sabato 2 dicembre 2017

Da SCHIAVITÙ DEL TERZO MILLENNIO (un’anteprima), di Dante Lepore

Risultati immagini per Dante Lepore Schiavitù del terzo millennio
I. 2.3 La convenienza oggi: lo schiavo usa-e-getta; lavoro nero e morti bianche, suicidi e karoshi.
Nel XXI secolo si presenta un’ampia possibilità di usare ed abusare tale merce preziosa prodotta dalla specie umana, divenuta usa-e-getta, solo per lo stretto tempo necessario a produrre plusprodotto nella sua espressione, ormai astratta e rarefatta, di plus-valore (anche gratuitamente e fuori dalla banale legge del valore, come scambio di equivalenti che…non si equivalgono). Le statistiche, sulla base di rapporti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ILO, circa 20 anni fa, valutavano diversamente il dato, dai 25 ai 35 milioni nel mondo, quasi sempre prudenziali per difetto, proprio perché, contrariamente ai tempi antichi e, vedremo, anche moderni fino all’Ottocento, tale merce costa relativamente molto poco e gode di un trend in enorme espansione, grazie all’economia globale in crisi da basso impero, nonché allo stato di guerra e di distruzione di capitali, ormai permanente, alla relativa sovrappopolazione in forma di grandi migrazioni di intere popolazioni e alla diffusione di forme di asservimento mafioso, mediante il terrore e il ricorrente debito che configura il capitale finanziario e le grandi banche come lo schiavista contemporaneo più potente, vorace e incontenibile. È da precisare qui, di passaggio, che gli aggettivi «informale», «sommerso», «irregolare», «nero», «grigio», riferiti tanto al lavoro, quanto all’economia, per quanto presentino a volte sfumature e contenuti specifici, ma anche spesso mutevoli nel tempo e da zona a zona, attengono tutti, come ho già osservato, ad attività svolte violando le normative fiscali, contributive, amministrative, e ovviamente nascondono, come informa l’ILO, condizioni di lavoro definite «indecenti» in relazione a sicurezza e salubrità, impatto ambientale, prive di controllo perché non registrate. In India, dove il fenomeno è macroscopico (ma lavoro sommerso, nero, informale ecc. dilaga ormai di fatto dappertutto nel mondo), oltre il 94% è lavoro informale (1) e, sempre secondo l’ILO, nella campagna urbanizzata il lavoro nero «sconfina in autentica schiavitù» oppure, come in Cina (lo si è visto per i ragazzi suicidi alla Foxconn) o in Giappone, in quella forma di «suicidio dovuto all’eccesso di lavoro», il karojisatsu, o, in forma più distaccata, il «karôshi», che equivale a «morte per pluslavoro o lavoro eccessivo, overwork (2)» . Che differenza fa tra il morire alla catena o lavorare 15 ore consecutive senza un giorno libero, soffrire di mal di stomaco, insonnia, intorpidimento delle estremità, dimagrire in beve tempo di decine di chili e morire di stress o suicida? Il caso riportato qui in nota è del 1999, e potrebbe far pensare ad un ulteriore successivo «caso», anch’esso molto dibattuto, quello di Matsuri Takahashi, morta suicida nel dicembre 2015 a 24 anni, suicidio ufficialmente riconosciuto come karôshi nel settembre 2016, lavorando per la Dentsu, la più grande agenzia pubblicitaria giapponese il cui motto era dal 1951: «non mollare davanti al proprio compito, nemmeno se si viene uccisi». Lavorava ormai regolarmente in giornate di 12 ore fatte di insulti dei superiori, tanto da scrivere a sua madre: «il lavoro è insostenibile. La vita è insostenibile». Si comprende però che, più che di casi accidentali, si tratta di fenomeni e trend oggettivi. Infatti, negli anni ’90, il Giappone era investito dalla bolla dei licenziamenti di massa sempre più frequenti e dal blocco delle assunzioni, mentre oggi la crisi presenta un’altra faccia della stessa medaglia, con ripresa delle assunzioni, ma con un peso immane sul lavoro e un numero rilevante di ore straordinarie, ore che non vengono nemmeno registrate, allo scopo di eludere i controlli legali. Accade così che gli ispettori del lavoro chiedono di limitare le ore di straordinario ad es. a 42 ore mensili (da varie centinaia!) e l’azienda ne paga 42, ma con lo stesso carico di lavoro precedente, per cui il dipendente comincia il lavoro varie ore prima e smette varie ore dopo, senza essere né pagato né registrato. È così che nel 2015 sono stati riconosciuti 93 «casi» di karôshi (3) come esiti estremi di stress, depressione, stanchezza cronica, mentre oggi, 2017, raddoppiano a 200 morti in poco più di un anno (4). In realtà, pare che in Giappone di «primi casi» di karôshi se ne conoscano parecchi, anche dal 1969: «Il primo caso di karôshi è stato segnalato nel 1969 con la morte di un operaio di 29 anni nel reparto di trasporto di un giornale giapponese» (5). Il settimanale «Playboy Weekly» pubblica un sondaggio fatto su 1000 lavoratori, da cui emerge che il 59% dei soggetti che facevano abitualmente gli straordinari soffrivano «abbastanza» o «molto» il peso del lavoro, mentre una pubblicità degli anni ’80 presentava un giovane manager che ingurgitava una bevanda per rispondere alla domanda «riesci a lottare per 24 ore al giorno?» lasciando intendere che 24 ore per lui erano persino poche!. Oggi un quarto su 2000 intervistati ritiene di lavorare per una burakku kigyô (un’azienda nera, dal «grado di sfruttamento vicino alla schiavitù»). E tuttavia l’idea millantata come un mito è che «un dipendente di una burakku kigyô ha un vantaggio rispetto ad uno schiavo: può licenziarsi» (6). Ecco l’alternativa tra morire di lavoro o morire di fame. A scala mondiale, dati recentissimi ci danno il numero degli schiavi salito a 45,8 milioni nel 2015 (7), mentre l’anno precedente era di 35,8 milioni, con un aumento di circa il +30%. Il 58% di quei 45,8% sono in 5 Paesi (India, Cina, Pakistan, Bangladesh, Uzbekistan). Il primato di schiavi moderni resta ancora appannaggio dell’India con 18,3 milioni (1,4% della popolazione del paese). A sua volta, la Corea del Nord risulta la prima nazione in termini di concentrazione: la stima è uno schiavo ogni 20 persone (il 4,4% su un totale di 25 milioni di abitanti). C’è poi la Cina, con 3,4 milioni di schiavi, e il Pakistan, con 2,1 milioni. Per quanto riguarda l’Unione Europea, la fonte parla eufemisticamente, ma anche ipocritamente, di una «schiavitù a bassa intensità», presente anche al suo interno, sebbene al più basso livello di diffusione regionale: in Polonia, ad esempio, si conterebbero 181 mila schiavi e 121 mila in Italia, la quale peraltro appare, in questi dati, al terzo posto dopo Polonia e Turchia. Come vedremo, per l’Italia, si parla oggi di tutt’altre cifre, da 400 mila a 700 mila solo in agricoltura. Questa complessa e articolata condizione costituisce uno stato di necessità, di precarietà e di insicurezza anonimo, cieco e spietato, grazie al quale, ad onta delle leggi internazionali, che spesso vietano, come abbiamo già riscontrato, ogni forma di «costrizione» al lavoro, si favorisce, come si è detto, l’impunità nell’uso della violenza fisica, volta a indurre in schiavitù, anche in forme più sordide che nell’antichità greco-romana (dove vedremo che spesso i liberi «poveri» invidiavano gli schiavi), quali la prostituzione e il turismo sessuale nonché la tratta e lo sfruttamento sempre più frequente e numeroso dei bambini (8) . Se poi si considera che, sempre secondo le stime dell’ILO (9) , nel mondo ci sono 215 milioni di bambini che lavorano in attività che andrebbero abolite (tra questi, 152 milioni hanno meno di quindici anni, e 115 milioni svolgono lavori pericolosi), anche la cifra dei 45,8 milioni di «schiavi» impallidisce. Dati dell’International Labor Rights Forum affermano che del numero globale di bambini lavoratori, 120 milioni lavorano a tempo pieno per aiutare le famiglie indebitate sull’orlo della miseria, ma che il fenomeno non riguarda solo Paesi poveri, ma tutto il pianeta, Stati Uniti compresi. E non si tratta certo di lavori leggeri, ma svolti (10) in condizioni pessime, malpagati o anche gratuiti, da bambini maltrattati e tenuti rinchiusi in baracche, spesso malnutriti, senza contare le frequenti e numerose «sparizioni» vere e proprie. (dl)
Note
(1) Ha molto indagato su ciò ELISABETTA BASILE, Esclusione sociale ed emarginazione in India, in «Etica ed Economia. Menabò di Luciano Barca», 4 giugno 2015, in http://www.eticaeconomia.it/esclusi...; ID., Capitalist Development in India’s Informal Economy (Routledge,V/2013).
(2) Cfr. KOJI MORIOKA, The Age of Overwork, e MISAKO HIDA, The Land of Karoshi: «La Terra di Karoshi», famoso articolo che ha vinto il Media for Labour Rights Prize nel 2008, e merita riportare qui di seguito da Repubblica (4 giugno 2008) in traduzione leggermente da noi rivista : cfr. http://www.repubblica.it/2008/06/se...
«Tutto il tempo che ho passato è stato sprecato» «In una giornata di marzo del 1999, ancora prima che i germogli di ciliegio cominciassero a sbocciare, un ragazzo di 23 anni, Yuji Uendan, in preda a una forte depressione causata dall’eccesso di lavoro, si è tolto la vita. È stato trovato nel suo appartamento di Kumagaya, prefettura di Saitama alla periferia di Tokyo, con quelle parole scribacchiate su una lavagnetta bianca che usava per l’elenco degli appuntamenti giornalieri. Uendan aveva lavorato per quasi 16 mesi come ispettore di apparecchiature per la produzione di semiconduttori, in una stanza asettica con una luce soffusa giallastra nella fabbrica della Nikon a Kumagaya, vestito dalla testa ai piedi con una divisa bianca sterile. Era stato assunto dall’appaltatrice Nextar (oggi Atest) che lo mandava per incarichi a termine alla Nikon, una delle principali produttrici giapponesi di macchine fotografiche e dispositivi ottici. Uendan faceva turni di giorno e di notte di 11 ore a rotazione, con straordinari e viaggi extra che gli facevano raggiungere le 250 ore al mese. Nel suo ultimo periodo di lavoro all’interno della fabbrica era arrivato a 15 ore consecutive senza un giorno libero. Soffriva di mal di stomaco, insonnia, intorpidimento delle estremità. In poco tempo era dimagrito di 13 chili. “Aveva la faccia molto tirata” racconta la madre, Noriko Uendan, 59 anni, che ha cominciato a soffrire di angina dalla morte del figlio e ora porta sempre con sé pillole di nitroglicerina. “Mi fa soffrire pensare a quanti giorni è rimasto lì, da solo, prima che lo trovassero”. Nel marzo del 2005, il tribunale distrettuale di Tokyo ha dichiarato che sia la Nextar sia la Nikon erano da ritenersi responsabili per la morte di Uendan e ha ordinato a entrambe le aziende il risarcimento dei danni. “È stata una vittoria senza precedenti per i lavoratori temporanei”, ha detto l’avvocato di Uendan, Hiroshi Kawahito, che è anche segretario generale del Consiglio di difesa nazionale per le vittime di “Karôshi”. L’es-pressione giapponese che sta a significare “morto per eccesso di lavoro” ormai è stata adottata anche dalla lingua inglese, basta consultare il dizionario Oxford digitale. “Si è trattato del primo caso in cui non solo l’azienda che forniva personale temporaneo, ma anche quella che lo riceveva, sono state condannate per negligenza” ha aggiunto Kawahito. Ma la causa non è conclusa. Entrambe le aziende sono ricorse in appello, ma la madre della vittima non intende darsi per vinta. La battaglia legale perciò continua alla corte d’appello di Tokyo, dove alla fine di gennaio si è tenuta la dodicesima udienza. “Negli ultimi anni, sempre più lavoratori temporanei sono stati costretti a lavorare tanto quanto i dipendenti a tempo pieno ed è molto comune che le società appaltatrici forniscano illegalmente ai propri clienti dipendenti di fatto come se fossero interinali o temporanei”, dice Koji Morioka, professore di economia e autore di The Age of Overwork, L’era del lavoro eccessivo. “Visto lo status quo, il caso di Uendan ha un’importanza particolare perché si è trattato in assoluto della prima richiesta di indennizzo per il suicidio di un lavoratore temporaneo a causa di straordinari ed eccesso di lavoro.” La questione del “karojisatsu”, letteralmente “suicidio dovuto all'eccesso di lavoro” è un problema serio in Giappone. Il numero di suicidi è aumentato drasticamente, superando i 30 mila casi dal 1998, quando il tasso di disoccupazione raggiunse un record dai tempi del dopoguerra. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità, il numero di suicidi in Giappone è quasi il doppio di quello negli Stati Uniti. L’ultimo studio dell’agenzia di Polizia nazionale giapponese evidenzia che nel 2006 si sono tolte la vita, in tutto il paese, 32.155 persone. Kawahito stima che più di cinquemila suicidi ogni anno sono il risultato della depressione causata da eccesso di lavoro. Secondo le ultime stime dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, ILO, il Giappone detiene il primato di dipendenti che superano le 50 ore a settimana (28,1%), mentre nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, la cifra non va oltre il 10% (in Italia siamo al 4,2%). “L’era del lavoro eccessivo” riporta che la quota di ferie retribuite da parte dei dipendenti giapponesi è scesa dal 61% del 1980 al 47% nel 2004. “I troppi straordinari quasi impediscono ai lavoratori di godere di ferie retribuite e questo costituisce un problema” sostiene Kosuke Hori, a capo dell'Associazione giapponese degli avvocati del lavoro. Il Giappone non ha ratificato alcuna Convenzione dell’ILO sull'orario lavorativo, comprese la Convenzione 132 relativa alle ferie retribuite e la Convenzione 1 sulle ore di lavoro. La legge nazionale non mette un tetto al lavoro straordinario per certe professioni e in certe condizioni. “Quando si tratta di ore lavorative - scrive nel suo libro Marioka - in Giappone non c'è alcun riferimento agli standard internazionali”. “Ho giurato su mio figlio mentre era in coma che non mi sarei mai arresa - ha detto la madre di Yuji Uendan - e spero davvero che in futuro le aziende giapponesi lascino avere vite dignitose ai propri dipendenti, tanto da arrivare a morire di vecchiaia”. *MISAKO HIDA è una giornalista freelance giapponese che scrive da New York per le riviste The Economist, Sunday Mainichi, Toyo Business e Newsweek Japan. Con l’articolo “The Land of Karôshi” ha vinto il premio giornalistico “Media for Labour Rights” istituito dal Centro internazionale di formazione dell’ILO, che ha sede a Torino. L’ILO è l’agenzia dell'Onu per i diritti del lavoro e il premio, alla sua prima edizione, è legato al progetto di formazione per giornalisti e operatori dei media volto a diffondere la conoscenza degli standard internazionali del lavoro. […].
(3) MICHEL HOFFMAN, Il peso insostenibile degli straordinari, «The Japan Times», trad. ital. per «Internazionale», 11.11.2016, p. 36.
(4) DUCCIO FUMERO, Giappone: allarme ‘karoshi’, ben 200 morti all’anno per troppo lavoro, «Yahoo Finanza» – 1 feb. 2017.
(5) Ivi.
(6) MICHEL HOFFMAN, op. cit.
(7)http://www.globalslaveryindex.org/;http://assets.globalslaveryindex.org/...; i dati sono raccolti nell’Indice Globale della schiavitù redatto dall’organizzazione non governativa Walk Free Foundation (WFF) che per il quarto anno consecutivo ha analizzato l’incidenza di schiavitù e tratta in 167 paesi del mondo.
(8) Cfr. l’ampia documentazione, redatta anche sulla base di drammatiche testimonianze dirette, in KEVIN BALES, I nuovi schiavi..., op. cit.
(9) FEDERICA CLAVONI, I 200mila bimbi schiavi che colgono per noi il cacao, «La Stampa», 11/12/2013, in: http://www.lastampa.it/2013/12/11/s...
(10) Ivi.

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