non sottomettersi, quindi reagisce con la violenza alle rivendicazioni di autonomia. Di contro, si pone un rapporto strettissimo fra il movimento di liberazione nazionale e la cultura popolare.

6. Il neo-imperialismo costringe sempre di più i popoli oppressi a spezzare le catene dello sfruttamento. Più la crisi del sistema economico internazionale diventa grave e maggiori si fanno le loro rivendicazioni.
Frantz Fanon, ideologo del Movimento di liberazione nazionale algerino, si dimostra un attento osservatore di questo processo, spiegando come solo un popolo unito può dare la spinta all’intellettuale colonizzato per denunciare le barbarie dell’imperialismo.
Quindi la letteratura assume delle tinte chiaramente nazionalistiche, viene chiamata ‘’letteratura di battaglia’’ perché convoca il popolo intero alla lotta per l’esistenza nazionale.

L’argomentazione di Fanon è fortemente volontaristica e ricorda molto il primo Gramsci, quello romantico della ‘’rivoluzione contro il Capitale’’.  Convergenze molto interessanti e più si esamina la questione, in tutta la sua complessità, più queste personalità, apparentemente lontane, paiono legate da un indistruttibile filo rosso.

Il risveglio dei popoli oppressi coinvolge l’arte, la musica, l’artista stesso è colui che convoca il movimento organizzato, il formalismo viene totalmente abbandonato.
La società globale porta verso una progressiva omologazione, mentre la cultura è una espressione delle realtà nazionali, conseguenza, per cui, il movimento artistico diventa politico e, cosa più importante, diventa un movimento antimperialistico.
Molto significative queste parole di Fanon:

''La nazione non è soltanto condizione della cultura, della sua effervescenza, del suo continuo rinnovarsi, del suo approfondimento. E’ anche un’esigenza. E’ anzitutto il combattimento per l’esistenza nazionale a sbloccare la cultura, ad aprire le porte della creazione’’ (Frantz Fanon, I dannati della terra, Ed. Einaudi).

Tutto ciò non deve far cadere in almeno due pericolosi fraintendimenti: 1) la realizzazione di uno Stato socialista esclude tutte le alleanze con le borghesie nazionali, deboli e piene di cinismo (Fanon ne parla a proposito delle ‘’disavventure della coscienza nazionale’’); 2) l’esportazione della rivoluzione, e quindi la ‘’solidarietà di classe’’, resta un punto fermo per la creazione di una ‘’nazione proletaria’’.

Non è casuale che un altro grande rivoluzionario, Ernesto Guevara, in un testo maturo come ‘’Il socialismo e l’uomo a Cuba’’ (scritto proprio prima di partire per la Bolivia), pone il problema della formazione dell’ ‘’uomo nuovo’’ partendo dalla liberazione delle forme artistiche.
Guevara, seguendo lo stesso percorso di Fanon, concluderà dicendo:

‘' Il rivoluzionario, motore ideologico della rivoluzione in. seno al partito, si consuma in questa attività ininterrotta, che finisce solo con la morte, a meno che il processo non si estenda su scala mondiale. Se il suo impegno rivoluzionario si affievolisce quando i compiti più urgenti vengono realizzati su scala locale e l'internazionalismo proletario viene dimenticato, la rivoluzione che egli dirige cessa di essere una forza propulsiva e affonda in un tranquillo letargo, di cui approfitta il nostro inconciliabile nemico, l'imperialismo, per riguadagnare terreno. L'internazionalismo proletario è un dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria. Così educhiamo il nostro popolo’’ (Ernesto Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, Ed. Baldini&Castoldi).

La coesistenza di culture diverse necessita l’abbattimento del capitalismo in tutto il mondo, una lotta lunga che deve farci sentire, tutti, come parte integrante della stessa comunità umana, una comunità di eguali.

7. Penso che la mia posizione sia ormai più che chiara: il concetto di ‘’nazione’’ si presta sicuramente a letture di tipo marxista (più che altro bisognerebbe imparare a parlare di marxismi) e ha un ruolo di tutto rispetto nella lotta contro lo sciacallaggio neo-colonialista.
Il secondo fattore (il ruolo delle nazioni contro il neo-colonialismo), e su ciò non transigo, necessita del supporto di forti movimenti di classe, di cui, e mi duole dirlo, non ne vedo nessuna ombra.
Insomma, per concludere, siamo all’abìcì dell’antimperialismo ma i ‘’partiti comunisti’’ italiani non penso proprio che abbiano il fegato di ridiscutere queste cose: di vassallaggio si muore, Amen!

Altri testi consultati:

1)      Vladimir Ilic Lenin, L’autodeterminazione dei popoli, Ed. Massari

2)      Antonio Gramsci, Nel mondo grande e terribile, Antologia degli scritti 1914-1935

3)      Giovanna Minardi, L’influenza della cultura italiana nel Perù di inizio secolo, Centro Virtual Cervantes

Stefano Zecchinelli


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