''Il
popolo è deciso a offrir la propria vita per dare ai propri figli un tetto e da
mangiare, per dare soprattutto a chi verrà domani la patria non più
schiava dei nordamerìcani'' Proclama
di Camilo Torres
''Se
eliminaste l'esercito inglese domani e si issasse la bandiera verde in cima al
Castello di Dublino, a meno che non si disponesse l'organizzazione della
Repubblica Socialista i vostri sforzi sarebbero inutili. Il Regno Unito vi
governerebbe comunque: Lo farebbe tramite i suoi capitalisti, i suoi coloni, i
suoi finanzieri, attraverso l'intera massa di istituzioni commerciali e
individualiste che ha piantato nel paese abbeverate con le lacrime delle nostre
madri e il sangue dei nostri martiri'' James
Connolly
"
Amo il mio secolo, perchè è la patria che posseggo nel tempo.
L'amo
già perchè mi permette di allargare di molto i limiti della mia patria nello
spazio. Io amo la mia patria nel tempo, questo ventesimo secolo nato tra
tempeste e procelle. Esso reca in sè possibilità illimitate. Il suo territorio
è il mio mondo'' Leon
Trotsky
1. I colpi di coda
dell’imperialismo il quale a suon di bombardamenti al fosforo, e con i suoi
mercenari islamisti, cerca di chiudere il ciclo delle rivoluzioni panarabe in
Nord Africa, per poi allungare i tentacoli nel Medio Oriente, ha posto una
serie di problemi che i marxisti non possono lasciare indefiniti. I movimenti
di liberazione nazionale hanno ancora un carattere progressivo e
antimperialista? Quale posizione deve assumere un (neo)marxista davanti il
concetto di ‘’nazione’’? Lasciando stare la squallida ‘’sinistra colta’’, ormai
cagnolino da guarda dell’imperialismo yankee, ed occupandomi solo delle
posizioni marxiste, devo dire che il dibattito è tutt’altro che ‘’pieno di
certezze’’. In questo intervento, cercando di rispolverare qualche contributo
teorico originale (e purtroppo messo in cantina), proverò a rispondere a queste
domande. Se non ci riuscirò, spero almeno di spingere chi legge a fare qualche
riflessione, anche solo per respingere.
2. Premetto che il primo
a dire che la sovranità nazionale non ha senso per i ceti più deboli, non fu
Marx, ma Robespierre il quale sottolineò che l’idea di ‘’patria’’ negli Stati
aristocratici valeva solo per le famiglie patrizie che se ne erano impadronite.
Tutti i concetti hanno una loro ‘’genesi storica’’ e quindi non si può, con
superficialità, bollarli senza una contestualizzazione ragionata.
Uno
dei tanti meriti di Robespierre fu quello di aver provato a restituire al
Quarto Stato il concetto di ‘’patria’’, rendendo partecipi i ceti più deboli
alla ‘’gestione del bene comune’’. Questo era il progetto dell’
‘’incorruttibile’’ interrotto bruscamente dalla contro-rivoluzione
termidoriana.
Secondo
i fondatori del ‘’comunismo scientifico’’ (Marx ed Engels) lo Stato si sarebbe
estinto con il passaggio dal socialismo al comunismo puro, ma i fatti storici
hanno posto problemi di maggiore complessità, e Marx, come ogni ‘’materialista
storico’’ sa, ci ha lasciato un metodo e non un feticcio ideologico.
Nel
1903 il Partito di Lenin aggiunge nel suo programma (su pressione del Bund, i
socialdemocratici ebrei) questi punti: 1)
amministrazione autonoma per le regioni che si distinguono per modo di vivere
(art.3); 2) introduzione dello
studio delle lingue locali nelle scuole e la loro parità con la lingua di Stato
(art.8); 3) diritto delle nazioni
all’autodeterminazione (art.9).
Gli
articoli 8 e 9 furono voluti dai menscevichi mentre Lenin, giustamente, ha
sempre dato la precedenza alla lotta di classe. Negli anni seguenti il grande
dirigente bolscevico difese il ‘’diritto di autodecisione dei popoli’’ contro
le tendenze di destra (gli austro-marxisti) e quelle di sinistra rappresentate
da Rosa Luxemburg.
Non
è mia intenzione parlare in questo breve paragrafo dei testi che Lenin dedicò
all’argomento delle nazionalità però voglio dare ai lettori un valido
riferimento su cui soffermarsi e riflettere, anche in rapporto al proseguo di
questo articolo. Il nostro amava ricordare il pensiero di Chernyshevsky e
parlando ‘’dell’orgoglio nazionale dei grandi russi’’, disse:
‘’
Noi siamo pieni di un senso di orgoglio nazionale, e proprio per questa ragione
noi odiamo particolarmente il nostro passato
schiavista (quando la nobiltà terriera guidò i contadini in guerra per
soffocare la libertà dell'Ungheria, della Polonia, della Persia e della Cina),
ed il nostro presente schiavista, quando proprio questi stessi proprietari
terrieri, aiutati dai capitalisti, ci stanno guidando in una guerra per
strangolare la Polonia
e l'Ucraina, abbattere i movimenti democratici in Persia e Cina, rafforzare i
Romanov, i Bobrinsky ed i Purishkevich, che sono il disonore della nostra
dignità nazionale Grande-Russa. Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo
schiavo al quale non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che
giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù (che chiama, per esempio,
" difesa della patria " dei grandi russi lo strangolamento della
Polonia e dell'Ucraina), un tale schiavo è un lacchè e un bruto che desta un
senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza’’. (Vladimir Ilic Lenin,
Sull’orgoglio nazionale dei grandi russi, Pubblicato per la prima volta
nel Sotsial-Demokrat No.
35 del 12 dicembre 1914).
In
questo caso Lenin sembra descrivere la ‘’nazione’’ come qualcosa da
conquistare, aliena alle classi dominanti che sono, al contrario, una puntella
delle potenze imperialistiche, quindi dei corrotti. Un Lenin diverso, per
alcuni aspetti più vicino a Gramsci e ai suoi studi sulla cultura
‘’nazional-popolare’’.
Penso
che possa bastare per introdurre il dibattito su ‘’marxismo e questione
nazionale’’
Nei
paragrafi successivi entrerò nel cuore del problema, criticando, con basi
marxiste, il cosmopolitismo astratto borghese. Cercherò di ‘’estirpare’’ questo
male dalla radice.
3. Woodrow Wilson l’8
gennaio 1918 formula i 14 punti del ‘’piano di pace’’ della Società delle
Nazioni. Dall’altra parte un giovane teorico marxista, Antonio Gramsci, capì
subito che la struttura economica mondiale stava cambiando. Gli Stati Uniti si
preparavano a diventare la potenza più forte e con organismi come la Società delle Nazioni
vollero fronteggiare il proletariato sul suo stesso terreno,
l’internazionalismo. Vediamo come il grande sardo inquadra questa fase.
Wilson
– dice Gramsci – rappresentava i ‘’produttori non protetti’’ e gli industriali
che avevano bisogno di esportare capitali all’estero, insomma ‘’un ceto
capitalista che è la quinta essenza del capitalismo’’, sempre volendo citare il
nostro (Gramsci).
Il
pensiero di questi ‘’nuovi signori’’ è il liberismo economico che si preparava
a distruggere ciò che restava degli Stati feudali, e del protezionismo
ottocentesco. Gramsci ha descritto con chiarezza la distruzione dei piccoli
Stati, l’apertura dei mercati, la concorrenza capitalistica, e come le macchine
statali vennero sburocratizzate. Insomma si colloca in continuità con gli
scritti di Lenin sull’imperialismo.
Il
grande sardo parlando della Società delle Nazioni fissa queste coordinate:
‘’In
questo scorcio della vita del mondo lancia l’ideologia della Lega delle
Nazioni. Essa rappresenta per la borghesia liberista anglosassone la garanzia
politica dell’attività economica di domani e dell’ulteriore sviluppo
capitalistico. E’ il tentativo di adeguare la politica internazionale alle
necessità degli scambi internazionali. Rappresenta per i singoli Stati, quella
garanzia di sicurezza e di libertà che corrisponde nel seno di ogni Stato
all’habeas corpus per la libertà e la sicurezza individuale dei singoli
cittadini. E’ il grande Stato borghese supernazionale che ha dissolto le
barriere doganali, che ha ampliato i mercati, che ha ampliato il respiro della
libera concorrenza e permette le grandi imprese, le grandi concentrazioni capitalistiche
internazionali’’ (Antonio
Gramsci, La Lega
delle Nazioni, Pubblicato su ‘’Il Grido del Popolo’’ n. 704 19 gennaio 1918).
E’
tutto molto chiaro: il vecchio capitalismo borghese ormai era giunto al capolinea
e gli Usa, appoggiati dall’Inghilterra, avrebbero costruito delle forti
sovrastrutture per mantenere la loro egemonia. Gli Stati europei erano (ed
infatti poi sono stati) destinati a fare la parte dei vassalli. L’analisi di
Gramsci, già dagli ‘’scritti torinesi’’, è geniale e ci porta ai grandi temi
dibattuti nei ‘’Quaderni’’.
Il
nostro porrà il problema della conservazione dello Stato operaio davanti le
minacce imperialistiche, osservando con intelligenza la politica (interna ed
estera) dei proletari russi, senza mai rinunciare alla necessità di esportare
la rivoluzione.
Insomma
la ‘’nazione degli operai’’ ha bisogno, per mantenersi, che la borghesia venga
rovesciata ovunque, ma, dall’altra parte, una auspicabile ‘’Federazione di
Stati socialisti mondiali’’ non significa affatto che i ‘’proletariati
nazionali’’ debbano rinunciare alla loro ‘’cultura tradizionale’’.
Anche
in ciò, e faccio questo piccolo appunto, si vede la distinzione fra il marxismo
di Gramsci (un marxismo eretico) e la rigidità teorica di Bordiga (cito ad
esempio ‘’I fattori di razza e nazione nella teoria marxista’’), massimo
teorico della Sinistra Comunista.
In
quegli stessi anni, non casualmente, dall’altra parte del mondo, il marxista
peruviano J.C. Mariàtegui pronunciò queste parole:
‘’La Società delle Nazioni
avrebbe riunito i delegati dei popoli; ma non avrebbe riunito i popoli stessi.
Non avrebbe eliminato i motivi di contrasto tra questi. Le stesse divisioni, le
stesse rivalità che avvicinano o rendono nemiche le nazioni nella geografia e
nella storia, le avrebbero avvicinate o rese: nemiche all'interno della Società
delle Nazioni. Si sarebbero conservate le alleanze, i compromessi, le ententes
che riuniscono i popoli in blocchi antagonisti e nemici La Società delle Nazioni,
infine, sarebbe stata un'internazionale di classi sociali, un'Internazionale di
Stati; ma non un'Internazionale di popoli. La Società delle Nazioni
sarebbe stata un internazionalismo di etichetta, un internazionalismo di facciata.
Questa sarebbe stata la
Società delle Nazioni nel caso in cui avesse riunito nel suo
seno tutti i governi, tutti gli Stati. Attualmente, quando non riunisce altro
che una parte dei governi e una parte degli Stati, la Società delle Nazioni
rappresenta molto meno ancora. É un tribunale senza autorità, senza giurisdizione
e senza forza, al margine del quale le nazioni contrattano e litigano,
negoziano e si attaccano’’ (J.C.
Mariàtegui, 15° conferenza del ciclo “Storia della crisi
mondiale”, tenuta presso l’Università Popolare “ Manuel Gonzàles Prada” del
Perù il 2/11/1923).
Le
analogie con l’articolo di Gramsci, che ho citato in precedenza, sono
impressionanti. Sul rapporto di Antonio Gramsci con Mariàtegui si potrebbero
dire, infatti, tantissime cose; io mi limito a rilevare come la
‘’solidarietà di classe’’ (espressione cara a Lenin) cammini, per entrambi, a
braccetto con la valorizzazione del patrimonio storico, e il quindi del
bagaglio culturale, che i ceti subalterni (ri)conquistano, lottando contro le
borghesie imperialistiche.
4. Non
tutti sanno che il fondatore del ‘’Partito comunista peruviano’’ soggiornò in
Italia più volte, nei primissimi anni ’20. Osservò l’impresa di Fiume e maturò
grande interesse per la letteratura dannunziana, scrivendo interessanti
articoli di critica letteraria.
Nel
1921 partecipò al Congresso del Partito socialista di Livorno, dove
conobbe Gramsci. Fra i due ci fu subito un grande dialogo su temi come il
rapporto fra gli intellettuali e il popolo, la letteratura italiana, il
marxismo inteso come ‘’filosofia della prassi’’. Una tappa, questa, non di poco
conto, che ci aiuta a capire lo spirito di queste grandi personalità che tanto
ci hanno insegnato.
5. Chiusa
la parentesi Gramsci-Mariàtegui non possiamo non porci minimamente il problema
della ‘’colonizzazione culturale’’, data la grande attenzione che questi due
marxisti vi hanno dedicato (Gramsci parlò, per l’esattezza, di ‘’egemonia
culturale’’).
L’imperialismo
con la sua forza devastante crea nuovi rapporti sociali, modifica le fondamenta
giuridiche della società colonizzata, distrugge le economie tradizionali,
impone la sua ideologia messianica bandendo le singole culture nazionali.
Per
dare una idea della bestialità del neo-imperialismo faccio, ora, un eloquente
esempio storico, di storia recente.
In
Paesi come il Cile, l’Argentina, il Brasile, o l’Uruguay, quando al potere ci
furono le ‘’famose’’ giunte militari al servizio degli Usa, furono pianificati
dei veri e propri genocidi culturali.
Con
l’Operazione Chiarezza furono tolti di mezzo la bellezza di ottomila educatori
di sinistra. Come simbolo della distruzione della cultura popolare ci fu il
massacro del cantautore folk socialista, Victor Jara, a cui furono strappate le
dita nello stadio di Santiago, in Cile.
Scrittori
come Augusto Boal ed Eduardo Galeano furono esiliati, mentre Rodolfo Walsh fu
ucciso.
Gli
unici raduni consentiti riguardavano prove di forza militare e partite di
calcio. In Cile un editoriale diceva ‘’in tutta la Repubblica è in atto
una ripulitura completa’’, ed ancora ‘’ben presto tutte le superfici risplenderanno
liberate da quell’incubo con acqua e sapone’’. Non guasta mai citare
direttamente il nemico di classe.
L’imperialismo,
e questo deve essere chiaro, interpreta lo ‘’spirito nazionale’’ come un
rifiuto a non sottomettersi, quindi reagisce con la violenza alle
rivendicazioni di autonomia. Di contro, si pone un rapporto strettissimo fra il
movimento di liberazione nazionale e la cultura popolare.
6. Il
neo-imperialismo costringe sempre di più i popoli oppressi a spezzare le catene
dello sfruttamento. Più la crisi del sistema economico internazionale diventa
grave e maggiori si fanno le loro rivendicazioni.
Frantz
Fanon, ideologo del Movimento di liberazione nazionale algerino, si dimostra un
attento osservatore di questo processo, spiegando come solo un popolo unito può
dare la spinta all’intellettuale colonizzato per denunciare le barbarie
dell’imperialismo.
Quindi
la letteratura assume delle tinte chiaramente nazionalistiche, viene chiamata
‘’letteratura di battaglia’’ perché convoca il popolo intero alla lotta per
l’esistenza nazionale.
L’argomentazione
di Fanon è fortemente volontaristica e ricorda molto il primo Gramsci, quello
romantico della ‘’rivoluzione contro il Capitale’’. Convergenze molto
interessanti e più si esamina la questione, in tutta la sua complessità, più
queste personalità, apparentemente lontane, paiono legate da un indistruttibile
filo rosso.
Il
risveglio dei popoli oppressi coinvolge l’arte, la musica, l’artista stesso è
colui che convoca il movimento organizzato, il formalismo viene totalmente
abbandonato.
La
società globale porta verso una progressiva omologazione, mentre la cultura è
una espressione delle realtà nazionali, conseguenza, per cui, il movimento
artistico diventa politico e, cosa più importante, diventa un movimento
antimperialistico.
Molto
significative queste parole di Fanon:
''La
nazione non è soltanto condizione della cultura, della sua effervescenza, del
suo continuo rinnovarsi, del suo approfondimento. E’ anche un’esigenza. E’
anzitutto il combattimento per l’esistenza nazionale a sbloccare la cultura, ad
aprire le porte della creazione’’ (Frantz
Fanon, I dannati della terra, Ed. Einaudi).
Tutto
ciò non deve far cadere in almeno due pericolosi fraintendimenti: 1) la
realizzazione di uno Stato socialista esclude tutte le alleanze con le
borghesie nazionali, deboli e piene di cinismo (Fanon ne parla a proposito
delle ‘’disavventure della coscienza nazionale’’); 2) l’esportazione
della rivoluzione, e quindi la ‘’solidarietà di classe’’, resta un punto fermo
per la creazione di una ‘’nazione proletaria’’.
Non
è casuale che un altro grande rivoluzionario, Ernesto Guevara, in un testo
maturo come ‘’Il socialismo e l’uomo a Cuba’’ (scritto proprio prima di partire
per la Bolivia ),
pone il problema della formazione dell’ ‘’uomo nuovo’’ partendo dalla
liberazione delle forme artistiche.
Guevara,
seguendo lo stesso percorso di Fanon, concluderà dicendo:
‘' Il
rivoluzionario, motore ideologico della rivoluzione in. seno al partito, si
consuma in questa attività ininterrotta, che finisce solo con la morte, a meno
che il processo non si estenda su scala mondiale. Se il suo impegno
rivoluzionario si affievolisce quando i compiti più urgenti vengono realizzati
su scala locale e l'internazionalismo proletario viene dimenticato, la
rivoluzione che egli dirige cessa di essere una forza propulsiva e affonda in
un tranquillo letargo, di cui approfitta il nostro inconciliabile nemico,
l'imperialismo, per riguadagnare terreno. L'internazionalismo proletario è un
dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria. Così educhiamo il nostro
popolo’’ (Ernesto
Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, Ed. Baldini&Castoldi).
La
coesistenza di culture diverse necessita l’abbattimento del capitalismo in
tutto il mondo, una lotta lunga che deve farci sentire, tutti, come parte
integrante della stessa comunità umana, una comunità di eguali.
7. Penso che la mia
posizione sia ormai più che chiara: il concetto di ‘’nazione’’ si presta
sicuramente a letture di tipo marxista (più che altro bisognerebbe imparare a
parlare di marxismi) e ha un ruolo di tutto rispetto nella lotta contro lo
sciacallaggio neo-colonialista.
Il
secondo fattore (il ruolo delle nazioni contro il neo-colonialismo), e su ciò
non transigo, necessita del supporto di forti movimenti di classe, di cui, e mi
duole dirlo, non ne vedo nessuna ombra.
Insomma,
per concludere, siamo all’abìcì dell’antimperialismo ma i ‘’partiti comunisti’’
italiani non penso proprio che abbiano il fegato di ridiscutere queste cose: di
vassallaggio si muore, Amen!
Altri
testi consultati:
1)
Vladimir Ilic Lenin, L’autodeterminazione dei popoli, Ed. Massari
2)
Antonio Gramsci, Nel mondo grande e terribile, Antologia degli scritti
1914-1935
3)
Giovanna Minardi, L’influenza della cultura italiana nel Perù di inizio secolo,
Centro Virtual Cervantes
Stefano
Zecchinelli
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