La locuzione ricorrente nei
media mainstream dopo l’attacco mortifero in vari luoghi pubblici di Parigi del
16 novembre 2015 è che questa «è guerra!», la stessa che uscì dalla bocca di
Sarkozy[1],
dopo il blitz alla redazione di Charlie Hebdo. L’insistenza, più che a scarsa
convinzione o a incredulità, sembra volta a rendere accettabili i ben più micidiali
bombardamenti che il governo francese stava preparando e le relative misure
interne di «sicurezza» che dovranno piovere sul fronte della guerra di classe. Ora,
come si concili l’emblema della nonviolenza inalberato col canto militaresco
della Marsigliese e i 5000 morti civili causati dai primi bombardamenti per
rappresaglia bisognerebbe pure spiegarlo, ma non lo farà nessuno come non lo
fecero l’ottobre 1961 in occasione dei massacri di centinaia di algerini.
Questa è una faccenda che però è necessario comprendere.
Secondo Alain Bertho[2], il secolo XXI sarebbe «l’epoca delle sommosse»,
diversa dalle «rivolte arcaiche» del secolo precedente fino alle «proteste» degli
anni ’70. La crescita, a livello globale, di rabbie collettive senza obiettivi
strategici, di passaggi all’azione quasi disperati, è una gamma di gridi di rabbia
simile da un capo da
un capo all’altro del pianeta, dall’incendio di un’auto-mobile all’uso delle
reti informatiche. In genere non vengono capite dai media, preoccupate solo di
seguirne l’aspetto spettacolare, ma incapaci e per niente interessati a porsi
il problema di cosa siano, delle cause e dei messaggi che lanciano. Nemmeno lo
Stato dedica un minimo di attenzione alle cause, mostrando un’incapacità di
dialogo e una rottura nella società, che non si potrà mai ricomporre con gli
appelli alle unions sacrées, né con la forza
dell’azione militare e sicuritaria. Questo che Sarkozy chiama racaille è
uno strato sociale da cui chiunque può attingere manovalanza disponibile,
paradossalmente anche lo Stato, sia nazionale che altre formazioni politiche o
statali organizzate.
In occasione di articoli e
note e del capitolo di un saggio[3] che mette a fuoco le insorgenze sociali in questa
nostra epoca nella quale la concentrazione urbana planetaria ha superato la popolazione
sparsa e vivente sul territorio rurale, ho avuto modo di fare riferimenti a
fatti ed episodi di insofferenza, di «insorgenza» sociale e persino di
ribellione, qualche volta anche organizzata, nonché alle banlieues. Ho anche accennato più volte al fatto che questa
condizione, con la quale ormai occorre abituarsi a convivere, è fonte di
«paura», d’«insicurezza» persino fisica, paura e insicurezza cercate e
fomentate, da sommare al senso generale di precarietà dell’esistenza, del
lavoro, delle condizioni di vita, insomma a quella volatilità che caratterizza
il sistema economico capitalistico nei centri dominanti dell’economia mondiale
globalizzata, e che, avendo a che fare con strumenti di violenza più o meno
organizzata, come tale è trasmessa e riflessa teoricamente da think tank e da centri studi strategici,
costretti da decenni a rivedere vecchie teorie militari e ad elaborare procedure,
protocolli di intervento e armi per adeguarli a quella che ho definita, con un
termine preso a prestito da un generale della Nato[4], una «guerra tra la gente».
Tale percezione di mutamento
della realtà sembra investire anche certo personale militare impegnato in
operazioni che danno luogo a continui grattacapi.
Ecco cosa affermava tempo fa, con la normale lungimiranza del professionista, il
Generale di Divisione Gian Marco
Chiarini, Comandante di EUROFOR in Bosnia e già Comandante della Brigata
«Ariete»:
«il processo d’inurbamento
degli ultimi decenni ha coinvolto gran parte dei Paesi di recente industrializzazione
con un conseguente elevato numero di megalopoli dai contorni impressionanti. Se
in un passato non molto lontano le uniche città che si avvicinavano alle
ragguardevoli dimensioni di 10 milioni di abitanti erano Londra e New York, ora
questi numeri vengono superati da Cairo, Istanbul, Città del Messico, Shangai.
È sempre più frequente, quindi, trovarsi di fronte a contesti urbani di
notevoli dimensioni, che non solo rappresentano una concentrazione demografica
importante, ma sono nodi di comunicazioni, centri economici e di affari, poli
di sviluppo per l’intera regione circostante. […] Gli scontri urbani sembrano
modificare le regole del combattimento, limando le differenze dei contendenti
in armamento e preparazione […] azioni in cui le distanze di ingaggio
sembrano essere enormemente ridotte, in cui è difficile distinguere
l’avversario dalla popolazione, in cui tutto l’ambiente circostante appare
ostile […], difficile cercare di mettere
in pratica gli schemi addestrativi imparati in precedenza […] È
naturale che nelle CRO’s (Crisis Response
Operations), ci si possa trovare a dover fronteggiare miliziani armati, che
scelgono di operare in città per sfruttarne le caratteristiche e compensare la propria carente preparazione e per dare maggior
visibilità e risonanza alle proprie operazioni, cercando di apparire nei
confronti della popolazione come «detentori del potere».[5]
Tale
percezione del rapporto tra l’evoluzione demografica e lo sviluppo dei
conflitti già in atto e a venire non è certo ignota alle più attente
istituzioni statunitensi: la RAND Corporation, già in un suo Report del 1994, rilevava come, di
fronte a quella che si profilava come «urbanizzazione della rivolta», mancasse
un progetto di contro-insurrezione,
sia in termini di dottrina che di addestra-mento ed equipaggiamento.[6] Una percezione che si impose
negli Stati Uniti con l’11 settembre 2001 e portò a quel Patriot Act che determinò un processo di maggiore tendenza al
controllo interno che sembra oggi permeare tutte le istituzioni internazionali
e sovranazionali, sia politiche che soprattutto militari, come la NATO che in
merito, già nel 2003, pubblicò un rapporto, opera del gruppo di studio sas 30, diretto dagli inglesi, esperti
in «controguerriglia urbana», cui collabora-rono 1998 esperti di sette nazioni:
Italia, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda e USA.[7] Leggendo o rileggendo oggi
quel rapporto, appare evidente la consapevolezza che «il processo di
urbanizzazione dislocherà necessariamente su territori urbani i prossimi
interventi militari», nonché la preoccupazione per un nemico rappresentato non
più da un esercito regolare, ma da una massa eterogenea di «irregolari», capaci
di accedere alle dotazioni tecnologiche contemporanee, specie quando abbiano
alle spalle una padronanza del territorio urbano, come a Belfast, Mogadiscio, Bogotá,
e un’esperienza di guerriglia e di insorgenza anti istituzionale, ma
soprattutto di fronte ad una realtà in cui è difficile individuare il nemico
non solo perché è dappertutto, ma anche perché sempre più sfumati si fanno i
contorni tra la forma civile e militare dei conflitti.
Per dirla
con qualche teorico della strategia militare internazionale, quello attuale
sarebbe un momento analogo al Che fare? di Lenin (esplicitamente richiamato, ma sconsigliato per
il suo approccio «radicale»[8]), nel
senso della necessità di una «rivoluzione» nel modo di pensare relativo alla
«guerra tra la gente»:
«Non è
più pensabile una guerra industriale: i nemici non sono più il Terzo Reich o il
Giappone, non si presentano più raggruppamenti riconoscibili e non pongono più
minacce assolute ed evidenti, cosa che assicurerebbe un contesto politico
stabile per le operazioni; come abbiamo visto, i nostri avversari non hanno
forma, e tanto i vertici quanto la base si pongono al di fuori di quelle
strutture in ragione delle quali ordiniamo il mondo e la società. Le minacce
che rappresentano non sono volte direttamente contro i nostri stati o
territori, ma contro la sicurezza del nostro o di altri popoli, delle nostre
risorse e del nostro modo di vivere, al fine di cambiare le nostre intenzioni e
avere la meglio. Soprattutto non si trovano in un luogo che possa essere
facilmente delimitato come ‘campo di battaglia’. La gente è l’oggetto e il
soggetto di queste minacce ed è in mezzo ad essa che avviene il combattimento».[9]
Le innumerevoli trasmissioni seguite al blitz nel locale Bataclan erano
centrate su un unico punto tra quelli su elencati, quello dell’attacco al
“nostro modo di vivere” e ovviamente alla “libertà”.
A rigore, operazioni militari combattute all’interno di una società (i teorici borghesi, che inorridiscono
di fronte alla guerra «civile», e peggio alla «rivoluzione», la chiamano gente) non costituiscono neppure una guerra nel senso tradizionale, e la
«gente» non è il «nemico». Tra questa «gente», quella del militare, dello
sbirro, del rambo o del contractor
mercenario[10] diventa
sempre più la base sociale di un vero mercato professionale cui attingono le
stesse multinazionali. Il termine «militariato»[11] designa
«la compresenza, e il cofinanziamento diretto o indiretto, sia delle missioni
di guerra, sia delle missioni di pace da parte dei governi». Ne fanno parte,
oltre alle ONG, migliaia di donne e uomini convinti di prestare le loro vite al
servizio della pace e lenire gli effetti dei conflitti, ma in realtà è proprio
grazie ad essi che «i governi occupanti possono presentare le loro avventure
militari come guerre umanitarie».
Nel caso delle due fanciulle Greta Ramelli e Vanessa
Marzullo, definite «cooperanti» (piazzavano cassette di pronto soccorso) rapite
in Siria, tutta la vicenda attesta il tipo di guerra che si combatte, il ruolo
delle ONG e i mezzi usati, come il rapimento a scopo di riscatto, nel caso
specifico di 12 milioni e mezzo di $, che ovviamente il ministro Gentiloni
prontamente ha negato di aver pagato, per essere poi smentito da fonti
giudiziarie di Aleppo secondo le quali il «tribunale islamico» del Movimento
Nureddin Zenki, coinvolto nel sequestro delle fanciulle, ha condannato Hussam
Atrash, uno dei signori della guerra locali, capo del gruppo Ansar al Islam,
per essersi intascato metà del compenso[12].
Le chiamano anche, con un evidente ossimoro, «guerre nella pace», come
«missioni di pace», nonché «umanitarie», sono diventate le guerre di coalizione
nelle situazioni di crisi internazionali, ad indicare che la conflittualità non
sarebbe più una condizione eccezionale,
come tradizio-nalmente (e ipocritamente!) era intesa la guerra, bensì
permanente, e persino orpellata di motivi morali, religiosi, socio-umanitari
(missioni!). La gamma prosegue dalle guerre «a bassa intensità» (Low Intensity Conflict, LIC) alle guerre
«ibride» (Erin M. Simpson, 2005), guerre «non ortodosse», «limitate»,
«asimmetriche» (A. Mack, 1975), ecc.
Secondo il presidente
dell’IAI e direttore della rivista Affari Internazionali, Stefano Silvestri:
«Il vero
mutamento strategico è che per la prima volta in più di un secolo, l’uso della
forza militare non è più pianificato in vista di un grande scontro globale, ma
per gestire e contenere e possibilmente risolvere una serie di conflitti limitati
[…] Europei e americani della Nato mantengono tuttora sotto le armi l’imponente
numero di circa 4 milioni di soldati: molti meno di quanti ne esistevano
durante la Guerra fredda, ma anche molti di più di quanti ne vengano
effettivamente impiegati nelle operazioni belliche in atto. […] Sempre meno si
parla di difesa e sempre più di sicurezza […] [I pericoli derivano oggi
da] quei fenomeni che minacciano la tranquillità e il buon funzionamento delle
nostre società. […] Mai come oggi è evidente la stretta connessione esistente
tra la sfera della politica e quella dell’uso della forza militare. Una famosa
definizione di von Clausewitz affermava che la guerra è la prosecuzione della
politica con altri mezzi. Era una frase profetica. In passato essa venne distorta
in particolare dall’interpretazione che ne dette l’Alto Comando tedesco, per il
quale esisteva una sfera della politica che, in caso di guerra, cedeva alla
sfera militare ogni competenza e iniziativa. Oggi è sempre più chiaro che non
esistono distinzioni tra le due sfere e che l’applicazione delle tecniche
militari ha sempre una natura politica, e di contro che ogni politica implica
un suo modello di impiego della forza. […] La natura ibrida e
complessa delle nuove crisi ha accresciuto il ricorso a forze militari di tipo
diverso da quelle tradizionali, in particolare alle forze di polizia. In realtà
non si tratta ancora di un modello chiaramente definito. Di per sé il termine
“polizia” fa pensare sì a corpi armati dello Stato, ma anche a formazioni essenzialmente
civili, più che militari».[13]
Ma soprattutto gli eserciti «nazionali», sorti
nell’800, non traggono più la forza nella leva di massa e nella coscrizione
obbligatoria (il “formez vos bataillons”
della sciagurata Marsigliese), ma vengono sempre più sostituiti da eserciti
professionali composti da personale che della guerra fa il proprio sbocco
«lavorativo» e a tale scopo vengono adeguati i criteri di reclutamento anche
sotto il profilo ideologico, psicologico e morale. Formazioni militari che devono
fronteggiare proprio quella “racaille”
di coetanei che nel 2005 per un mese mise a ferro e fuoco le periferie della
capitale francese e non solo. L’Italia non ha ancora come Francia e Inghilterra
questo problema delle seconde e terze generazioni non integrate socialmente
come i loro padri che hanno praticamente ricostruito l’Europa distrutta dalla
guerra. Queste generazioni sono condannate ad una non integrazione, che in Francia
è diventata anche segregazione spaziale nelle periferie.[14]
La progressiva diminuzione percentuale dei militari di
leva, l’accorciamento stesso della ferma obbligatoria, la riduzione
dell’organico, la maggior selezione, hanno visto anche in Italia, dalla metà
degli anni ’90, il passaggio al reclutamento volontario e il definitivo abbandono
del servizio militare obbligatorio (dal 1.01.2005), nell’ambito di un «Nuovo
Modello di Difesa» che prevedeva già l’estensione della sfera degli interessi nazionali
vitali «ben oltre i limiti dei confini territoriali» e un strategia di
«prevenzione attiva», che vede lo strumento militare concorrere permanentemente
alla politica nazionale, ossia il suo impiego in azioni di polizia, controllo e
presidio dei territori, in collaborazione ovviamente con le restanti forze
dell’ordine e con la cosiddetta «protezione civile». La natura mercenaria delle
nuove forze armate ne favorisce anche l’impiego come manovalanza securitaria
nelle relazioni internazionali.
Lascio ad altri dilettarsi a documentare e studiare
gli innumerevoli episodi d’insorgenza sociale dalla fine del 2010 e inizio
2011, attestanti l’insofferenza generalizzata verso questo stato di cose,
incarognita anche dalla crisi economica. Basterà descrivere qualche episodio
significativo, in un contesto che denota come la specie umana, pur nella maniera
sempre lacerata internamente dagli antagonismi, anziché assuefarsi in una
comunità totalmente alienata, si sia già mossa per questo «rintocco funebre»
del dominio totalizzante del capitale, in barba a chi, stanco di teorizzare
l’«integrazione» di una forza-lavoro (che per definizione è già parte
integrante del rapporto capitalistico) ora va immaginando una
«de-integrazione», altrettanto paranoica se concepita come semplice fatto
economico. È pur vero che non basteranno i «giorni della collera», dalla Tunisia
all’Algeria all’Egitto e forse ancora allo Yemen e alla Giordania e ai Balcani,
e altrove, ma anche i fenomeni della coscienza, a volte, riservano sorprese! In
tutto il Nord Africa, per cominciare, solo la collera dei dannati ha liquidato
in pochi giorni regimi autoritari post-coloniali che sembravano intramontabili,
con i forti apparati di polizia (i moukhabarat egiziani resi impotenti sul campo) al punto da
costringere, come in Egitto appunto, un esercito[15] che fraternizza con gli insorti e un Obama a
sconfessare il vecchio faraone, campione del «moderatismo» arabo a tutela della
lobby israelo-americana in Medio Oriente.
La questione è importante, anche perché le guerre fra
Stati nazionali è un bel po’ che stanno cedendo la scena prima alle guerre imperialiste
e poi alle coalizioni sovranazionali che, di fatto, rendono obsoleto lo stesso
concetto di «sovranità» nazionale. Beninteso, si tratta di un inter-nazionalismo tra borghesie
costitutivamente litigiose (che peraltro non esitano a considerare la scelta di
fomentare ad arte le guerre per procura, perché costituiscono ormai uno degli
strumenti collaudati per la svalorizzazione violenta del capitale e per il
lucroso investimento anticiclico nell’industria del massacro).
Ciò tuttavia dovrebbe far riflettere sui caratteri che
viene ad assumere in un contesto sociale di questo genere lo stesso
«internazionalismo proletario», che sarebbe grottesco pensare come l’unità fra
i proletari degli stati nazionali, che del resto ha mostrato la corda già negli
anni ’20 della Terza Internazionale. Nei fatti, i giovani «senza futuro» del
Maghreb, come gli immigrati di seconda e terza generazione delle banlieues, stanno
realizzando la forma più moderna di internazionalismo, favoriti anche dalla
comune lingua araba, scambiandosi dalla Tunisia all’Egitto le tattiche e le
tecniche per fronteggiare e persino sconfiggere sul campo le migliaia di
poliziotti antisommossa. In Italia c’è una certa presenza di nuovissima
immigrazione consistente nella logistica, anche se soggetta a regimi di
caporalato e di cooperative spesso mafiosi, una cappa contro cui finirà per
concentrarsi la loro protesta, che già ha scosso in varie occasioni il regime
sonnolento e acquiescete dei sindacati istituzionali opportunisti.
L’accelerata
mutevolezza dei rapporti economici nelle varie aree del mondo mette anche a nudo
la volubilità dei rapporti di potenza e delle relazioni tra Stati. Ciò non
sopprime affatto né la realtà delle guerre interimperialiste, né le questioni
nazionali, che anzi vengono spesso artificiosamente messe in campo nella
dinamica dei rapporti internazionali, nella maniera più assurda e paradossale,
da un lato (ad es., con la riunificazione tedesca del 1989) dall’altro con la
frammentazione della Jugoslavia o con la riesumazione di nazioni scomparse
(come le repubbliche baltiche) o dell’Ucraina e Bielorussia, mai esistite come
entità statali e soggetti internazionali.
La novità non sta neppure nel
fatto che le guerre interimperialiste si svolgono su un terreno economico e
sociale a partire dai basilari interessi finanziari dei gruppi economici
internazionali. Spesso sono i gruppi economici a condurre direttamente guerre
silenziose e trasversali e a condizionare governi e alleanze anche sul piano
militare. Un esempio è stato proprio quello dell’Unione Europea che, pur in un
generale orientamento atlantista, ha visto al suo interno una Germania
orientata a spostare il peso delle relazioni economiche dal Nord America nonché
dall’area dell’euro ad una alleanza strategica verso la Russia con una
proiezione verso l’Asia, e al tempo stesso a coltivare una troika tra Francia,
Germania e Russia mentre, dall’altro lato, la Francia non ha esitato a
stipulare un Trattato di difesa e cooperazione nucleare con la Gran Bretagna
che, a sua volta, tendeva a sganciare la Francia dallo stretto legame con
Berlino. Di fatto, Francia e Gran Bretagna, assediate dalla questione fiscale,
sono state costrette a integrare in modo bilaterale le rispettive capacità
militari, ad es. nell’intervento per sfasciare la Libia, per garantirsi i
rispettivi interessi imperialisti in un momento di crisi in cui qualunque investimento
in armamento e difesa avrebbe causato, e a maggior ragione causerebbe oggi, ulteriore
tassazione e possibili conseguenti insorgenze popolari.
Ma è proprio nelle misure di «sicurezza» contro
l’insorgenza sociale che l’Unione Europea sembra raggiungere, non a caso,
un’armonia e una collaborazione più tangibili di quella di cui difettano nelle
relazioni internazionali, dove è evidente la dialettica tra «cessione di sovranità»,
«sovranità limitata», «non ingerenza» e «diritto di ingerenza». A livello poliziesco, di sicurezza civile e penale, di controllo del
territorio e dell’emigrazione, di terrorismo e criminalità, la collaborazione è
in atto da diversi anni, con estensione di competenze, programmi e creazione di
Autorità, accesso a banche dati del DNA e impronte digitali, archivi e registri
automobilistici, formazione di squadre speciali dirette da Europol, cooperazione tra polizie e servizi
segreti, monitoraggio di Internet, controllo delle reti di telecomunicazioni e
provider.
Vengono effettuati addestramenti comuni e operazioni di contrasto a
manifestazioni di protesta e create accademie europee di polizia (CEPOL) che
studiano tattiche per il crowd management
(controllo della folla). I programmi di ricerca, lautamente sovvenzionati, non
si contano, così gli Istituti, anche in ambito ONU, come UNICRI (Istituto di
Ricerca Interregionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sulla Criminalità e
la Giustizia), curatore di un manuale antiterrorismo (Counter-Terrorism Online Handbook), con vari gruppi di lavoro, uno
dei quali ha sede in Torino (IPO, Osservatorio permanente per la sicurezza
durante i grandi Eventi).
Né si trascura il riarmo tecnologico: apparecchiature per l’esplorazione
visiva notturna, elaborazione automatizzata di monitoraggi video, cavi a
radiofrequenza in grado di misurare la percentuale d’acqua in corpi stazionanti
o circolanti nei pressi). L’ampliamento del SIS (Sistema Informativo di
Schengen) consente alle centrali di polizia cogestite di elaborare più dati
biometrici di migranti, l’attivazione del SIV (Sistema Informativo per i Visti)
archivia impronte digitali e dati biometrici dei migranti. L’agenzia di
frontiera (FRONTEX) con sede a Varsavia è esplicitamente concepita come
«baluardo della difesa europea dalla migrazione», tiene un Registro
Tecnico Centrale (Toolbox) delle
attrezzature dei Paesi membri per il controllo e la sorveglianza dei confini.
Vengono maggiormente equipaggiate le squadre di frontiera. I Carabinieri
italiani, proprio quelli delle barzellette, divenuti per questo una forza
armata, sono dotati di nuove imbarcazioni, elicotteri e apparecchiature per il
monitoraggio. Il Trattato di Lisbona prevede riforme anche nel campo della
politica militare, mentre la Politica Europea per la Sicurezza e Difesa (PESD)
dovrebbe migliorare le sue capacità militari, ma questo non sta avvenendo in
soluzione comune, tanto meno con l’istituzione, prevista per il 2010, di propri
contingenti armati. Esiste però uno strumento d’intervento in Paesi terzi, la
Forza di Gendarmeria Europea (Eurogendfor)
di stanza a Vicenza, con un suo Centro di addestramento (CoESPU).[16]
La polarizzazione di ricchezza e miseria[17] ha
ridotto ormai le classi che detengono le condizioni della produzione mondiale
ad un 10% dell’umanità con oltre il 90% del reddito prodotto. Se non è questa la polarizzazione preconizzata
del vecchio Marx! Certamente questo strato di umanità è armato di tutto punto
anche perché da questi che un tempo erano presenti nella coscienza antimilitarista
come i pescecani di guerra, discende la produzione e il commercio di armi nel
mondo, ed è contornato di un nutrito stuolo di lacchè e servitori parassiti a
vario titolo provenienti dal restante 90% chiamato a fornire, oltre a quel
reddito, lacchè e servitori, anche i contingenti armati di questa contro-rivoluzione
preventiva securitaria, che peraltro fanno sempre più ricorso all’arma del
conflitto religioso, al cosiddetto «scontro di civiltà» e a quella mostruosa
creazione, a livelli industriali di divisione, che è il razzismo, per
controllare, in modo diversificato, e all’occasione mettere gli uni contro gli
altri, gruppi etnici, religiosi, culturali, linguistici, nazionali.
«Il nemico è in casa nostra»: è certamente una parola
d’ordine metaforica, come lo era al tempo di Karl Liebknecht, ma non più solo
contro le rispettive borghesie nazionali, bensì contro il capitale totale,
contro la sua comunità totale. Non è un caso che le ideologie nazionaliste,
almeno nei rapporti tra le vecchie potenze occidentali, sono sempre meno adatte
alla mobilitazione,[18] rispetto invece alle ideologie religiose (islam da un
lato e giudeo-cristianesimo, indù, buddhisti contro tamil ecc. dall’altro),
nonché rispetto ai miti «civili» della democrazia e connessi.
Ridicolo, e piuttosto contro producente, il vecchio canto
nazionalista della Marsigliese, sia dopo Charlie Hebdo sia dopo il Bataclan. Dopo
il blitz al giornale satirico Charlie Hebdo, si accentua nelle grandi metropoli
imperialiste la mobilitazione ideologica securitaria contro il terrorismo, per
la democrazia, contro il clandestino, oggi fino al più becero razzismo contro
il diverso, o contro i «Bastardi Islamici», nel vernacolo del giornale Libero
di gaglioffi come Maurizio Belpietro. Assumono sempre più rilevanza nella nuova
strategia le procedure di controllo dell’informazione, di intelligence, di
manipolazione mediatica dell’opinione e del consenso. Ed era iniziato con l’11
settembre.
Né hanno senso, in questo contesto, le armi e le
strategie già usate su Belgrado o su Bagdad, quando si tratta, ad es., di
controllare agglomerati come quelli di Algeri, Tunisi o Il Cairo, o come quello
di Sadr City, uno dei più grandi del mondo, o quello di Mogadiscio, dove nel 1993
gli Army Rangers, corpo elitario dell’esercito Usa, subirono una disfatta
dell’ordine del 60% da parte della milizia dello slum,[19] che indusse il Pentagono a rivedere la Militarized Operations on Urbanized Terrain
(MOUT). Nella primavera del 1996, la rivista dell’Army War College
«Parameteres» pubblicava lo studio Our
Soldiers, Their Cities, dove si affermava che «il futuro della tecnica
bellica sta nelle strade, nelle fogne, negli edifici multipiano, nell’incontrollata
espansione delle case che formano le città frammentate del mondo[…]La nostra
recente storia militare è punteggiata di nomi di città – Tuzla, Mogadiscio, Los
Angeles, Beirut, Panama, Hue, Saigon, Santo Domingo – ma questi scontri sono
stati solo un prologo, mentre il dramma vero e proprio deve ancora cominciare».
La concentrazione urbana delle popolazioni è nell’ordine delle cose
all’origine dello sviluppo capitalistico, ed è lo specchio della dis-integrazione costitutiva della comunità
umana, che nel capitalismo si riduce ad una massa di atomi egoisticamente privati dell’elemento sociale che ne fa delle cose asservite e
schiavizzate dal loro stesso prodotto e al tempo stesso segregate in uno spazio
che deve permanentemente adattarsi a questa funzione segregante gestita dallo
Stato. Ciò comporta una permanente guerra sociale
che assume contorni quantitativi e caratteristiche diverse a seconda dell’epoca
storica.
Nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, la
«legge sui poveri» e i suoi effetti sulla conformazione urbanistica delle città
industriali, sulle famigerate workhouses,
a Londra e a Manchester, sono descritte da Engels[20]. Dopo la Comune di Parigi, la borghesia francese
percepisce il pericolo connesso con l’insorgenza operaia e la necessità di
pianificazione urbanistica in previsione degli scontri futuri, sventrando
interi quartieri e dotandosi di vie di fuga nei grandi boulevards. Da allora in poi, ogni pianificazione urbanistica
contemplò l’esigenza di autodifesa delle classi dominanti, di segregazione
delle classi «pericolose» e di intervento militare dello Stato. Oggi il dominio
dell’aria cambia un po’ le cose.
Nel luglio 1967, Detroit era la quinta città degli USA
(oltre 1 milione e mezzo di abitanti) con un proletariato, a maggioranza nero,
di 800 mila operai solo nell’industria automobilistica della zona. I moti che
scoppiarono in seguito alla crisi automobilistica videro impegnati 13 mila
paracadutisti della 101^ Divisione, e carri armati,
mentre polizia e Guardia nazionale si rivelarono impotenti a contenerli.[21] Guardatela però oggi l’antica capitale
dell’automobile: è una Shrinking City (città che «si riduce»), specchio della decadenza e
della regressione sociale, ha perduto la metà della popolazione, circa un
milione di abitanti, il 35% del territorio municipale è disabitato, e il
processo si è aggravato con la crisi dei subprime:
67 mila abitazioni sono state sequestrate in tre anni. Una delle metropoli più
povere, con un terzo della popolazione sotto la soglia di povertà, 9 abitanti
su 10 neri, con un apartheid fisico
tra centro e sobborghi dove si concentrano le classi medie e le attività
economiche. «I grattacieli abbandonati del centro-città,
aste senza bandiere, sono ormai i simboli della decadenza».[22] Carcasse carbonizzate, parcheggi abbandonati,
fabbriche dismesse, l’urbano si decompone, l’addensamento si ruralizza, e
riprendono i suoni della natura, il canto del gallo e degli uccelli selvatici.
Solo la banlieue avanza. Secondo Kurt Metzger, direttore di un ufficio studi demografici locale, il tasso
reale di disoccupazione raggiunge anche il 40% (contro il 28,9% «ufficiale»).
Ciò significa minore base fiscale e drastiche riduzioni dei servizi pubblici.
Il tasso di mortalità infantile s’impenna al 18 per mille (3 volte la media
degli USA, e uguale a quello dello Sri Lanka). Ovviamente,…si sciopera sempre
meno. La situazione di Detroit è analoga a tutte le città della zona dei Grandi
Laghi, dove la fatiscenza degli scheletri arrugginiti degli impianti dismessi e
la devastazione si estende per centinaia di km![23]In Italia la disoccupazione giovanile è oltre quei livelli.
E non è certo in un contesto del genere che si è svolta l’insorgenza
sociale che sta provocando la «rivoluzione» maghrebina! Qui c’è anzi un
considerevole sviluppo economico ancora in atto[24], con forti investimenti industriali, commerciali, turistici e finanziari,
con effetti enormi di ricomposizione sociale e necessarie riformulazioni dei
poteri politici, fiscali ed amministrativi, e dove l’urbanizzazione raggiunge
livelli imponenti.
Ogni periodico riassetto urbanistico, pertanto, non è
altro che una fase di guerra sociale in atto.
Si pensi alle città ex coloniali dove i problemi si
ingigantiscono nell’epoca post-coloniale dove il problema della rimozione delle
popolazioni pericolose diventa gigantesco per dimensioni, per velocità di
trasformazioni e dove l’aspetto militare è più vistoso. Si pensi ai faraonici
programmi di riassetto urbanistico in Birmania ad opera della dittatura
narco-militare per il «Visit Myanmar Year 1996», che ha visto l’impiego di lavoro forzato per le infrastrutture
turistiche e una vera e propria deportazione
di popolazione dai centri cittadini in quartieri e nuove città distanti
centinaia di km. Ma quello della diffusione
del lavoro coatto, della schiavitù è un capitolo non nuovo ma appena riapertosi,
che diventerà drammatico con i sempre più potenti flussi migratori che si
gonfieranno man mano che la crisi del capitalismo si estenderà e approfondirà,
con le conseguenti guerre e distruzioni.
Per analogia con passate rivolte «del pane», si potrebbe
risalire alla primavera del 1992, a quella che apparve subito come la più
violenta e sanguinosa rivolta urbana del Novecento americano, a Los Angeles,
seconda città degli Stati Uniti e capitale di uno Stato (la California) che da
solo costituiva allora per PIL la 12^ potenza mondiale, per
tracciare alcune linee di continuità che si sarebbero poi evolute fino
all’attuale realtà dell’insor-genza sociale metropolitana.[25] Circa 50 mila manifestanti (ma, dalle varie fonti, si
capisce che la folla coinvolta in varie forme era quattro volte più numerosa)
tennero impegnati 8 mila fanti dei marines insieme al altri 12 mila della
Guardia Nazionale in scontri, saccheggi, con una sessantina di morti, 3.000
feriti, 12.500 tra fermati e arrestati, 300 negozi devastati o incendiati,
circa un miliardo di $ di danni. Un esercito federale che interveniva massicciamente
in una delle periferie più caratteristiche del mondo, non fuori ma dentro i propri confini.[26]
Newsletter
n. 50, per PonSinMor, Dante Lepore, 16.11.2015.
[1] Il presidente gaglioffo, cui
spetta il merito di aver represso la “racaille” delle banlieues, aggiungeva che
la guerra era uno scontro “di civiltà”. Su ciò cfr.
http://www.ponsinmor.info/files/NewsLetter44_b4x75d2f.pdf
[2] Alain Bertho, Le temps des émeutes, Paris, 2009. L’autore è docente di antropologia all’Institut
d’Etudes Européennes e direttore della scuola di dottorato in Scienze sociali
all’Università di Paris 8 a Saint Denis.
[3] Dante Lepore, Gemeinwesen
o Gemeinshaft. Decadenza del
capitalismo e regressione sociale, Gassino, 2011.
[4] Rupert
Smith. Vedi qui sotto, nota 8.
[6] J.
Taw – B. Hoffman, The
Urbanization of Insurgency. The Potential Challenge to US Army Operations,
RAND Monograph Report, Santa Monica, 1994.
(http://www.rand.org/pubs/monograph_reports/MR398/).
[7] NATO, Urban Operations in the
Year 2020.
[8] Rupert Smith, The Utility of Force: The Art
of War in the Modern World, London, Penguin Books, 20062 [L’arte della guerra nel mondo contemporaneo,
Il Mulino, Bologna, 2009], p. 466.
sostiene che la guerra come l’abbiamo conosciuta fino a qualche decennio fa,
guerra industriale fra Stati, «non esiste più», perché soppiantata dalla
«guerra tra la gente», L’autore, già vice comandante supremo della NATO, è
presentato come il «nuovo Clausewitz».
[9] Ivi, pp. 466-7.
[10] Si può vedere, sulla genesi e sul ruolo delle PMC (Private Military Companies): Francesco Vignarca, Li chiamano ancora mercenari. La privatizzazione degli eserciti
nell’era della guerra globale, Ed. Berti, Milano, 2004.
[11] Pino Tripodi, Il militariato in Iraq. Il ruolo del
volontariato nella guerra permanente, 10 set. 2004 http://www:bancadellasolidarieta.com/article.
php3?id_article=39; sulle ideologie che sottendono questa pratica e sul ruolo
dell’ONU, cfr. Redlink, L’ONU e i «signori della pace», La
Giovane Talpa, Milano, 2004.
[12] La vicenda è parzialmente
riassunta in
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10/05/greta-e-vanessa-pagati-11-milioni-di-euro-per-il-riscatto-delle-due-cooperanti/2096057/
[13] Stefano Silvestri, L’uso della forza, Pref. a Rupert
Smith, op. cit, pp. 7-30.
[14] Cfr. «Le nostre banlieue
e il medio Oriente», intervista a PHILIP GOLUB realizzata da BARBARA BERTONCIN, in UNA CITTÀ,
n. 218 / 2015, dicembre-gennaio.
[15] Nel suo trentennale dominio, Mubarak è riuscito a realizzare una sorta
di «equilibrio dinamico del pluralismo autoritario», mediante una
riarticolazione del ruolo economico dello stato: «Anche i militari (attori kofòs della politica egiziana) si sono
trasformati in imprenditori: l’esercito ha allargato il proprio range di attività alla sfera
civile-economica, entrando in joint
ventures che spaziano dal settore agro-alimentare all’edilizia, alla
gestione di catene di grandi magazzini, mentre dal punto di vista meramente
politico la nomina per decreto presidenziale dei governatori avviene di norma
tra i ranghi degli ufficiali dell’esercito e permette loro di detenere un
significativo potere decisionale sulle politiche locali e sull’allocazione dei
fondi destinati all’amministrazione» (Elena
Piffero, Egitto: l’equilibrio
dinamico del pluralismo autoritario, SSDD, WP/4/2007).
[16] Cfr. Gipfelsoli, Abbattere l’architettura securitaria europea, 3.6.2008
http://gipfelsoli.org/Heiligendamm2007italiano/4821.html.
[17] come mostrano i dati che forniamo nel lavoro di cui
nota 1.
[18] Le celebrazioni del 150°
dell’unità d’Italia misero in imbarazzo gli stessi borghesi, non solo per via
del localismo leghista, ma proprio perché al patriottismo nazionale non ci crede
più nessuno, senza contare il rancido problema del Sud.
[19] Lee
Sustar (a cura di), Mike Davis…cit.
[20] F.
Engels, La situazione della classe
operaia in Inghilterra, 1845.
[21] Marx non è superato a Detroit, in «Lotta
Comunista», n. 17-18, lu.-ag. 1967.
[22] Allan
Popelard e Paul Vannier, Detroit, la ville afro-américaine qui
rétrécit, Le Monde
Diplomatique, gen. 2010.
[23] Vedine la
descrizione in Loren Goldner, Capitale fittizio e crisi del capitalismo,
cit.
[24] Come documento (v. cap. 3 del Gemeinwesen cit.),
[25] La municipalità di Los Angeles costituisce,
assieme a numerosi altri centri delle contee di Los Angeles e Orange, una
vastissima area urbana che con oltre 12 milioni di abitanti è la seconda degli
USA dopo quella di New York e tra le prime del mondo. Una delle popolazioni più
diversificate etnicamente del mondo. Solo Miami ha una maggiore percentuale di
abitanti nati all'estero. La popolazione di origine ispanica (soprattutto
messicana) aumenta in misura considerevole di anno in anno, al punto che ormai
il 46,53 % è di origine latina e
la città è praticamente bilingue. La popolazione asiatica è la maggiore degli
Stati Uniti (nella Contea di Los Angeles vivono circa 1. 400. 000 asiatici).
Ospita le più grosse comunità mondiali di armeni, filippini, guatemaltechi,
ungheresi, israeliani, coreani, messicani, salvadoregni e thailandesi al di
fuori dei rispettivi paesi. Vi si trovano anche le maggiori comunità
statunitensi di iraniani e giapponesi. La popolazione di origine nativa
americana è consistente e rappresenta l'1.4%, è divisa in diversi distretti,
molti dei quali erano comunità autonome, entrate nel tempo a far parte della città.
Molte municipalità autonome vengono associate alla metropoli, fanno parte dell'agglomerato urbano e sono
incluse nella Los Angeles County.
[26] Cfr., fra
gli altri, The Rebellion in Los Angeles:
The Context of a Proletarian Uprising, in «Aufheben», n. 1, Autumn 1992,
pp. 1-16, disponibile
in pdf:
<http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:P554OXw4JloJ:www.antipolitics.net/distro/2006.html+The+Rebellion+in+Los+Angeles+Aufheben&cd=8&hl=it&ct=clnk&gl=it&lr=lang_ru%7Clang_it>
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