L’Organizzazione delle Nazioni Unite (UNO) balza al centro della polemica nelle relazioni internazionali, ogni qualvolta la competizione tra le potenze imperialiste segna momenti cruciali di svolta.
Questo è vero non solo per la storia e per lo sviluppo di tale organismo, fin dal suo nascere, ma soprattutto a partire dalla prima guerra del Golfo persico del 1990-91, fino alle attuali guerre della crisi nei Balcani.
Si può facilmente osservare come i differenti ruoli che le Nazioni Unite vengono assumendo, in particolar modo i rapporti tra i membri permanenti del suo Consiglio di sicurezza e quelli non permanenti, rispecchiano, o sono comunque condizionati, dalla dinamica dei rapporti tra le potenze.
Ma questa considerazione lapalissiana non può essere disgiunta dalla conclusione che se ne deve trarre: si tratta di una smentita flagrante della conclamata funzione di questa organizzazione postasi come condizione della “salvaguardia della pace e della sicurezza” nelle relazioni internazionali.
Nata ufficialmente nel 1945, all’indomani della Conferenza di Yalta, e sancita il 25 aprile 1945 alla Conferenza di San Francisco nel consesso di 51 nazioni riunite per approvare all’unanimità i 111 articoli della Carta il 25 giugno, essa non impedì, il 6 e il 9 agosto successivi, il disastro di Hiroshima e Nagasaki.
Nella sanguinosa guerra di Corea (1950-53), l’intervento militare dell’ONU, reso possibile solo grazie all’assenza dell’URSS dal Consiglio di Sicurezza, contribuì a prolungare il conflitto, provocò l’ingresso in guerra della Cina e lasciò le cose come stavano all’inizio del conflitto, con un armistizio.
Dal 1960, per effetto del processo di decolonizzazione, 17 nuovi stati, di cui 16 africani, entrano tutti insieme a far parte dell’ONU e il peso specifico dei nuovi paesi che man mano entrano a fa parte dell’Assemblea generale non approda però al Consiglio di Sicurezza. Questo, come è noto, è composto di 15 membri, 5 dei quali (Cina, Francia, Federazione Russa, Gran Bretagna e Stati Uniti), espressione della spartizione tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, sono permanenti. Gli altri 10 sono eletti dall’Assemblea con mandato biennale. Occorre una maggioranza di nove voti per prendere una decisione, ma solo un voto negativo (il “veto”) impedisce l’adozione di un provvedimento.
Da questo punto di vista, per quanto dotata di maggiori poteri rispetto alla precedente inerte Società delle Nazioni di Wilson, l’ONU, dalla fine degli anni cinquanta, rifletterà, attraverso il gioco dei veti incrociati, l’antagonismo inconciliabile delle due facce dello stato borghese, quello della sovranità nazionale e quello di autodeterminazione dei popoli, senza mai riuscire a raggiungere un principio politico e giuridico superiore.
Infatti, il riconoscimento della massima parte degli stati entrati a farne parte, significa riconoscimento di problemi di compresenza, contraddittoria e potenzialmente esplosiva, di problemi etnici, amministrativi e territoriali, creati dalle potenze in epoche precedenti. Non a caso alcuni di quegli Stati si sono poi frantumati.
L’ambizione della Carta dell’ONU (art. 2, § 4) per il mantenimento della pace dovrebbe concretizzarsi con l’interdizione agli Stati del ricorso alla forza. Si tratterebbe di una svolta storica che priverebbe gli Stati-nazione di una prerogativa fondamentale della sovranità. Tale diritto, insieme con il potere centralizzato entro confini territoriali, chiamato ‘stato’, essi lo hanno ereditato fin dalle lontane origini medievali, avendolo sottratto ai privati cittadini. L’amputazione verrebbe compensata dalla sicurezza collettiva. Come si vede, l’ONU riflette, su scala più ampia, l’illusione democratica delle teorie contrattualistiche.
Ma fu evidente, dopo la decolonizzazione e l’accesso all’indipendenza e sovranità di molti nuovi stati, che la loro condizione di membri ‘uguali’ dell’Assemblea Generale, non li rendeva affatto uguali economicamente, anzi li metteva alla mercé di potenti gruppi economici e finanziari internazionali. La popolazione del globo, che, dal 1950 al 1987, è raddoppiata (da 2,5 a 5 miliardi), vede aumentare anche gli squilibri, se i paesi sviluppati rappresentano appena un quarto di essa ma si pappano l’80% del reddito mondiale (Le Monde diplomatique, maggio 1990).
I sette principali contribuenti dell’ONU sono: gli USA (25%), il Giappone (17,98%), la Germania (9,63%), la Francia (6,49%), l’Italia (5,39%), la Gran Bretagna (5,07%) e la Russia (2,87%). Essi finanziano più del 72% del bilancio ordinario. Ma chi si assicura gli approvvigionamenti autorizzati dal Segretariato sono soprattutto gli USA, con il 59% dei 327,5 milioni di $ nel 1997. L’ONU non ha un grande bilancio e, nonostante ciò, è attanagliato da una crisi finanziaria perché gli stati membri tendono a non pagare la quota, anch’essa del resto sperequata, se nel 1998 un cittadino USA paga 1,11 $ mentre uno di San Marino sborsa 4,26 $. Al 30 settembre 1998 i debiti nei confronti dell’Organizzazione ammontano a oltre 2,5 miliardi di $. Da soli, gli USA hanno un debito di 1,6 miliardi $ (2/3 del totale), rischiando di perdere il voto all’Assemblea Generale. Oggi l’ONU non può permettersi di rimborsare 70 nazioni fornitrici di truppe ed equipaggiamenti per una stima di 864 milioni di $. Gli stanziamenti “per il mantenimento della pace” sono passati da 3 miliardi $ nel 1995 a 1,3 nel 1997 a 0,8 circa nel 1998.
La riunificazione tedesca, a lungo ostacolata dagli USA e dall’URSS, accelerando il collasso della potenza capital statale sovietica, rendeva manifesta la natura multipolare delle relazioni internazionali del dopo Yalta e rompeva quella sorta di condominio tra le due superpotenze nel Consiglio di sicurezza.
Contemporaneamente si imponevano problemi di riequilibrio strategico. Da un lato il rafforzamento economico tedesco trasci-nava con sé quello dell’unificazione politica dell’Europa, dall’altro riprendeva piede il dibattito sulla sicurezza, cioè sul riarmo e la difesa europea, e perciò il problema dell’ampliamento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU anche alla Germania e al Giappone, nonché quello dell’estensione della Nato e della formazione di un suo “pilastro” europeo.
La crisi del golfo si mostrò come una guerra condotta, in modo ambiguo, sotto l’egida dell’ONU, dalla superpotenza USA in un’area vitale per il controllo delle vie energetiche, ma utile ad affermare il proprio ruolo di unica superpotenza egemone.
Dapprima, la realizzazione di un’area monetaria in Europa ha indotto gli USA, mediante la Nato, ad agire come ‘braccio armato’ dell’ONU, formalmente a garanzia dell’ordine internazionale, ma in un’area non di sua competenza, nell’intento di fare da bilancia, da un lato garantendo l’Europa, gigante economico, ma ancora nano politico e militare, dall’altro cercando di evitare lo sprofondamento totale della Russia. Sul versante asiatico, la stessa preoccupazione anima la strategia USA nei rapporti triangolari con il Giappone e la Cina e, al tempo stesso, di entrambi con l’Europa e la Russia.
Poi, con la crisi bosniaca, la NATO si è del tutto sostituita all’ONU. Infine, sotto la direzione del Pentagono e senza alcun mandato ONU, a dispetto dell’opposizione di Russia e Cina, si è assunta il ruolo di protettrice dei diritti del popolo kosovaro, agitando in proprio l’ingerenza umanitaria in difesa della democrazia e dell’etica, contro il principio di sovranità nazionale di quel che resta dello stato jugoslavo.
Di recente, N. Chomsky ha denunciato e documentato su Repubblica come il principio dell’intervento umanitario sia un alibi nelle mani delle grandi potenze predatrici.
Ma, ad invocare un ennesimo ritorno di fiamma del ruolo mediatore dell’ONU, nonché della Russia, restano gli europei, ancora incapaci di mettere in atto uno sforzo finanziario per una difesa comune, e in particolar modo l’Italia, tanto famelica e cinica quanto ipocrita e miope, su cui grava il peso maggiore dei profughi. Solo l’Italia possiede un personale politico ‘di sinistra’ che invoca una conciliazione “superiore” e “democratica” del principio della sovranità degli Stati e dell’azione contro gli Stati che violano i diritti umani, con un ritorno all’ONU (Occhetto, Unità 30.4.99).
Questo è vero non solo per la storia e per lo sviluppo di tale organismo, fin dal suo nascere, ma soprattutto a partire dalla prima guerra del Golfo persico del 1990-91, fino alle attuali guerre della crisi nei Balcani.
Si può facilmente osservare come i differenti ruoli che le Nazioni Unite vengono assumendo, in particolar modo i rapporti tra i membri permanenti del suo Consiglio di sicurezza e quelli non permanenti, rispecchiano, o sono comunque condizionati, dalla dinamica dei rapporti tra le potenze.
Ma questa considerazione lapalissiana non può essere disgiunta dalla conclusione che se ne deve trarre: si tratta di una smentita flagrante della conclamata funzione di questa organizzazione postasi come condizione della “salvaguardia della pace e della sicurezza” nelle relazioni internazionali.
Nata ufficialmente nel 1945, all’indomani della Conferenza di Yalta, e sancita il 25 aprile 1945 alla Conferenza di San Francisco nel consesso di 51 nazioni riunite per approvare all’unanimità i 111 articoli della Carta il 25 giugno, essa non impedì, il 6 e il 9 agosto successivi, il disastro di Hiroshima e Nagasaki.
Nella sanguinosa guerra di Corea (1950-53), l’intervento militare dell’ONU, reso possibile solo grazie all’assenza dell’URSS dal Consiglio di Sicurezza, contribuì a prolungare il conflitto, provocò l’ingresso in guerra della Cina e lasciò le cose come stavano all’inizio del conflitto, con un armistizio.
Dal 1960, per effetto del processo di decolonizzazione, 17 nuovi stati, di cui 16 africani, entrano tutti insieme a far parte dell’ONU e il peso specifico dei nuovi paesi che man mano entrano a fa parte dell’Assemblea generale non approda però al Consiglio di Sicurezza. Questo, come è noto, è composto di 15 membri, 5 dei quali (Cina, Francia, Federazione Russa, Gran Bretagna e Stati Uniti), espressione della spartizione tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, sono permanenti. Gli altri 10 sono eletti dall’Assemblea con mandato biennale. Occorre una maggioranza di nove voti per prendere una decisione, ma solo un voto negativo (il “veto”) impedisce l’adozione di un provvedimento.
Da questo punto di vista, per quanto dotata di maggiori poteri rispetto alla precedente inerte Società delle Nazioni di Wilson, l’ONU, dalla fine degli anni cinquanta, rifletterà, attraverso il gioco dei veti incrociati, l’antagonismo inconciliabile delle due facce dello stato borghese, quello della sovranità nazionale e quello di autodeterminazione dei popoli, senza mai riuscire a raggiungere un principio politico e giuridico superiore.
Infatti, il riconoscimento della massima parte degli stati entrati a farne parte, significa riconoscimento di problemi di compresenza, contraddittoria e potenzialmente esplosiva, di problemi etnici, amministrativi e territoriali, creati dalle potenze in epoche precedenti. Non a caso alcuni di quegli Stati si sono poi frantumati.
L’ambizione della Carta dell’ONU (art. 2, § 4) per il mantenimento della pace dovrebbe concretizzarsi con l’interdizione agli Stati del ricorso alla forza. Si tratterebbe di una svolta storica che priverebbe gli Stati-nazione di una prerogativa fondamentale della sovranità. Tale diritto, insieme con il potere centralizzato entro confini territoriali, chiamato ‘stato’, essi lo hanno ereditato fin dalle lontane origini medievali, avendolo sottratto ai privati cittadini. L’amputazione verrebbe compensata dalla sicurezza collettiva. Come si vede, l’ONU riflette, su scala più ampia, l’illusione democratica delle teorie contrattualistiche.
Ma fu evidente, dopo la decolonizzazione e l’accesso all’indipendenza e sovranità di molti nuovi stati, che la loro condizione di membri ‘uguali’ dell’Assemblea Generale, non li rendeva affatto uguali economicamente, anzi li metteva alla mercé di potenti gruppi economici e finanziari internazionali. La popolazione del globo, che, dal 1950 al 1987, è raddoppiata (da 2,5 a 5 miliardi), vede aumentare anche gli squilibri, se i paesi sviluppati rappresentano appena un quarto di essa ma si pappano l’80% del reddito mondiale (Le Monde diplomatique, maggio 1990).
I sette principali contribuenti dell’ONU sono: gli USA (25%), il Giappone (17,98%), la Germania (9,63%), la Francia (6,49%), l’Italia (5,39%), la Gran Bretagna (5,07%) e la Russia (2,87%). Essi finanziano più del 72% del bilancio ordinario. Ma chi si assicura gli approvvigionamenti autorizzati dal Segretariato sono soprattutto gli USA, con il 59% dei 327,5 milioni di $ nel 1997. L’ONU non ha un grande bilancio e, nonostante ciò, è attanagliato da una crisi finanziaria perché gli stati membri tendono a non pagare la quota, anch’essa del resto sperequata, se nel 1998 un cittadino USA paga 1,11 $ mentre uno di San Marino sborsa 4,26 $. Al 30 settembre 1998 i debiti nei confronti dell’Organizzazione ammontano a oltre 2,5 miliardi di $. Da soli, gli USA hanno un debito di 1,6 miliardi $ (2/3 del totale), rischiando di perdere il voto all’Assemblea Generale. Oggi l’ONU non può permettersi di rimborsare 70 nazioni fornitrici di truppe ed equipaggiamenti per una stima di 864 milioni di $. Gli stanziamenti “per il mantenimento della pace” sono passati da 3 miliardi $ nel 1995 a 1,3 nel 1997 a 0,8 circa nel 1998.
La riunificazione tedesca, a lungo ostacolata dagli USA e dall’URSS, accelerando il collasso della potenza capital statale sovietica, rendeva manifesta la natura multipolare delle relazioni internazionali del dopo Yalta e rompeva quella sorta di condominio tra le due superpotenze nel Consiglio di sicurezza.
Contemporaneamente si imponevano problemi di riequilibrio strategico. Da un lato il rafforzamento economico tedesco trasci-nava con sé quello dell’unificazione politica dell’Europa, dall’altro riprendeva piede il dibattito sulla sicurezza, cioè sul riarmo e la difesa europea, e perciò il problema dell’ampliamento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU anche alla Germania e al Giappone, nonché quello dell’estensione della Nato e della formazione di un suo “pilastro” europeo.
La crisi del golfo si mostrò come una guerra condotta, in modo ambiguo, sotto l’egida dell’ONU, dalla superpotenza USA in un’area vitale per il controllo delle vie energetiche, ma utile ad affermare il proprio ruolo di unica superpotenza egemone.
Dapprima, la realizzazione di un’area monetaria in Europa ha indotto gli USA, mediante la Nato, ad agire come ‘braccio armato’ dell’ONU, formalmente a garanzia dell’ordine internazionale, ma in un’area non di sua competenza, nell’intento di fare da bilancia, da un lato garantendo l’Europa, gigante economico, ma ancora nano politico e militare, dall’altro cercando di evitare lo sprofondamento totale della Russia. Sul versante asiatico, la stessa preoccupazione anima la strategia USA nei rapporti triangolari con il Giappone e la Cina e, al tempo stesso, di entrambi con l’Europa e la Russia.
Poi, con la crisi bosniaca, la NATO si è del tutto sostituita all’ONU. Infine, sotto la direzione del Pentagono e senza alcun mandato ONU, a dispetto dell’opposizione di Russia e Cina, si è assunta il ruolo di protettrice dei diritti del popolo kosovaro, agitando in proprio l’ingerenza umanitaria in difesa della democrazia e dell’etica, contro il principio di sovranità nazionale di quel che resta dello stato jugoslavo.
Di recente, N. Chomsky ha denunciato e documentato su Repubblica come il principio dell’intervento umanitario sia un alibi nelle mani delle grandi potenze predatrici.
Ma, ad invocare un ennesimo ritorno di fiamma del ruolo mediatore dell’ONU, nonché della Russia, restano gli europei, ancora incapaci di mettere in atto uno sforzo finanziario per una difesa comune, e in particolar modo l’Italia, tanto famelica e cinica quanto ipocrita e miope, su cui grava il peso maggiore dei profughi. Solo l’Italia possiede un personale politico ‘di sinistra’ che invoca una conciliazione “superiore” e “democratica” del principio della sovranità degli Stati e dell’azione contro gli Stati che violano i diritti umani, con un ritorno all’ONU (Occhetto, Unità 30.4.99).
Dante Lepore (pubblicato in L’Internazionale, Anno 2, n. 6, mag. 1999
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