domenica 25 ottobre 2015

La verità sui fatti d'Ungheria del 1956, di Giovanni Apostolou

In occasione del 45° anniversario dei fatti d’Ungheria del 1956 una martellante campagna di revisionismo storico anticomunista intenderebbe cambiare i verdetti storici.
È una cosa intollerabile non solo per ogni comunista (degno di definirsi tale) ma anche per tutti gli antifascisti conseguenti!  Qui di seguito si intende far giustizia di quei fatti, utilizzando il più possibile il metodo della storiografia scientifica, con una lettura di parte: quella della verità storica!
– Come si arrivò ai fatti d’Ungheria
Ripercorriamo la storia dell’Ungheria nei tre anni che precedettero i fatti dell’Ottobre-Novembre 1956. Dall’Estate del 1953 era iniziato nella Repubblica Popolare d’Ungheria (nata il 20 Agosto 1949) un repentino processo di involuzione capitalistica nella pianificazione economica fondamentale del paese e di imborghesimento del Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi (a causa della debolezza, impreparazione e cedevolezza, tra i quadri, dei fautori del socialismo, guidati da Matyas Rakosi e Erno Gero, e del sopravvento momentaneo preso dall’alleanza delle correnti revisionista e socialdemocratica, guidate da Nagy, Kadar e Marosan) nel suo funzionamento effettivo che ripristinava il frazionismo e disgregava il centralismo democratico congestionando il partito in laceranti guerre intestine. Il 4 Luglio 1953, messo in minoranza in Parlamento dai deputati “comunisti” del blocco socialdemocratico-revisionista (interno al Partito dei Lavoratori) alleato col partito dei “piccoli proprietari” (dei kulak e della media borghesia), il governo Rakosi dovette dimettersi dopo che, da meno di un anno, aveva completato con successo (grazie soprattutto all’impegno entusiasmato della classe operaia magiara) l’industrializzazione socialista della non più arretrata Ungheria e avviato in grande stile la collettivizzazione dell’agricoltura, trovando larghi consensi tra i contadini medio-poveri (che avevano già beneficiato dell’abolizione del latifondo e della riforma agraria dell’immediato dopoguerra) e l’ostilità incondizionata della borghesia agraria kulak.
Il blocco parlamentare dei destri insediava così il 1° governo Nagy per interrompere bruscamente l’edificazione socialista e contravvenire al desiderio della maggioranza del popolo ungherese che aveva votato a maggioranza, alle precedenti elezioni, il Partito dei Lavoratori per sostenere il suo programma di generalizzazione dei servizi sociali pubblici e gratuiti (sanità, scuola, collocamento…), socializzazione dei mezzi di produzione e di collettivizzazione dell’agricoltura. Dopo un repentino aumento del tenore di vita dei lavoratori e delle masse popolari dovuto ai successi del 1° piano quinquennale 1949-1954 (conclusosi con un anno di anticipo per effetto di una generalizzata emulazione socialista fra i lavoratori) che vide la drastica riduzione dei prezzi dei generi di largo consumo e l’aumento di salari, pensioni e disponibilità abitava pubblica, si ebbe col 1° governo Nagy una brusca inversione di tendenza con una riduzione drastica del volume produttivo delle industrie statali (-6%) con consequenziale aumento dei prezzi e allargamento del mercato per i prodotti della media industria privata (e aumento dei profitti dei nep- men capitalisti) alla quale venne applicata una sostanziale riduzione della pressione fiscale che venne invece aumentata per le aziende agricole collettive molte delle quali furono costrette a sciogliersi ricacciando nella povertà migliaia di contadini.
I salari ebbero un ulteriore, seppur lieve, aumento nominale ma il loro potere d’acquisto crollò a picco. Un apposito decreto amnistiava (perché ritenuti “non più socialmente pericolosi”) burocrati corrotti, ricettatori, contrabbandieri, sabotatori dell’industria e dell’agricoltura socialista, incendiari di cooperative agricole, condannati per coinvolgimento minore coi regimi fascisti di Horthy e Szálasi, condannati per coinvolgimento nel fallito golpe (Maggio 1949) orchestrato dal generale Gyorgy Palffy e dall’allora Ministro degli Esteri László Rajk (in combutta col Vaticano, col regime revisionista jugoslavo di Tito e con la CIA americana).
Fra gli amnistiati vi era anche il revisionista Janos Kadar che da Ministro degli Interni, complice di Peter Gabor, nel 1951 favorì un altro tentato colpo di stato controrivoluzionario revisionista di militari filo-titoisti, ostacolando e depistando la vigilanza degli organi di sicurezza sui loro preparativi golpisti.
Nel Febbraio del 1954 venne istituita un’unica retta universitaria assai alta in sostituzione delle 8 fasce progressive istituite nel 1947 che garantirono l’accesso all’università pubblica ai figli del proletariato e dei lavoratori.  Solo gli studenti provenienti dalla borghesia poterono continuare tranquillamente gli studi (per la gioia dei professori riciclati dall’ancien régime fascista dell’ammiraglio Horty) mentre gli altri furono costretti, in maggioranza, ad abbandonarli.
Il 25 Marzo del 1955 gli studenti borghesi nagysti fondarono nel quartiere bene della capitale magiara (Pest) il Circolo Petőfi per sostenere organizzativamente la svolta di destra intrapresa dal Primo Ministro Imre Nagy.

La fondazione del Circolo Petőfi fu fatta in risposta contraria alle numerose manifestazioni operaie e popolari di pacifica protesta contro la politica liberista e antipopolare del governo Nagy che ebbero luogo in tutta l’Ungheria dal Novembre del 1954 all’Aprile del 1955 ( a Budapest, durante la manifestazione dell’8 Marzo per la giornata internazionale per l’emancipazione femminile apparvero cartelli con su scritto “Viva l’Ungheria socialista! Abbasso Nagy e il governo della borghesia!”).
Nel frattempo il Circolo Petőfi organizzava, nella sola Budapest, contromanifestazioni (pacifiche) di studenti borghesi a sostegno del premier. La seduta plenaria del Comitato Centrale del Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi, svoltasi tra il 2 e il 4 Marzo 1955, dopo aver fatto un dettagliato bilancio critico dell’operato dell’esecutivo, accusò pubblicamente Imre Nagy di deviazionismo di destra. Il successivo 3 Dicembre Nagy verrà finalmente espulso dal Partito dei Lavoratori. Sotto la pressione della piazza, e di innumerevoli “ordini del giorno” votati a maggioranza dalle assemblee della democrazia popolare, il Governo Nagy venne sfiduciato e sostituito, il 18 Aprile 1955, dal governo Hegedüs.
Il nuovo governo tentò quindi di porre rimedio ai gravi dissesti economici e sociali causati dal governo Nagy cercando di rimettere l’Ungheria sulla via dell’edificazione dell’economia socialista.  Le cooperative agricole vennero subito sgravate dalle onerose tasse imposte dalla politica pro-kulak di Nagy. La collettivizzazione ricominciò a prendere quota dopo la brusca flessione degli anni bui del 1953-1954, le cooperative agricole si rifondarono in tutta la campagna magiara.
La produzione agricola di cereali da panificazione negli anni ’53, ’54 e ’55 in milioni di tonnellate furono (secondo fonti ONU pubblicate a Ginevra nel 1956) rispettivamente 2,8 , 2,3 e 2,7 mentre per gli altri cereali furono 3,4 , 3,3 e 3,7.
La ripresa produttiva cerealicola, e in generale agricola, contribuì al ritorno di prezzi bassi per il pane e per altri generi alimentari agricoli. Il ritorno delle aziende collettive diffuse ancor più la zootecnica nell’allevamento con sostanziali incremento dei capi bovini (Marzo1955= 1.950.000 di capi, Ottobre1955=2.200.000 di capi) e ancor di più suini (Marzo1955= 5.800.000,Ottobre1955=8.000.000) e un consequenziale caduta dei prezzi delle carni.
L’industria statale riprese con vigore il suo ruolo guida dell’economia ungherese.
Dopo il declino unilaterale della produzione industriale, registrato nel 1954, nel 1955 si ebbe un aumento del 7% della produzione industriale complessiva. La produttività del lavoro subì, nello stesso periodo di confronto 1954-1955, un incremento solo di poco inferiore al 5%. Il 1°Maggio 1956, grazie alla politica economica svolta nei dodici mesi precedenti, furono ridotti i prezzi di diverse migliaia di articoli di consumo, in misure variabili fra il 10% e il 40%.
A partire dalla stessa data furono ridotti da 48 a 42 ore settimanali massime e 36 minime gli orari di lavoro degli addetti a lavori pesanti o malsani.
La politica intrapresa dal governo Hegedüs fu accolta con grande soddisfazione dalle masse lavoratrici e popolari ungheresi attirandosi invece l’insofferenza e l’ostilità degli imprenditori e dei kulak arricchitisi alla grande sotto la liberalizzazione del mercato promossa dal governo Nagy trovandosi poi, con la caduta di quel “loro” governo “amico”, di nuovo “schiacciati” dall’economia pianificata.
Va detto che, nonostante i già citati segnali positivi di ripresa, le misure economiche apportate dal governo Hegedüs non sanarono completamente il dissesto sociale creato da poco meno di due anni di controriforme economiche del governo Nagy.
La già citata amnistia scarcerò migliaia di condannati per reati comuni che erano stati inseriti in un programma di rieducazione al lavoro e lavoro correzionale volto alla loro reintegrazione nella società socialista, allo scadere della pena, come liberi lavoratori.
L’amnistia non li reintegrò nel sistema produttivo e quindi si ritrovarono come prima liberi e disoccupati, ricacciati da dove provenivano: nel sottoproletariato.
Molti di loro si ridiedero al furto e al contrabbando mentre altri, vennero avvicinati facilmente dalla controrivoluzione organizzata (che agiva sotto la copertura “umanitaria” della chiesa cattolica che metteva a loro disposizione, senza tanti problemi, la struttura delle parrocchie) che con un “pugno di dollari” se li comprava come utile manovalanza per i piani eversivi gia in elaborazione nell’ambasciata statunitense di Budapest dove vi lavoravano alacremente agenti della CIA e istruttori militari dei marines.
Non furono la maggioranza i sottoproletari che di loro spontanea iniziativa si presentarono agli uffici di collocamento statali per ottenere una onesta occupazione (che in poco tempo veniva assegnata anche se, va detto, il lavoro non qualificato era retribuito al più basso degli otto livelli salariali), molti preferirono fare quello che sapevano già fare, e c’era chi era disposto ad “assecondarli” sia nel contrabbando (commercianti borghesi) che per futuri scopi di provocazione reazionaria.
Nel Maggio del 1955, con l’adesione della Repubblica Federale Tedesca alla NATO, contingenti militari statunitensi si insediarono stabilmente in Baviera installandovi l’avamposto europeo per la politica del “roll back”, strategia di politica estera elaborata nel 1953-1954 dal segretario di stato USA John F. Dulles che aveva come dichiarato obbiettivo la destabilizzazione interna con successiva aggressione militare contro i paesi a democrazia popolare e l’Unione Sovietica.
L’anello più debole del “blocco comunista” (secondo un rapporto del direttore della CIA Allen Welsh Dulles del 1954 indirizzato al già citato fratello John), era stato rilevato proprio nell’Ungheria (seguita dalla Polonia e dalla Repubblica Democratica Tedesca).
Reinhard Gehlen (ex direttore della Sezione dei Servizi di Informazione della Wehrmacht nazista addetta allo spionaggio militare contro l’Unione Sovietica) venne messo alla guida della sezione CIA bavarese “Europa Libera” da dove incominciò a reclutare, tra la fine del 1955 e l’inizio del 1956, ex graduati dell’esercito del regime fascista dell’ammiraglio Horthy ed ex “croci frecciate” del nazista ungherese Szálasi.
Questa accozzaglia di criminali nazi-fascisti, confidenti di Gehlen dai primi anni ’40 ai tempi della “crociata contro il bolscevismo” sul fronte orientale, venne arruolata in un corpo speciale di “Combattenti per la Libertà” (equipaggiato abbondantemente di armamenti ma non di divise) pronto ad essere spedito in Ungheria dal cielo (paracadutato) e da terra allo scoccare dell’ora X.
Il cancelliere austriaco Julius Raab, nonostante il formale non allineamento del suo paese, aveva rassicurato gli USA che il suo governo non avrebbe minimamente ostacolato il transito sul territorio austriaco di uomini ed armi dei “Combattenti per la Libertà” e dei reparti scelti dei Marines e dell’esercito americano se dalla Baviera si fossero diretti in Ungheria.
Visto l’avvicinarsi minaccioso dell’imperialismo NATO la Repubblica Popolare d’Ungheria non poteva non aderire al Trattato Difensivo di Sicurezza Collettiva firmato a Varsavia il 14 Maggio 1955 dal governo Hegedüs assieme a quelli delle altre repubbliche popolari e dell’Unione Sovietica (esclusa chiaramente la Jugoslavia del revisionista Tito che dal 1949 era istituzionalmente una “democrazia popolare” solo di nome, e non più di fatto, ed era apertamente alleata agli USA e all’imperialismo occidentale pur stando tatticamente fuori dalla NATO). Dal 14 al 25 Febbraio del 1956 si svolse a Mosca il XX° Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

destra revisionista del partito sovietico guidata da Nikita Kruscev, rappresentante della corrotta borghesia burocratica antistalinista (burocrati imborghesiti che si arricchivano illegalmente rubando i fondi e i beni pubblici e che tanto aveva temuto il “terrore staliniano” che puniva col lavoro correzionale le loro ladronerie e “marachelle”), prevalse con la sua linea politica volta a smantellare l’economia socialista e ad instaurare quella a capitalismo monopolistico di Stato. Il XX° congresso del PCUS non riguardò la sola Unione Sovietica (che si avviava verso una deriva statal-capitalistica conclusasi definitivamente nel 1961) ma condizionò, destabilizzandolo, l’intero movimento comunista internazionale (il KOMINFORM fu sciolto in nome delle “vie nazionali al socialismo” ossia al capitalismo di Stato) compreso, quindi, il Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi.

Nel Partito dei Lavoratori imperversava il frazionismo dal 1953 senza soluzione di continuità. Il centralismo-democratico si era ormai ridotto a un proforma. La sinistra del Partito era debole e tentennante ma, nonostante ciò, deteneva ancora la direzione politica con Matyas Rakosi come segretario generale anche, e soprattutto, grazie all’appoggio della base proletaria e lavoratrice dei semplici iscritti.  L’opposizione unificata della destra del Partito (composta da i revisionisti titoisti (seguaci di Kadar) e liberisti (seguaci di Nagy) e socialdemocratici ) dopo il KO avuto nell’Aprile del 1955 tornò alla carica sventolando la bandiera del XX° Congresso del PCUS.

Approfittando del prestigio di cui godeva ancora il PCUS (prestigio ottenuto grazie a ai meriti ottenuti sotto la guida di Stalin dai quali meriti Kruscev campava solo di rendita) i destri riuscirono a far votare a maggioranza dal Comitato Centrale del partito, nel giugno del 1956, una risoluzione dal titolo “Lezioni del XX° Congresso del PCUS dove si esaltava il “nuovo corso” intrapreso nel 1953 da Nagy (per il quale si chiedeva implicitamente la riammissione nel partito), si rilanciava lo sviluppo ulteriore del frazionismo (denominato pretestuosamente come “democrazia di partito” e “direzione collegiale del Comitato centrale”), si pretendeva una “via ungherese al socialismo” e si condannava un non meglio chiarito “irrigidimento schematico del marxismo-leninismo”.

Alla plenaria del Comitato Centrale del 17 Luglio 1956 i destri passano quindi all’attacco, blaterando accuse infondate sui processi pubblici fatti fino ad allora contro golpisti e traditori (si affermava senza esibire uno straccio di prova, ma recitando il copione del “rapporto segreto” di Kruscev, che “si estorcevano confessioni tramite tortura”), attaccando l’applicazione della dittatura del proletariato contro l’eversione borghese come “violazione della legalità socialista”, pretendendo le dimissioni del segretario generale Matyas Rakosi che pur di mantenere la sua posizione e prendere tempo si era messo ad assecondare i revisionisti nelle loro assurdità.
Una tattica opportunista frutto della sua debolezza e impreparazione ideologica che lo portarono di fatto, con tutti i leader della sinistra, a scivolare nel revisionismo.
Contro di lui, e la sua giusta (seppur tentennante) linea politica del passato, e in appoggio alle falsità dei destri, presero la parola alla plenaria del Comitato Centrale anche due emissari revisionisti di Krusciev: Anastas Mikojan e Mikhail Suslov. Matyas Rakosi, piuttosto che appellarsi al proletariato e ai sinceri comunisti ungheresi affinché si mobilitassero nelle piazze perché non fosse loro nuovamente e definitivamente scippato il potere politico, preferì gettare la spugna rassegnando le dimissioni.
Il blocco dei destri era riuscito a impadronirsi definitivamente della direzione del Partito dei Lavoratori.
Il proletariato ungherese venne così irreversibilmente privato di ciò che rimaneva di quello che avrebbe dovuto essere la sua avanguardia politica e organizzata.
Il partito degenerò completamente per colpa dell’accettazione delle frazioni al suo interno e per aver ancor prima (1948) permesso una fusione in blocco col Partito Socialdemocratico.
Un partito quest’ultimo che andava lasciato “morire per dissanguamento”, vista la repentina fuga della sua base nel Partito Comunista Ungherese, e non fuso accettando in massa come “comunisti” non solo i militanti della base operaia ma anche i vertici opportunisti socialdemocratici.
Per non suscitare la reazione sdegnata della base del partito (idealmente legato alla sinistra) i revisionisti elessero come nuovo segretario generale un ex esponente della sinistra fautrice del socialismo, e convertito di fresco per opportunismo al revisionismo moderno: Ernö Gerö.
Gerö fungeva solo da fantoccio per i destri che aspettavano il momento più opportuno per sostituirlo con l’impopolare revisionista titoista Janos Kadar non prima di averlo “riabilitato” completamente con una propaganda di beatificazione. Una volta impadronitisi del partito i destri persero la loro unità d’azione dando inizio alle rivalità fra loro: i revisionisti titoisti-krucioviani erano per un capitalismo di Stato che mettesse al potere la borghesia burocratica dei quadri statali corrotti e degenerati mentre i revisionisti nagysti e socialdemocratici erano propensi a un capitalismo liberista che mettesse al potere i resti della borghesia capitalistica spodestata e che richiamasse gli investimenti monopolistici dei capitali esteri occidentali.
Questo contrasto tra nuova borghesia burocratica  e la  vecchia borghesia liberista si risolse nella Jugoslavia revisionista di Tito nel 1954 con la netta supremazia della prima e la marginalizzazione della seconda (rappresentata dal revisionista liberista Milovan Gilas).
In Polonia si arrivò invece al compromesso con la linea di Władysław Gomułka che prevedeva lo smantellamento del sistema economico socialista a favore di un capitalismo misto statale-privato che, ovviamente, prendeva il nome di “via polacca al socialismo”.
Prima di raggiungere quel compromesso, nell’ottobre 1956, la destra revisionista gomulkiana, legata ai resti della vecchia borghesia e ai kulak, si alleò coi terroristi dell’Armia Krajowa (composta da ex fascisti pilsudskiani e sostenuta dalla CIA) che organizzarono le provocazioni armate a Poznan (Giugno 1956) cercando di strumentalizzare le giuste manifestazioni di protesta degli operai che manifestarono contro le nuove norme produttivistiche (che vincolavano lo stipendio alla produttività della singola fabbrica “autogestita”) introdotte dalla nuova direzione revisionista capeggiata dal kruscioviano Edward Ochab (nuovo segretario generale del Partito Operaio Unificato Polacco dal 10 Marzo 1956) che puntava alla trasformazione forzata del sistema socialista in capitalismo di Stato pensando all’esclusivo interesse della nuova borghesia burocratica.
In Ungheria, dal luglio all’Ottobre 1956, le frazioni revisioniste (impadronitesi del Partito) non riuscirono a prendere nessuna seria iniziativa contro-riformatrice.
Il 6 Ottobre le salme dei golpisti Gyorgy Palffy e László Rajk (fucilati a seguito di condanna a morte, ingiunta a conclusione di un regolare processo pubblico, con l’accusa di alto tradimento per aver orchestrato il fallito golpe del 1949) furono esumate e solennemente trasferite, per ordine del gruppo dirigente revisionista, in un “sepolcro d’onore”. Da golpisti e traditori del proletariato e del popolo lavoratore magiari Palffy e Rajk vennero trasformati dalla propaganda revisionista in “martiri” e “paladini della” (non specificata per chi, NDA)“libertà”. Il 14 Ottobre una delegazione del partito revisionista ungherese (che continuava a chiamarsi “…Unificato dei Lavoratori”) guidata da Gerö e Kadar partì per la Jugoslavia, su invito dei revisionisti di Belgrado.

Gli incontri con Tito e Kardelj durarono dal 15 al 22 Ottobre; nella sera di quest’ultimo giorno, i delegati ungheresi rientrarono a Budapest e pubblicavano un comunicato al paese, che esaltava “il rinsaldamento dei rapporti fraterni con la Jugoslavia” e annunciava che l’arcirevisionista Tito avrebbe restituito la visita all’Ungheria nel prossimo futuro. Un’altra delegazione ungherese, indipendente dalla prima, era di ritordo dalla Jugoslavia: si trattava di un gruppo di sindacalisti revisionisti titoisti, guidato da Sandor Gaspar e Nicholas Somogyi, che aveva lungamente visitato il paese balcanico per raccogliere elementi sufficienti per esaltare, una volta tornati in patria, la “via jugoslava al socialismo” ossia l’economia a capitalismo (falsamente) di Stato(ndr non quello tracciato da Lenin in una fase di transizione come quella della Nep Vedi l’infantilismo di sinistra e L’Imposta in natura) introdotta da Tito nel 1949.  La presa di iniziativa dei revisionisti statalisti di Kadar, verso le controriforme economiche strutturali, spinse la fazione dei revisionisti liberisti seguaci di Nagy, sorpassati per attivismo dalla concorrenza, a mobilitarsi indicendo nella capitale, per il 23 Ottobre, una manifestazione in appoggio del loro modello ideale di via da seguire: quello di Gomułka.
La bandiera dei kadaristi era perciò la “via jugoslava al socialismo”, quella dei nagysti era invece la “via polacca”.


– La controrivoluzione ha inizio

Il 23 Ottobre alle 14.30 gli studenti universitari borghesi nagysti (assieme a imprenditori, kulak, ricchi commercianti tutti nostalgici di Imre Nagy al quale dovevano la loro esistenza e sopravvivenza di classe) organizzati dal Circolo Petőfi, si riuniscono di fronte alla Casa degli Scrittori, inneggiano a Gomułka e portano anche bandiere polacche accanto a quelle magiare.
Verso le 15 i dimostranti, 50 mila in tutto, si portarono al monumento al poeta Sandor Petőfi per poi proseguire fino alla conclusione del corteo davanti alla statua del generale Bem, eroe polacco che aveva partecipato al risorgimento ungherese un secolo prima.
Le masse operaie e lavoratrici, invece, affollarono (in 200mila) le principali piazze di Budapest solo di sera, e non per appoggiare la manifestazione nagysta del pomeriggio ma per ascoltare, dagli altoparlanti, il messaggio al paese, trasmesso alla radio, di Ernö Gerö che, nonostante la sua recente abiura e conversione al revisionismo moderno, godeva ancora di molta popolarità tra i lavoratori.
Nel suo discorso, pronunciato alle ore 20, Gerö esaltò il regime economico (a capitalismo di “Stato”) della Jugoslavia revisionista da lui descritto come “esempio da emulare”, suscitando molta perplessità in chi lo ascoltava (nel recente passato il Partito dei Lavoratori aveva sostenuto molte campagne informative che smascheravano, nella sua essenza, il “socialismo” titoismo).
Scroscianti applausi, invece, segnarono il suo discorso quando disse: ”…noi condanniamo coloro che cercano di diffondere il veleno dello sciovinismo nella nostra gioventù, e che si sono valsi delle libertà democratiche assicurate dal nostro Stato per compiere una manifestazione di carattere nazionalistico”.
Un coro di “no” echeggiò da tutte le piazze quando Gerö (seppur ipocritamente e rivolto strumentalmente al solo revisionismo nagysta) formulò la domanda “… o forse vogliamo interrompere l’edificazione socialista per poi aprire di nuovo al capitalismo?”.
A questo punto, verso le ore 21, apparvero segni di un’azione preordinata e disciplinata di provocazione e di disordine fra la folla nelle piazze: ingiurie antisemite, false voci di sparatorie, scoppi di petardi.

Poco dopo, alcuni drappelli si separano dalla folla e, molto sicuri e con chiara idea su quello che c’era da fare, dove si doveva andare e come si distribuivano i compiti, un primo gruppo si diresse alla stazione radio; un secondo alla sede dell’ organo del Partito dei Lavoratori “Szabad Nep”; un terzo alla centrale telefonica; un quarto, un quinto e un sesto a un parco motoristico con 60 autocarri, a una centrale elettrica recentemente trasformata in una fabbrica di armi, e a un deposito di munizioni. A proteggere la stazione radio si trovavano alcuni poliziotti e guardie armate che avevano precisi ordini di non sparare se non per difendersi.
Furono attaccati: gli assalitori controrivoluzionari ne uccisero alcuni e altri ne ferirono, le guardie risposero al fuoco e dopo una schermaglia e qualche danno agli impianti, l’attacco alla stazione radio fu interrotto. Alla sede del giornale “Szabad NEP” una donna fu uccisa e il gruppo armato controrivoluzionario riuscì ad impadronirsi dell’edificio: distrusse una libreria bruciandone i volumi contenuti fra cui libri di Marx ed Engels e le opere complete di Lenin e Stalin.
La bandiera rossa che sventolava sul tetto dell’edificio veniva strappata e data alle fiamme.
Gli squadristi controrivoluzionari mantennero il controllo delle rotative per circa 16 ore.  Nel frattempo un altro manipolo di autisti, chiaramente preparati e scelti in precedenza, si erano impadroniti degli autocarri del deposito per servirsene poi per caricare armi e munizioni tratte dalla fabbrica e dalla polveriera. A queste azioni rapide e più o meno simultanee parteciparono forse un migliaio di persone o poco meno. Intanto, fra chi era nelle piazze di Budapest, molti erano tornati alle loro case, e anche il governo, a quanto sembra, fu informato con lentezza e non molto istantaneamente di quelli che sembravano attacchi sporadici e non connessi fra loro, compiuti da sparuti gruppi di poche persone.

Alle 21.30 un gruppo di controrivoluzionari, attrezzati di funi e piccozze, entrano in Piazza degli Eroi per abbattere la maestosa statua di Stalin che li si trovava.
La popolazione (quella presente che tornava alle case dopo aver ascoltato il discorso di Gero) si mise in mezzo occupando pacificamente la piazza per impedire l’abbattimento di quel monumento che per molti ungheresi era un simbolo che riassumeva in sé i recenti progressi socialisti del paese come la proprietà pubblica, socializzata e collettiva della terra, delle fabbriche e dei mezzi di produzione e di scambio; la soppressione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il diritto di ogni cittadino al lavoro, all’istruzione e all’assistenza sanitaria gratuite; la direzione dello Stato da parte della classe operaia come classe d’avanguardia nella società; l’eguaglianza dei diritti economici, sociali, culturali e politici di tutti i cittadini indipendentemente dalla condizione, dall’origine, dal sesso, dal lavoro svolto, ecc.; la garanzia, sulla base del principio della democrazia socialista, non solo dei diritti dei cittadini ma anche dei mezzi necessari all’esercizio di questi diritti.

Questo simboleggiava Stalin per il popolo lavoratore ungherese mentre per la borghesia, per la reazione e per i “comunisti” revisionisti era il simbolo della loro rovina (e lo è tutt’oggi), un simbolo da distruggere e denigrare in tutti i modi! Il gruppo di controrivoluzionari si ritirò cacciato da una piccola folla disarmata di uomini, anziani, donne e bambini (in tutto un migliaio). I manifestanti pensavano che i controrivoluzionari si fossero arresi.

Ma subito la piazza venne circondata da sopraggiunti controrivoluzionari armati (trasportati dai camion) che attaccarono gli inermi manifestanti di Piazza degli Eroi mettendoli in fuga con l’apertura del fuoco ad altezza uomo e falciandone molti con raffiche di mitra. Nel parco adiacente la piazza vennero accatastati 31 morti (tutte vittime civili fra cui donne e bambini). Fu un eccidio!
Il primo massacro della controrivoluzione ungherese.
La statua di Stalin venne abbattuta alle ore 22.30. Verso le 22.30 il parlamento si riunì in seduta d’emergenza.
I kadaristi cedono all’implicita minaccia dei nagysti di proseguire l’alleanza con i provocatori controrivoluzionari e, tramite questi, con l’imperialismo occidentale guidato dagli USA che progettava un’invasione del paese dopo aver scatenato la provocazione armata interna.
Venne offerta la carica di Primo Ministro, per la seconda volta, a Imre Nagy (reintegrato di recente nel Partito) che accetta. La composizione del nuovo governo è ancora, sostanzialmente, quella del governo Hegedüs (che da luglio aveva avuto alcune sostituzioni di ministri sostituiti con personaggi delle ambo correnti revisionite).
Il nuovo Governo Nagy, appena insediato, non era certo un “monocolore” nagysta. Contemporaneamente, i gruppi di squadristi si radunavano, salvo quello asserragliato nel palazzo del giornale “Szabad NEP”, e, nelle prime ore del 24 Ottobre, si accingevano all’assalto di altri edifici pubblici. Soltanto verso le 8 del mattino, passata una notte insonne, il Consiglio dei Ministri diede il primo annuncio dell’ “attacco armato contro gli edifici pubblici e contro le nostre formazioni armate compiuto da elementi reazionari fascisti”.

Nel corso della mattinata, il Consiglio dei Ministri proclamò la legge marziale e finalmente fece un terzo passo annunciando che “gli organi di governo non hanno fatto conto della possibilità di vili e sanguinosi attacchi nella capitale”, il Consiglio dei Ministri (presieduto da Nagy!) fece appello “alle formazioni sovietiche di stanza in Ungheria” perché venissero al suo aiuto in conformità con le clausule del Trattato di Varsavia.

Pur rispondendo affermativamente alla richiesta d’intervento, le formazioni sovietiche non intrapresero azioni armate degne di nota fino al giorno successivo.
Dal 24 Ottobre fin verso mezzogiorno del 25, si videro truppe sovietiche fraternizzare con le masse ungheresi.
Mezzi di trasporto militari sovietici, fra cui carri armati, trasportavano perfino dei civili ungheresi ai punti di raccolta nelle principali piazze di Budapest dove in molti affluivano spontaneamente per pacifiche dimostrazioni contro i gravi atti di squadrismo fascista accaduti.
A mezzogiorno del 24 Ottobre Nagy plla radio annunciando “la realizzazione di una via ungherese al socialismo, corrispondente alle nostre caratteristiche nazionali”, condannava ufficialmente gli “atti criminali di elementi ostili alla democrazia popolare” promettendoli però “piena amnistia per quelli che deporranno le armi entro le ore 14” (il termine fu poi spostato alle 22).
Ma gli imperialisti americani, che manovravano direttamente dall’ambasciata USA in Ungheria i criminali squadristi in azione, non avevano alcuna intenzione di interrompere una grossa provocazione che le avrebbe permesso una aggressione armata, magari ancora, come 6 anni prima in Corea, “sotto l’egida dell’ONU”. Quel tanto di combattimenti che si svolse nella giornata del 24 contro le bande squadriste fu sostenuta in massima parte da unità dell’esercito ungherese, e al calare della notte il corpo essenziale dell’attacco armato controrivoluzionario sembrava spezzato.
Il mattino del 25 il Comitato Centrale del partito revisionista ungherese annunciò la revoca da segretario generale a Gerö e che Janos Kadar lo sostituiva.  Ma nella stessa mattinata del 25 ripresero nuovi attacchi contro unità della polizia e dell’esercito ungheresi, la provocazione controrivoluzionaria continuava.

Cominciarono spedizioni omicide organizzate contro quadri intermedie del Partito del Lavoratori (quadri di sincera fede comunista non ancora epurati dalla nuova dirigenza revisionista).

Il carattere disciplinato dei gruppi squadristici era manifesto, si osservò che essi erano ben equipaggiati con armi di fanteria (e che erano stati ben addestrati al loro utilizzo), e molti portavano bracciali d’identificazione tutti uguali fra loro.

Elargendo dollari statunitensi i controrivoluzionari arruolavano, come massa di manovra, comuni delinquenti e numerosi elementi del sottoproletariato utilizzandoli per il lavoro più sporco (incendi, devastazioni, assassini atroci con armi bianche e improprie).

Ad essi si unirono fanatici anticomunisti borghesi o ex-borghesi ed ex-nobili latifondisti declassati nostalgici dei loro “bei tempi andati” di “quando si stava meglio quando si stava peggio” sotto la dittatura fascista dell’ammiraglio Horthy.
Questi ultimi partecipavano volentieri (con figli al seguito affinché apprendessero le tradizioni rituali
fasciste ) ai roghi di vessilli e materiale librario e di propaganda comunisti.
A mezzogiorno del giorno 25 Nagy parlò alla radio dichiarando ambiguamente che “il ritiro delle truppe sovietiche, il cui intervento nei combattimenti si è reso necessario per salvaguardare gli interessi vitali del nostro ordine socialista, verrà senza ritardo dopo il ristabilimento dell’ordine e della quiete”.

Il discorso di Nagy mise l’accento sull’esigenza di una pretestuosa “indipendenza nazionale” (lasciava intendere che la presenza delle truppe sovietiche menomasse tale “indipendenza”).

Da notare che in questo suo intervento alla radio, a differenza di quelli che farà pochi giorni dopo, Nagy parlava ancora (formalmente) del “futuro socialista” dell’Ungheria.
Proprio mentre Nagy parlava alla radio, però, a Budapest riprendevano gli attacchi armati degli squadristi controrivoluzionari con al loro seguito la peggiore teppaglia criminale.
Il Museo Nazionale venne preso d’assalto e incendiato appiccando il fuoco in una dozzina di punti diversi: lavoratori, semplici cittadini e alcuni pompieri cercarono di arrestare la distruzione delle opere d’arte inestimabile e dei documenti storici contenuti nel Museo Nazionale: furono accolti dalle pallottole sparate dai tetti delle case vicine e da altri rifugi.
Alla fine, le fiamme dominarono incontrastate e il superbo edificio, ricostruito nel 1945, fu ridotto ancora una volta a uno scheletro di rovine.
Sempre il 25, nei villaggi attorno a Budapest e nelle campagne delle province a nord-ovest della capitale, gruppi di controrivoluzionari armati da venti a cinquanta uomini, montati su veicoli e senza pretese o parole d’ordine di “purificazione del socialismo” o di qualunque altro genere, cominciarono a darsi alla caccia all’uomo.

Questo era semplice terrorismo fascista, e nello spazio di poche ore, prima della fine della giornata, in circa quindici piccoli centri dei dintorni di Budapest le bande assassine procedettero sistematicamente al massacro di tutti i comunisti noti, presidenti dei consigli popolari locali, guardie di polizia e dirigenti di cooperative e collettivi.

In questo momento, e ancora per diversi giorni, le truppe degli eserciti sovietico ed ungherese confinarono il loro intervento soltanto entro Budapest, ciò spiega i massacri diffusi che avvennero fuori città.
Nel pomeriggio del 25 migliaia di budapestini si misero in movimento verso la piazza antistante il palazzo del parlamento.  L’obbiettivo essenziale dei dimostranti era di esprimere la loro totale indignazione nei confronti degli efferati crimini messi in atto dai controrivoluzionari ed appoggiare l’intervento delle truppe degli eserciti ungherese e sovietico e gli appelli a deporre le armi e a porre fine ai massacri.
Molti dei manifestanti viaggiavano verso la piazza issati su carri armati sovietici a testimoniare una diffusa fraternizzazione delle masse ungheresi con le truppe sovietiche.
Nel mentre la piazza del parlamento si stava rapidamente riempiendo si ebbero d’improvviso degli spari in direzione delle forze sovietiche (li presenti assieme ai manifestanti ungheresi) e di una parte della folla. Cecchini controrivoluzionari appostati sui tetti di alcuni palazzi che affacciavano sulla piazza innescarono così una ennesima vile provocazione.
Le truppe sovietiche, sotto tiro, risposero al fuoco.
I cecchini lanciarono granate nel caos di una piazza gremita di manifestanti che preda del panico fuggivano confusamente in tutte le direzioni.
Il bilancio del massacro nella piazza del Parlamento del 25 Ottobre fu tragico: una sessantina di morti e un numero imprecisato di centinaia di feriti.
Alle ore 18 il governo proclamò un coprifuoco di 12ore.
All’alba del 26 Ottobre, a Budapest, si era ristabilita di nuovo una qualche misura di ordine e di calma.

Alle 6, il governo annunciò per radio che, di conseguenza, la popolazione avrebbe potuto uscire per gli acquisti e le altre necessità dalle 10 alle 15; ai lavoratori delle industrie dei commestibili e dei trasporti veniva assicurato che potevano riprendere le loro attività senza pericolo.
Intanto però, fuori dalla capitale e soprattutto nell’occidente del Paese (dove il confine con l’Austria era stato aperto fin dal mese di luglio (sul New York Times del 16 Agosto 1956 apparve la notizia di un “larghissimo afflusso di turisti in Ungheria provenienti dall’Austria”), e dove ogni sorta di strani personaggi entrava nel paese, a migliaia ) continuavano le azioni di guerra contro la polizia e le formazioni militari ungheresi. L’armata rossa aveva l’ordine di prender parte solo a misure difensive del governo nella città di Budapest, e non intervenne in questi combattimenti grandi e piccoli.
Alla sera del 26 Ottobre, i controrivoluzionari avevano il controllo della frontiera con l’Austria e di una dozzina di capoluoghi di distretto nella parte occidentale dell’Ungheria.
La controrivoluzione, non avendo alcun seguito nella stragrande maggioranza del popolo magiaro, dovette concentrare tutte le forze che in quel momento disponeva per creare un cordone ombelicale che unisse Budapest con il confine austriaco per permettere che da lì provenissero altri uomini e mezzi, in quantità elevate, dalle basi NATO della Germania Ovest (Baviera) e dell’Italia (Veneto e Friuli) transitando per l’Austria.
Nel tardo pomeriggio del 26 le sparatorie ripresero anche a Budapest, e a partire da quel momento assassinii di comunisti diventarono frequenti anche in città.
Molti onesti quadri comunisti non fecero ritorno alle loro case, da quella sera, per non essere assassinati dagli squadristi controrivoluzionari.
La gran maggioranza della popolazione di Budapest non prese parte ai combattimenti in nessuna delle loro fasi.
Molti operai (nonostante il vertice revisionista guidato da Kadar del Partito dei Lavoratori criminalmente latitante nell’organizzarli) , armati e affiancati dalla polizia, si asserragliano nelle fabbriche affrontando con eroismo i continui assalti controrivoluzionari.  Era a tutti gli effetti: guerra civile!



– La crisi di Suez

Una volta appreso che gli Stati Uniti stavano preparando un intervento militare in Europa centrale, gli imperialisti britannici e francesi decisero di approfittarne per prendere un’iniziativa per conto proprio svincolandosi dalla collaborazione forzata con l’alleato d’oltre atlantico che pretendeva che ogni nuova conquista imperialista fosse fatta sotto la sua direzione e, quindi, il bottino ottenuto non fosse spartito in parti uguali con gli alleati ma che la fetta più grossa spettasse “al più forte”.
Era l’occasione per Gran Bretagna e Francia di dimostrare di poter essere ancora imperialisti in proprio come ai tempi della Cordiale Intesa.
L’occasione si presentò in Medio Oriente. L’Egitto, emancipatosi dalla dominazione britannica quattro anni prima, si era dato una nuova Costituzione repubblicana e sotto il governo antimperialista di Gamāl ‘Abd al- Nasser nazionalizzò il 26 Luglio 1956 la Compagnia del Canale di Suez di proprietà franco-britannica. Fu uno smacco formidabile per le due potenze europee!
Il 28 Ottobre il regime sionista israeliano (con l’aiuto diretto di Gran Bretagna e Francia) lanciò il suo attacco diversivo nella penisola del Sinai.
Contemporaneamente, per alcuni giorni, la stampa di tutto il mondo riferiva della mobilitazione di forze francesi e britanniche in patria, a Cipro, a Malta e in Corsica per l’attacco all’Egitto.
Il 29 Ottobre, Israele invase la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai e fece rapidi progressi verso la zona del canale.
Gran Bretagna e Francia si “offrirono” di rioccupare l’area e separare le parti in lotta.
Nasser rifiutò l’ “offerta”, cosa che diede alle potenze europee un pretesto per un invasione congiunta per riprendere il controllo del canale e rovesciare il governo di Nasser e l’autodeterminazione egiziana.
Per appoggiare l’invasione, numerose forze aeree, comprendenti molti aerei da trasporto, erano state posizionate a Cipro e a Malta da britannici e francesi.
I due campi aereei di Cipro erano così congestionati che un terzo campo, che si trovava in condizioni dubbie, dovette essere rimesso in sesto per accogliere gli aerei francesi.
Perfino il RAF Luqa di Malta era estremamente affollato dagli aerei del RAF Bomber Command.
Gli aggressori britannici dispiegarono le portaerei Eagle, Albion e Bulwark, mentre quelli francesi fecero stazionare la Arromanches e la Lafayette.  In aggiunta le britanniche Ocean e Theseus funsero da trampolino di lancio per il primo assalto elitrasportato della storia.
Gran Bretagna e Francia iniziarono a bombardare l’Egitto il 31 Ottobre per costringerlo a riaprire il canale. Nasser rispose affondando tutte e 40 le navi presenti nel canale, chiudendolo in pratica fino all’inizio del 1957. Il 5 Novembre sul tardi, il terzo battaglione del reggimento paracadutisti si lanciò sul campo aereo di El Gamil, ripulendo l’area e stabilendo una base sicura per i rinforzi e gli aerei di appoggio in arrivo.
Alle prime luci del 6 Novembre i commandos britannici del NOS 42 e del 40° Commando Royal Marines assalirono le spiagge con mezzi da sbarco della II guerra mondiale.
Le batterie delle navi da guerra in posizione al largo iniziarono a sparare, coprendo gli sbarchi e causando danni considerevoli alle batterie egiziane. La città di Porto Said subì gravi danni.
Incontrando una forte resistenza, il commando numero 45 andò all’assalto con gli elicotteri e allo sbarco si mosse verso l’interno.  Diversi elicotteri vennero colpiti dalle batterie sulle spiagge subendo perdite sostenute.
Il fuoco amico degli aerei britannici causò pesanti perdite al 45° commando.
Combattimenti di strada e casa per casa erano all’ordine del giorno. Una dura opposizione arrivò da postazioni di cecchini ben trincerati, che causarono diverse perdite agli invasori.
Un contrordine giunse alle truppe americane in forza alla NATO in Europa.  L’esercito statunitense doveva essere pronto a intervenire in Egitto contro gli anglo-francesi, gli USA non potevano tollerare nessuna iniziativa autonoma dei suoi “alleati”, l’invasione americana in Ungheria era quindi rinviata a dopo la fine della crisi di Suez.

La CIA dovette quindi sostenere la controrivoluzione ungherese affinché reggesse il più tempo possibile, più di quanto previsto! In quel momento, negli ultimi giorni d’Ottobre, e dal punto di vista della reazione, la violenza controrivoluzionaria soprattutto non doveva interrompersi in Ungheria; e il tentativo di distruggere, non revisionare, lo Stato democratico popolare e la sua base economica socialista doveva essere portato avanti fino alla necessaria tabula rasa sulla quale sarebbero intervenute infine le forze NATO (al momento distratte dai fatti mediorientali).
L’Ungheria occidentale a ridosso della frontiera austriaca, ad Ovest, e di Budapest, ad Est, era sotto il regime controrivoluzionario (e al suo terrore fascista) che mandava rinforzi verso la capitale per tenere la situazione in ebollizione al fine di esercitare sul governo Nagy una pressione di destra sempre più forte.

– Golpe istituzionale di Nagy


Con l’eliminazione fisica e la messa in fuga (fuori da Budapest) dei molti deputati comunisti non nagysti, l’Assemblea Nazionale d’Ungheria (il parlamento) di fatto non esisteva più, o meglio: non poteva più dirsi rappresentativo del volere del popolo magiaro. I deputati rimasti formavano un parlamentino decisamente spostato a destra. Il governo Nagy, al posto di mobilitare il Paese per disarmare e debellare la controrivoluzione, proseguiva il programma di controriforme revisioniste concordato coi kadaristi.

Veniva introdotto il modello economico jugoslavo nel settore industriale statale che dava autonomia di gestione alle singole aziende istituendo la figura del direttore-manager (il direttore era stato fino ad allora un semplice dipendente dello Stato e doveva rispondere, in rappresentanza di tutto l’apparato contabile-amministrativo, del suo operato verso l’alto alla Commissione per l’Attuazione del Piano Quinquennale e verso il basso alla Commissione per il Controllo Operaio eletta dalla Assemblea Generale di Fabbrica) ed eliminando il potere decisionale alle Assemblee Generali di Fabbrica, ed agli organi da essa eletti e controllati, che venivano sciolte e sostituiti da piccoli parlamentini di delegati, denominati “Consigli Operai”, eletti tra gli operai e gli impiegati della fabbrica, ai quali venivano riconosciuti vari privilegi (stipendio più alto con quota aggiuntiva proporzionale alla produttività della fabbrica e la libertà di assentarsi dal lavoro praticamente a piacimento) e il cui mandato era irrevocabile per tutto il mandato quinquennale. In Jugoslavia i lavoratori più avanzati li chiamavano con irrisione: “Consigli dell’aristocrazia operaia”, e non avevano certo torto!
La fabbrica statale diveniva come una impresa privata, in franchising con lo Stato, in cui il direttore era il padrone che facilmente piegava la maggioranza del “Consiglio Operaio” ai suoi voleri tramite la corruzione economica. In merito alla controrivoluzione il Governo Nagy, il giorno 26, continuava, imbelle, ad assicurare immunità a chi avesse deposto le armi entro le ore 22!
Tutto qui! Il 27 Ottobre Nagy (col pseudo- parlamento di destra rimasto) attua il suo golpe istituzionale formando un nuovo governo funzionale alla restaurazione capitalista.
Vice Primo Ministro divenne Joszef Bognar, del partito della media borghesia e dei kulak denominato “dei Piccoli Proprietari”, e Ferenc Erdei, del partito prettamente dei kulak “Nazionale Contadino”.
Dei ministri quattro erano vecchi dirigenti del partito dei Piccoli Proprietari e avevano i dicasteri del Commercio estero, dell’Agricoltura, delle Aziende Agricole di Stato, e degli Esteri.
A quel momento, alla fine del 27 Ottobre, sembrava esservi buone ragioni di considerare passato il peggio.
Il governo, al posto di ordinare il contrattacco generale contro i criminali fascisti armati, emanava l’ordine di “immediata e generale cessazione del fuoco, con istruzione alle forze armate di sparare soltanto se attaccate”. Quest’ordine fu accolto ed eseguito come valido dalle forze sovietiche assieme a quelle ungheresi.

Alla controrivoluzione Nagy regalava criminalmente una tregua che le dava tempo a riprendersi ed accumulare più forze in armamenti ed effettivi in arrivo dall’Austria.  Intanto, sempre il 27, in un suo discorso radio Nagy, suscitando lo sconcerto di tutta l’Ungheria, negò vergognosamente il carattere reazionario delle azioni criminali delle bande armate considerandole nel loro insieme come “un movimento nazionale e democratico” ammettendo solo l’ “infiltrazione” di “elementi controrivoluzionari”.
Nello stesso giorno Kadar scioglieva arbitrariamente il Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori, eletto al 3° Congresso Nazionale del 1954 che aveva una forte componente di onesti comunisti contrari all’abbandono della via al socialismo, trasferendo tutto il potere ad un comitato “d’emergenza” di sei membri: Kadar, Antal Apro, Karoly Kiss, Ferenc Munnich, Imre Nagy e Zoltan Szanto. Tutti revisionisti appartenenti alle frazioni kadarista e nagysta.
Dopo aver taciuto fino ad allora da Belgrado il revisionista Tito dichiarava essere soddisfatto delle controriforme economiche, verso il capitalismo di Stato, intraprese dal Governo Nagy, e faceva sapere che “ogni ulteriore spargimento di sangue sarebbe solo dannoso”, quasi a voler fare intendere, con quel “ulteriore”, che una qualche utilità dello “spargimento di sangue”, fino a prima del 26, c’era stata! Dalle zone occupate (e insanguinate dai massacri) dalla controrivoluzione nell’Ungheria occidentale, e contemporaneamente da “Radio Europa Libera”, da altre trasmittenti in Spagna, in Italia e in Germania occidentale venivano lanciate “richieste” sempre nuove che riflettevano un ininterrotto spostamento verso destra.

Il 28 Ottobre cominciò ad essere avanzate le “richieste” della denuncia immediata e unilaterale del Patto di Varsavia da parte dell’Ungheria, dell’immediata neutralizzazione dell’Ungheria, il cui “status” avrebbe dovuto essere garantito da un accordo a quattro (fra USA, Gran Bretagna, Francia e URSS) in cui le potenze capitaliste avrebbero messo in minoranza l’Unione Sovietica per 3 a 1, e di mutamenti economici nel senso di una dichiarata marcia indietro rispetto alla via del socialismo.
Assecondando le richieste della controrivoluzione e dell’imperialismo occidentale il governo Nagy decretò il ritiro dei reparti dell’esercito sovietico da Budapest che iniziò all’alba del giorno 29.
Il 30 Ottobre il governo illegittimo di Nagy (quello formatosi con un golpe istituzionale il 27 Ottobre con meno di un terzo del parlamento) forma un “Gabinetto ristretto del Governo nazionale” (che concentrava in se tutti i poteri) composto da tre “comunisti” revisionisti Imre Nagy, Janos Kadar e Gesa Losonczy; due del partito dei Piccoli Proprietari: Bela Kovacs e Zoltan Tildy; uno del partito Nazionale Contadino: Ferenc Erdei; e una socialdemocratica anticomunista (che dal 1922 al 1944 coprì a sinistra la dittatura fascista dell’ammiraglio Horthy e che dal 1948 ordì varie congiure golpiste): Anna Kethly.
Formato il “gabinetto” Nagy si rivolse al Paese con un proclama nel quale ribadiva il ritiro immediato delle truppe sovietiche dal territorio di Budapest, invocava la cessazione del fuoco da parte degli “insorti” in tutto il paese, e concludeva con un “evviva” all’Ungheria “libera, democratica e indipendente” omettendo da allora (dai suoi discorsi) l’attributo “socialista”.
Da notare che il revisionista Kadar (segretario generale del Partito dei Lavoratori in cui la gran maggioranza della base e dei quadri locali erano sinceri e onesti comunisti) , nel suo intervento alla radio che seguì il proclama di Nagy, non ebbe niente da ridire allineandosi al Governo illegittimo, di cui faceva parte, “in nome della pace”.
Il ministro Zoltan Tildy diede quindi disposizione di liberare il cardinal Mindszenty dagli arresti domiciliari (il clerico-fascista e monarchico “principe-primate d’Ungheria”era stato condannato per la sua attività golpista di restaurazione monarchica in combutta col principe Paul Esterhazy e con la destra del partito dei Piccoli Proprietari oltre che con l’imperialismo occidentale).
Mindszenty venne liberato nella notte tra il 30 e il 31 Ottobre da un reparto scelto dell’esercito ungherese, guidato da un maggiore figlio di un conte ex generale ai tempi di Horthy, che lo scortò a Budapest dove  il clerico-fascista e monarchico “principe-primate d’Ungheria” si unì perfettamente ai massacratori controrivoluzionari guidati da vecchi amici hortysti con cui si trova in perfetta sintonia e ai quali diede subito la sua benedizione. Nel frattempo, sempre il 30 Ottobre, l’amministrazione americana di Eisenhower offrì al governo illegittimo di Nagy la somma di 20 milioni di dollari a titolo di concessione di aiuti.

Questo fatto non fu noto al pubblico fino al 9 Gennaio 1957 quando apparve come una notizia di poche righe in una pagina interna del New York Times.
Il 31 Ottobre Budapest era evacuata dalle truppe sovietiche.
Nel corso della giornata fu dalla carica il presidente della Banca Nazionale, esautorato il capo di stato maggiore dell’esercito ungherese e licenziato il Ministro della Difesa del Governo costituito quattro giorni prima.
Nagy si arrogò ad interim il Ministero degli Esteri. Il golpe istituzionale era completato!  Si intimava, dal Comando Nazionale Ungherese della Difesa Aerea, alle truppe sovietiche di ritirarsi dal territorio ungherese: “in caso contrario le forze dell’esercito ungherese passeranno all’azione”.

Più avanti nella giornata del 31 Nagy annunciò, completamente motu proprio, che il processo del 1949 contro il cardinal Mindszenty “mancava di ogni base legale” (!?), pertanto “ il governo nazionale ungherese dichiara che le misure con cui il cardinale primate Joszef Mindszenty fu privato dei suoi diritti sono nulle e senza effetto, e che il cardinale può quindi esercitare, senza restrizione alcuna, tutte le sue prerogative civili ed ecclesiastiche”.

Venne poi l’annuncio che il Consiglio Nazionale dei Sindacati era sciolto e che il governo avrebbe riconosciuto solamente la costituenda “Federazione Nazionale dei Sindacati Liberi” alla cui guida si trovavano ex corporativisti fascisti del periodo di Horthy.
Nel corso del 31 Ottobre il terrore bianco degli squadristi controrivoluzionario era ripreso incontrastato su larga scala (i reparti sovietici non c’erano più e i reparti ungheresi avevano ordini governativi di non intervenire), con tanto di pogrom antisemiti rievocati dalle ex croci frecciate, a Budapest e in molte province dell’Ungheria occidentale.
Il 1° Novembre, Nagy tornò ancora una volta ai microfoni della radio per annunciare nuovi “progressi”. All’ambasciatore sovietico a Budapest era stato comunicato da Nagy stesso che il suo governo denunciava senz’altro e seduta stante il Trattato Difensivo di Varsavia. Il governo Nagy aveva proclamato ufficialmente la “neutralità dell’Ungheria”, e chiesto al Segretario Generale dell’ONU di mettere all’ordine del giorno “la questione ungherese” e “lo status neutrale del Paese”; pure attraverso il segretario dell’ONU Nagy aveva chiesto ufficialmente che la “neutralità ungherese” venisse garantito da un accordo fra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS (3 vs 1). Al golpe di Nagy soccorreva intanto la progressiva disintegrazione del Partito dei Lavoratori.

Privata da tempo di un suo partito, attivo e fiducioso, la classe operaia stessa era come un corpo senza testa, le cui varie membra andavano  simultaneamente in tutte le direzioni, di fatto paralizzandola.
Alcuni gruppi di operai combatterono eroicamente le orde controrivoluzionarie ma perirono, o si dispersero, perché non coordinati ed organizzati da alcun quartier generale proletario rivoluzionario.
Perciò, nel momento della spinta reazionaria, la società ungherese non disponeva di una forza di resistenza efficace e organizzata che vi si potesse opporre: e questo fatto accresceva di molto il pericolo dell’immediata soluzione fascista della crisi.
Mentre nelle strade scorreva il sangue di numerosi comunisti, ebrei e progressisti massacrati, il 2 Novembre, Nagy chiese di uovo ufficialmente l’intervento delle Nazioni Unite e la “garanzia delle quattro potenze”; nello stesso tempo il golpista Pal Maleter, nuovo capo delle Forze armate dal 31 Ottobre, annunciava che l’esercito avrebbe appoggiato il governo soltanto se Nagy ritirato immediatamente l’Ungheria dal Patto di Varsavia e condotto una politica senza esitazioni per cacciare l’armata rossa dall’Ungheria “se necessario con la forza”.

Il 3 Novembre Nagy effettua d’arbitrio un nuovo rimpasto al suo governo rimpolpando la presenza dei partiti dei Piccoli Proprietari, dei social democratici di destra e dei “Nazional-Contadini”.

Lo stesso 3 Novembre, per la prima volta, si udirono personaggi ufficiali attaccare pubblicamente e ripudiare il socialismo, con una dichiarata prospettiva di ritorno al regime capitalista, pergiunta nella sua forma più classicamente liberista.

A Mezzogiorno una dichiarazione del Partito Nazionale Contadino (due rappresentanti del quale erano nel governo illegittimo e golpista di Nagy) proclamò che il partito, pur non desiderando la revoca della riforma agraria del 1945 (era un partito kulak, e non latifondista) “afferma la sua fiducia nella proprietà privata, e chiede libertà di produzione e traffici”. Poco dopo l’organo di stampa della “Società del Sacro Cuore di Gesù” veniva diffuso a Budapest, e il suo editoriale intitolato “Quello che vogliamo – I punti essenziali del programma della Chiesa cattolica ungherese”, fu trasmesso dalle radio controrivoluzionarie in lingua magiara e francese.
In esso “si chiede la restituzione delle terre che erano state di proprietà della Chiesa.  Inoltre, la restituzione alla chiesa delle sue scuole”. In altri termini, codesto organo ufficiale cattolico chiedeva, il 3 Novembre, l’abrogazione della riforma agraria e della riforma scolastica (atti sempre denunciati dalla gerarchia cattolica e particolarmente da Mindszenty) ossia ancora il rovesciamento delle trasformazioni sociali che avevano posto fine alla vecchia Ungheria di Horthy.

– Il “terrore bianco” fascista e antisemita della controrivoluzione

Lasciamo ora gli edifici del governo e i centri ufficiali di Budapest e cerchiamo di ricostruire quello che veniva fatto e detto nelle strade e in provincia, e da chi, durante la settimana che precedette il ritorno in forze delle truppe sovietiche nella capitale il 4 Novembre.  In primo luogo, converrà ricordare alcune fonti senz’altro attendibili da cui si ricavò l’indicazione che un attacco armato contro il governo ungherese, del tutto indipendentemente da quello che accadde il  23 Ottobre, era stato preparato da lungo tempo, e che provano in modo certo l’assenza di spontaneità della minoranza, organizzata militarmente, che fece ricorso alle armi.

Il 26 Ottobre, un dispaccio da Budapest dell’United Press dichiarava che “i ribelli sono ben armati. (nota bene)

È questo fatto che ha indicato per primo come un movimento clandestino, che sembra addestrato e ben equipaggiato, abbia scelto questo momento di crescente fermento del paese come l’occasione adatta per colpire il regime comunista”. Lo stesso giorno, il corrispondente da Budapest del Daily Mail di Londra riferiva di aver cenato con dei dirigenti controrivoluzionari “che avevano preparato per un anno la rivolta di questa settimana”.
Assai più estesa è una notizia dell’United Press, trasmessa il 30 Ottobre da Kurt Neubauer dal centro di frontiera austriaco di Nickelsdorf.
Dopo aver parlato lungamente con molti paramilitari controrivoluzionari armati, Neubauer giungeva a questa conclusione:  “È abbastanza evidente, ormai, che quanto sta accadendo in Ungheria sia frutto di mesi, se non interi anni, di preparazione”. 
Le testimonianze sul terrore bianco che si sviluppò in Ungheria come situazione generale (in modo da richiamare direttamente alla memoria il 1919) soprattutto dopo che il 29 Ottobre l’armata rossa lasciò Budapest, sono universali ed eccellenti.
Il terrore regnò con un crescendo di furia stragista fino al 4 Novembre, ossia fino al ritorno delle forze sovietiche. Elie Abel, scrivendo da Budapest il 29 ottobre per il New York Times, riferì che i cosiddetti “Consigli rivoluzionari” dell’Ungheria occidentale erano “occupati a gettare in carcere i rappresentanti locali e semplici iscritti del Partito dei Lavoratori Ungheresi (comunista) e della polizia di sicurezza”. “in alcuni  Casi” (egli continuava, NDA)“questi servitori del regime di Budapest vengono impiccati o fucilati senza formalità”.
Il Daily Express di Londra del 31 Ottobre pubblicava una descrizione del lungo e sistematico assalto condotto il giorno prima contro la sede centrale del Partito dei Lavoratori a Budapest, descrizione fatta dal corrispondente Sefton Delmar che si era trovato sul posto.  Gli attaccanti, scrive Delmar “hanno impiccato tutti senza eccezione gli uomini e le donne trovati nel palazzo, fra cui anche sostenitori del Primo Ministro Nagy” e poi continua “gli impiccati pendevano dalle finestre, dagli alberi, dai lampioni, da qualunque oggetto a cui si possa impiccare un uomo.  Il male è che, insieme a loro, si seguita a impiccare anche semplici cittadini”.

L’ammontare degli assassinati del palazzo della sede centrale del Partito dei Lavoratori ammontarono a 134! Il redattore per i Balcani del giornale dell’United States News and World Report pubblicò il 9 Novembre i suoi appunti, presi “mentre viaggiava in automobile dalla frontiera austriaca fino a Budapest, nei giorni in cui i sovietici erano fuori dalla capitale:
“Si passa vicino ad assembramenti di persone riunite intorno a corpi di membri della polizia di sicurezza che vengono battuti fino a divenire masse informi che non hanno più nulla di umano.  Da una casa ne pendono altri, impiccati”.
Si può appena riconoscere la forma umana, ma “naturalmente” si può dire “con certezza” che gli individui torturati e massacrati sono “membri della polizia di sicurezza”!

Vengono alla memoria le fotografie fatte da John Sadovy e pubblicate su Life il 12 Novembre 1956 in cui si vede un gruppo di ungheresi in uniforme, disarmati e con le mani in alto in segno di resa, alcuni feriti; poi lo stesso gruppo fucilato a freddo dalla distanza di cinque passi, e poi, uno di loro non essendo ancora morto e tenendosi eretto, un’altra fotografia mostra il calcio di un fucile che piomba sul suo cranio.
Life, nel far pubblicità alla sua merce sul New York Times del 14 Gennaio 1957, dà una riproduzione di due di queste foto, facendo scrivere che esse illustrano “un momento brutale ma glorioso di una appassionata battaglia per la libertà” e, anche qui, la scusa è che i massacrati “appartenevano alla polizia di sicurezza”. Tanto per l’esattezza gli uomini uccisi, come mostrano chiaramente le loro uniformi e i loro volti, sono soldati dell’Esercito Popolare Ungherese, molto giovani, reclute probabilmente, e non poliziotti di alcun genere (e anche se per assurdo lo fossero stati era giustificata tanta brutalità?). Il fotografo di questo “momento glorioso” riferiva poi nel testo che accompagnava le fotografie che i “combattenti della libertà” non cessarono mai il fuoco su coloro che cercavano di arrendersi, urlando “niente prigionieri, niente prigionieri!”.

Poi scrive Sadovy, dopo aver visto il momento “glorioso” prolungarsi per quaranta minuti di massacro a sangue freddo “i miei nervi cedettero, le lacrime cominciarono a scorrermi giù per le gote.  Ero stato tre anni in guerra, ma nulla di tutto ciò che avevo visto poteva paragonarsi a questo orrore”.
Gunnar D. Kumlein, corrispondente stabile da Roma del settimanale cattolico The Commonweal, si recò in Ungheria durante la controrivoluzione.  Sembra che egli abbia passato buona parte di quei giorni anche fuori Budapest.
Sebbene le sue relazioni fossero di parte reazionaria tuttavia egli riferisce, del resto senza un cenno di disapprovazione, che “alcuni degli insorti liquidavano i comunisti come se fossero animali” (The Commonweal del 14 Dicembre 1956, pagina 280).
Leslie B. Bain, un osservatore molto moderato che conosce bene l’Ungheria, e che fu pure a Budapest durante la controrivoluzione, scrive che mentre i segni della reazione estrema apparvero fin dall’inizio dell’azione violenta, a partire dal 29 Ottobre essi si fecero via via più decisi: “… in diversi punti della città, dunque si formava un gruppo di tumultuanti, vi erano alcuni individui che lanciavano parole d’ordine di nazionalismo estremo.
Certe volte chiedevo se questi elementi nazionalisti avessero un comando centrale: ho fatto del mio meglio per scoprirlo, ma senza ottenere prove convincenti. Comunque, l’ondata nazionalista continuava a salire” (The Reporter di New York del 15 Novembre 1956 pagina 21).

Il 31 Ottobre, l’Associated Press trasmetteva da Budapest dispacci come questo(dove ancora l’assicurazione che le vittime erano membri della “polizia segreta” (cioè non in uniforme) può far effetto solo sugli sprovveduti):
“Squadre di vendetta di giovani rivoluzionari girano ancora per le strade e perlustrano le fogne della città, alla caccia di membri dell’odiata polizia segreta ungherese.
Quelli che vengono trovati nelle fogne, vengono sparati a vista e, uccisi, gettati al fondo; nelle strade, essi vengono impiccati per i piedi.  Altri, fucilati nelle vie, vengono poi cosparsi di benzina e bruciati” (pubblicato sul New York Times del 1° Novembre 1956).
Un altro dispaccio trasmesso lo stesso giorno da Varsavia riferiva similmente che “alcune delle notizie qui giunte da Budapest hanno causato oggi grande preoccupazione: si tratta di notizie di massacri di comunisti ed ebrei da parte di elementi indicati come fascisti” (sempre dal New York Times del 1° Novembre 1956).

Le librerie furono un obbiettivo particolare dgli squadristi “combattenti della libertà”. Opere di Marx, Engels, Lenin e Stalin e di altri comunisti e autori progressisti e antifascisti di tutto il mondo furono ammucchiate in grandi roghi per le strade.  “I fuochi bruciarono per tutta la notte” riferiva Le Monde Diplomatique.
Dello stesso tenore la corrispondenza dell’inviato Leo Cerne del New York Times “I fuochi bruciarono per tutta la notte” riferiva in una corrispondenza pubblicata sul New York Times del 1° Novembre.

Ed ecco la testimonianza di Georges Vanhoute, segretario del sindacato americano Chemical and Oil Workers Trade Union International (Unione Internazionale dei Chimici e Lavoratori del Petrolio), che fu a Budapest in quei giorni: “Le atrocità furono compiute specialmente nella seconda fase dei tragici eventi di Budapest, sull’onda di una campagna che veniva in primo luogo dall’esterno del paese, e qui vanno ricordate le trasmissioni di Radio Europa Libera dalla Germania occidentale, ma anche di una campagna di eccitamento all’odio condotta da elementi fascisti all’interno, e soprattutto a Budapest.
Conosciamo direttamente casi di intere famiglie trucidate, come la famiglia Kalamar, e di operai attivi e coraggiosi, come Imre Mezo, già partigiano in Francia, che sono stati selvaggiamente torturati e uccisi.

Venivano stampate e affisse sui muri delle liste nere con i nomi di uomini e donne che dovevano essere uccisi, fra cui quelli di personalità culturali ungheresi e di membri di organizzazioni operaie” (dal Word Trade Union Movement di Londra del mese di Dicembre 1956 a pagina 20)
Il corrispondente da Budapest del settimanale francese L’Express riferì, il 31 Ottobre, di esser stato testimone oculare della caccia ai “membri della polizia di sicurezza”:
“Ho visto esecuzioni sommarie: bastava che una persona fosse indicata da qualcuno come spia della polizia, perché la si impiccasse, fucilasse o bruciasse viva.
Ho assistito all’esecuzione di un presunto graduato della polizia politica e ho udito la gente attorno impazzita sulla piazza Koztasasagter urlare i suoi insulti al ‘lurido ebreo’ che aveva finalmente pagato per la sua razza maledetta”.
L’inviato speciale del quotidiano jugoslavo Politika, riassumendo gli eventi di quei giorni sul numero 13 del suo giornale, riferisce di abitazioni di comunisti marcate con una croce bianca e quelle degli ebrei con una croce nera, come segni di riconoscimento per le squadre di sterminio. “Non vi è più dubbio possibile”(scrive il giornalista jugoslavo, NDA)“si tratta di un classico esempio di fascismo ungherese e di terrore bianco”.
Le informazioni che giungono dalla provincia” (continua poi, NDA)“parlano di luoghi dove ai comunisti venivano cavati gli occhi, tagliate le orecchie, recata la morte con metodi orribili”.
André Stil, redattore capo dell’organo del PC francese l’Humanitè, arrivò a Budapest il 12 Novembre.
I risultati della sua visita in varie parti della città e dei suoi colloqui con molti sopravvissuti del terrore bianco, comunisti e altri, coincidono sostanzialmente con le relazioni dirette dei testimoni oculari del New York Times,New York Herald TribuneCommonwealCommentaryUnited States NewsLife e Politika: massacro sistematico fascista.  “… dopo le torture, quelli che respiravano ancora vennero impiccati.  Furono impiccati anche dei morti.
Spesso i corpi degli impiccati erano in uno stato tale che non si poté più riconoscerli: gli alberi della Piazza della Repubblica portavano ancora tracce dei pesi dei corpi.
I cadaveri erano forati dappertutto da colpi di baionetta, lividi di calci, graffiati, coperti di sputi …” Mentre Ottobre passava in novembre, la furia cresceva e sempre più il massacro prendeva la forma di un’azione ben organizzata.

Sempre nuove infornate di persone venivano arrestate e tenute pronte per il successivo sterminio.
Alla fine del 3 Novembre gli arresti in attesa di esecuzione nell’immediato futuro erano centinaia a Budapest, e altre centinaia si trovavano in centri minori di tutto il paese.
Vi sono prove conclusive del fatto che solo l’entrata delle truppe sovietiche a Budapest previeni  l’uccisione di migliaia di ebrei: fra la fine di Ottobre e l’inizio di Novembre i pogrom antisemiti delle (ex-) croci frecciate (ora “combattenti della libertà”) erano tornati dopo una pausa di 12anni!
Già nei materiali ricordati fin qui si notano gli indizi del carattere antisemita di una parte dei massacri.
Vi sono poi chiari indizi del fatto che le azioni di eliminazione di massa di ungheresi ebrei avevano carattere organizzato.  Così, nell’articolo di Peter Schmid su Commentary del 3 Novembre (pubblicazione del Comitato Ebraico Americano ) l’autore, acceso anticomunista e sionista, pur negando l’evidenza dei fatti definendo come una“menzogna” che “l’insurrezione era caduta in un potere di reazionari e fascisti”, scrive tuttavia che “questi elementi” (fascisti, NDA)“erano presenti fra i ribelli” e, specificamente, riferisce di aver “individuato” quella che chiama “una corrente sotterranea di antisemitismo” nella sollevazione ungherese.

Quanto fosse difficile “individuare” questa “corrente sotterranea” risulta poi dall’esempio che Schmid stesso racconta per illustrarla.
Un gruppo di “combattenti della libertà” sta lavorando con delle scavatrici per arrivare alle cantine di un edificio in cui ritiene siano nascosti “dei membri della polizia di sicurezza” (non potevano mancare!). Schmid è presente e assiste alla scena; scopo dell’azione, naturalmente, è lo sterminio.
A questo punto, scrive Schmid, “uno degli scavatori venne verso me e mi rivolse la parola con un pretesto, cominciando a spiegare che gli ebrei dovevano essere sterminati perché avevano portato il comunismo in Ungheria”. Questo individuo era membro di quel che Schmid chiama senz’altro “un gruppo di combattenti per la libertà”!

Naturalmente, se tali sono i sentimenti appropriati a un “combattente per la libertà”, come si può non riconoscere che che “l’insurrezione era caduta in un potere di reazionari e fascisti”?
Anche Leslie Bain, già citato, il cui orientamento politico generale non differisce di molto da quello di Peter Schmid, notò che a Budapest, fin dai primi giorni, “si videro gruppi di personaggi indefinibili che raccoglievano ai crocicchi e cominciavano a urlare ‘Morte agli ebrei!’”.
E osserva:
“Già nella prima nottata, e poi nei giorni successivi, c’era in giro abbastanza antisemitismo da presentare un grave segno di pericolo”. Il corrispondente del giornale sionista israeliano Maariv di Tel Aviv (e non la “propaganda comunista d’oltrecortina”) scrisse:  “Durante l’insurrezione un certo numero di ex-nazisti furono liberati dalle prigioni, e altri giunsero in Ungheria da Salisburgo.  Questi li incontrai al confine” e poi descrive:
“Sui muri, sui lampioni, sui tram si leggevano scritte come Abbasso l’ebreo Gero!Abbasso l’ebreo Rakosi!, o semplicemente Abbasso gli ebrei, sterminiamoli tutti! “. Ai primi di Novembre i circoli dirigenti rabbinici di New York ricevettero un telegramma dai loro confratelli di Vienna, in cui si comunicava che “sangue ebraico scorre in Ungheria per opera dei ribelli”.
Molto più tardi, nel Febbraio del 1957, il Congresso Mondiale Ebraico dichiarò che “durante la rivolta ungherese di Ottobre-Novembre eccessi antisemiti hanno avuto luogo in più di venti villaggi e piccoli centri della provincia”.

Ciò era avvenuto, afferma questo organismo molto conservatore, perché “gruppi fascisti e antisemiti aveva colto l’occasione offerta dalla carenza del potere centrale per ripresentarsi alla superficie”.
Sempre secondo il Congresso Mondiale Ebraico “molti dei profughi ebrei si erano allontanati dall’Ungheria per sfuggire alla tremenda atmosfera di pogrom antisemita che invadeva il Paese” (dal New York Times del 15 Febbraio 1957). Ciò veniva a confermare la relazione fatta in precedenza dal rabbino inglese R. Pozner, il quale, dopo una visita ai campi profughi ungheresi, dichiarò che “la maggior parte degli ebrei che hanno lasciato l’Ungheria sono fuggiti per paura degli ungheresi e non dei russi”.
Il giornale ebraico di Parigi, Naye Presse, riferiva poi che i profughi ungheresi ebrei in Francia dichiaravano molto spesso di aver avuto salvata la vita dai soldati sovietici (utili notizie su questo aspetto antisemita della controrivoluzione ungherese si trovano nel giornale ebraico canadese Vochenblatt, numero del 3 Gennaio 1957). Il carattere reazionario e antisemita di dirigenti dei controrivoluzionari ungheresi viene via via confermato dalle notizie che si vanno accumulando intorno a buona parte dei rifugiati ungheresi.
In Inghilterra e Canada la polizia è dovuta intervenire in alcuni campi profughi (dove mischiati si trovavano controrivoluzionari in fuga con ebrei) per impedire il linciaggio degli ebrei.
Il Ministro degli Interni austriaco Oskar Helmar riferiva (New York Times del 15 Gennaio 1957) in Gennaio episodi di dimostrazioni e aggressioni antisemite nei capi profughi ungheresi in Austria.  Poco dopo Zev Weiss, membro del comitato esecutivo della Younth Aliyah, un’organizzazione internazionale per l’assistenza ai bambini ebraici, visitò i campi profughi in Austria, e riferì pure lui che un “virulento antisemitismo” vi aveva libero corso.
L’8 Dicembre 1956 il Cleveland News riferiva il discorso tenuto da Ferenc Aprily, ex tenente dell’esercito sotto la dittatura di Horthy e prigioniero di guerra in URSS durante la guerra, a una riunione di ufficiali aviatori statunitensi.
Costui, che il giornale ci presenta come “un patriota ungherese”, raccontò che, tornato in patria dalla prigionia, “cominciò immediatamente a combattere contro la dominazione comunista”; fu presto “ben noto come ai comunisti come sabotatore, cospiratore, spia e”, immancabilmente, “combattente per la libertà”, per cui, arrestato nel 1948, subì tuttavia “un processo senza prove” (??!).
Comunque sia egli era stato rilasciato nel settembre 1956, “in tempo”(a quanto ci dice lui stesso, NDA)“per unirsi al fervido sentimento di rivolta che ribolliva in tutta l’Ungheria”.
Della lotta armata vera e propria, cui egli prese parte fin dall’inizio, Aprily racconta:
“Noi non volevamo legarci a nessun singolo gruppo o uomo politico, cosicché i combattimenti si sviluppavano, per così dire, semplicemente là dove sembrava via via necessario.
Io ero consigliere capo di un gruppo di 35 ardimentosi” (quest’osservazione può servire a gettar luce sul problema di quella “spontaneità” che ha reso perplessi tanti osservatori dell’ “insurrezione”). Aprily raccontò orgogliosamente ai suoi uditori americani come aveva contribuito a liquidare 80 comunisti in una sede di partito.
Non furono presi prigionieri: le vittime “vennero impiccate”.
La storia narrata dal Cleveland News si conclude così:
“Quando una ricerca sistematica in tutta la città fu lanciata contro di lui, Aprily, i capi della rivolta lo esortarono a partire. Egli pedalò su una bicicletta fino alla frontiera austriaca, e in seguito ottenne asilo negli Stati Uniti”. Negli Stati Uniti hanno trovato rifugio anche altri eminenti “patrioti”.

Il conte Edmond de Szigethy, antico proprietario di un’azienda tessile con 1200 operai, si trovò spossessato con l’avvento del socialismo.  Anche questo gentiluomo fu un “combattente della libertà”, riuscì a scappare e certamente potette cavarsela anche senza le sue 1200 “mani” da sfruttare.
Da Emil Lengyel, sul Saturday Review del 25 Febbraio 1957, apprendiamo che “antichi membri del partito ungherese delle croci frecciate, in confronto al quale gli stessi nazisti tedeschi erano amici degli ebrei”, si sono guadagnati il titolo di “combattenti della libertà”.
Lengyel riferisce che”il capo della ‘Sezione per l’eliminazione degli ebrei’ del suddetto partito riuscì a evadere dalla prigione durante i giorni di caos a Budapest, e si trova ora negli Stati Uniti”. Nel 1957 il Servizio dell’Immigrazione Statunitense ha effettivamente espulso un “combattente della libertà”, in seguito alle proteste del Comitato Ebraico Americano.
Si trattava del famigerato Odon Malnasi, responsabile della propaganda del regime nazista di Szalasi del 1944.
Anche costui era stato scarcerato durante la controrivoluzione, nella quale prese attivamente parte, e ottenne il permesso di entrare negli USA.
Miklós Serényi, uno dei leader più noti della controrivoluzione ungherese del 1956, fu dal 1939 al 1944 il vice di Ferenc Szalasi cioè il numero due delle “Croci Frecciate”, scappò anche lui negli USA dove divenne cittadino
statunitense e morì tranquillamente nella sua casa di Boston il 30 Settembre 1970!

Sul New York Times del 4 Marzo 1957, Richard Saunders, presidente della Save the Children Federation, ha dichiarato che molti degli adolescenti che si trovano fra i profughi “non sono in nessun senso rifugiati politici”, ma, per la maggior parte, “elementi asociali e delinquenti precoci”.
Egli aggiungeva che anche fra gli adulti si trova larga proporzione di “criminali e avventurieri”, i primipresumibilmente liberati dalle prigioni.

Indicazioni riguardo all’entrata in Ungheria, subito dopo l’inizio della controrivoluzione, di gruppi reazionari provenienti dall’estero, oltre a quelle contenute in alcuni dei testi già citati, vengono date da molte altre fonti in maniera abbondantemente e sufficientemente conclusiva.
Vi è intanto il fatto, già accennato, che per diversi mesi prima di Ottobre, il confine con l’Austria fu praticamente aperto e che migliaia di turisti entrarono nel paese, specialmente a partire da Agosto.
In secondo luogo, è pure un fatto che i controrivoluzionari, quasi subito dopo gli atti di violenza del 23 Ottobre, concentrarono i loro sforzi sul tentativo di ottenere il controllo delle zone occidentali del paese: nessuna resistenza a questa azione fu opposta dalle forze sovietiche, e il governo di Budapest, quanto meno a partire dal 27 Ottobre, non fece nulla per istruire l’esercito ungherese nell’intervenire in quelle regioni.
Alla fine di Ottobre non vi era più nessuna forma di controllo di frontiera, mentre il paese stesso (con un governo illegittimo schieratosi dalla parte della reazione) si avvicinava a uno stato di caos, e cominciava ad essere preda del più sanguinario terrore fascista organizzato dalle squadre di sterminio controrivoluzionarie.
Così, per esempio, Peter Schmid, nel reportage già citato, riferisce di essere entrato in terreno ungherese il 1° Novembre, con un autocarro carico di rifornimenti (“cibi, abiti e medicinali”, egli scrive) che andava alla città di frontiera ungherese di Sopron direttamente da Zurigo, in Svizzera.
Giunti al confine, racconta Schmid:

“Le guardie di frontiera ungheresi non si diedero neppure la pena di gettare uno sguardo dentro il camion, ancor meno di controllare il passaporto”.
Da quella frontiera poteva passare di tutto!
Non solo è certo che un flusso di fascisti e altri reazionari emigrati dilagò al di là della frontiera ungherese dopo il 23 Ottobre, ma è anche impossibile dubitare che il fenomeno non abbia avuto essenzialmente un carattere organizzato; è evidente che esso sia stato coordinato da una unica centrale superiore facente capo alla CIA statunitense (un coordinamento che per tutta la storia della seconda metà del ‘900 non si farà mai mancare, Gladio e “Stay Behind” vi dicono qualcosa?).

Inoltre va notato che per una “strana” coincidenza, praticamente tutti i capi reazionari in esilio dell’Europa orientale domiciliati a Washington sono partiti per Parigi immediatamente prima della controrivoluzione ungherese.

Ci sono, fra i vari, il polacco Mikolajczyk, il cecoslovacco Osusky e il golpista Ferenc Nagy (nessuna parentela con Imre, ex Primo Ministro, cercò di contrastare la crescita del consenso verso i comunisti con un colpo di stato, miseramente fallito, in combutta con la CIA e il Vaticano).
È un fatto che essi si riunirono in assemblea plenaria alla metà di Ottobre a Parigi.
È certo anche che essi si incontravano come membri del “Comitato Centroeuropeo” di capi di partiti reazionari e anticomunisti e che il loro obbiettivo dichiarato era la distruzione del socialismo.
È certo infine che Ferenc Nagy era il presidente di questo comitato sostenuto e finanziato dalla CIA americana e integrato nella struttura segreta NATO.
Sembra dunque inconcepibile che questo comitato, nel momento in cui si riuniva a Parigi a metà ottobre , non fosse connesso in qualche modo oscuro e profondo con gli avvenimenti che stavano destabilizzando l’Europa orientale. Si sa che Ferenc Nagy, a Parigi il 28 Ottobre, dichiarò di “esser pronto a tornare in patria per mettersi alla testa di un nuovo regime anticomunista” annunciando che il mattino successivo si sarebbe recato a Vienna e “di lì proseguirà per il confine ungherese” dove “dovrebbe incontrarsi coi capi degli insorti” (dal New York Times del 29 Ottobre 1956).
Chi egli sia poi riuscito a incontrare (F. Nagy giunse fino alla città ungherese di Gyor) e se sia venuto a capo di qualcosa e come, resta a tutt’oggi ignoto.
Un altro dato certo è che gli Absburgo, che cominciarono a trasmettere i loro proclami dalla Spagna franchista, e gli Horthy (padre e figlio) che facevano lo stesso dal Portogallo salazarista, entrarono in azione, insieme ai loro seguaci.

Loro stessi o i loro rappresentanti apparvero a Parigi e Vienna negli ultimi giorni d’Ottobre, e non si può dubitare che vi venissero per incoraggiare e sostenere azioni dirette a una restaurazione monarchica e fascista in Ungheria. I giornali europei di tutti gli orientamenti politici diedero notizia molto francamente dell’addestramento e spedizione in Ungheria di paramilitari hortysti ed ex Croci Frecciate, a cominciare dal viennese Oesterreichische Volksstimmeche il 30 Ottobre parlava di “centri di comando ben stabiliti nelle zone di confine”, dove agenti di Horthy e altri reazionari magiari “hanno passato la frontiera in questi giorni per unirsi, a quanto essi stessi affermano, agli insorti in patria”. Il giorno successivo la Agence France Presse comunicava:
“Si conferma che nella Germania occidentale si apprestano febbrilmente formazioni militari, allo scopo di prendere misure politiche le cui conseguenze andranno molto lontane”.
L’agenzia informava poi che questi gruppi militari erano legati a membri del partito nazista delle “Croci Frecciate” e “con gli ultranazionalisti che si trovano in Austria”. Il campo profughi di Traunstein, nella Germania occidentale, ospitava in buona parte degli svevi ungheresi (germanofoni di cui molti collaborazionisti dell’occupante hitleriano nel 1944) e ed ex soldati di Szalasi: il 24 ottobre costoro cominciarono ad abbandonare il campo diretti in Ungheria, e le partenze continuarono per altri quattro giorni.
A quanto riferiva la Berliner Zeitung del 20 Novembre, il loro compito principale era quello di “indurre a sollevarsi la minoranza nazionale” (sveva, NDA) ”in Ungheria” che nel 1956 contava circa 300.000 individui. Non solo rifornimenti e combattenti furono spediti in Ungheria da occidente ma anche altro materiale “speciale”.
I manifestini in lingua russa che apparvero a Budapest negli ultimi giorni che facevano appello ai soldati dell’armata rossa perché rivolgessero le armi contro i loro ufficiali (uno stupido invito che naturalmente non ebbe alcun seguito) furono stampati a Milano prima di essere introdotti in territorio ungherese.
In un discorso pubblico fatto a Milano il 20 Gennaio 1957 Palmiro Togliatti fece menzione di questi manifestini e dichiarò: “…ebbene. Sapete da che parte vengono questi manifestini?
Vengono da Milano…  L’Avanti!ha già pubblicato che in un campo presso Lodi è stato trovato un gran pacco pieno di questi manifestini.
Ma i nostri compagni hanno anche scoperto che vi è una tipografia a Milano dove si stampavano questi foglietti, in carattere cirillico, a decine di migliaia di esemplari in cui si incitava alla ribellione nelle file dell’esercito sovietico.  Potrei fornire il nome della tipografia, l’indirizzo e il nome del proprietario …” (da l’Unità del 21 Gennaio 1957).


– La sconfitta della controrivoluzione

Dal 1° Novembre istituzioni provinciali della Repubblica Popolare d’Ungheria (tranne quelle sciolte dalla controrivoluzione tra il lago Balaton, il fiume Danubio e la frontiera austriaca) , una dopo l’altra, si dissociano, disconoscendolo, dal governo illegittimo di Imre Nagy.
Gli operai, i contadini e gli intellettuali chiedevano a maggioranza nelle assemblee di base della democrazia popolare, in tutta l’Ungheria libera dalla reazione, che si ponesse fine ai massacri e alla controrivoluzione che imperversava nella capitale e nelle province occidentali (dove contadini in armi resistevano in difesa delle cooperative agricole assaltate e incendiate dalle squadracce controrivoluzionarie e dove a Budapest gli operai dei quartieri industriali che difendevano le loro fabbriche erano i primi ad essere massacrati dai controrivoluzionari).

Il 3 Novembre nella città di Szolnok si formò così, composto dai rappresentanti provinciali delle istituzioni, dell’esercito e del partito, un Comitato Rivoluzionario Nazionale degli Operai e dei Contadini (alla cui presidenza si pose Ferenc Münnich) che, costatato lo scioglimento de facto del parlamento, chiamava il Segretario Generale del Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi, Janos Kadar (che aveva abbandonato il governo Nagy per le sue posizioni sempre più apertamente anticomuniste inaccettabili anche per un revisionista titoista come lui), a formare un governo d’emergenza che fosse l’unica legittima guida della democrazia popolare ungherese.
A Mezzogiorno del 3 Novembre Ferenc Münnich annuncia alla radio la formazione del Comitato Rivoluzionario Nazionale degli Operai e dei Contadini:
“Non potevamo più assistere allo spettacolo dei terroristi e dei banditi controrivoluzionari che assassinavano bestialmente i nostri fratelli operai e contadini, tenevano nel terrore i pacifici cittadini ungheresi, trascinavano il nostro paese nell’anarchia, e gettavano tutta la nazione sotto il giogo della controrivoluzione per lunghi anni a venire”; “le nostre conquiste socialiste, la nostra democrazia popolare, il nostro potere operaio e contadino, la sovranità stessa del nostro paese sono in grave pericolo!”.
Nella notte tra il 3 e il 4 Novembre a Szolnok si forma così il Governo Rivoluzionario degli Operai e dei Contadini (come unico governo legittimo della Repubblica Popolare d’Ungheria) che da ordine immediato ai reparti lealidell’Esercito Popolare Ungherese di liberare la capitale e tutta l’Ungheria dall’occupazione delle bande controrivoluzionarie avanzando la stessa richiesta a tutti paesi aderenti al Patto di Varsavia.
Nella stessa notte il Ministro della Difesa del governo illegittimo di Nagy, il golpista Pal Maleter, viene arrestato da un reparto dell’esercito ungherese (leale al Comitato Rivoluzionario di Szolnok) mentre era di ritorno a Budapest da Tököl dove aveva negoziato coi capi militari sovietici il ritiro completo delle truppe dell’armata rossa dall’Ungheria.
Il 4 Novembre, le unità dell’armata rossa ritornano a Budapest con forze più grandi e con maggiore decisione di quello che era avvenuto il 24 Ottobre. Sebbene non si conosca l’estensione delle forze impiegate, la loro natura e il loro modo di operare sono però abbastanza chiari.
I sovietici impiegarono soltanto mezzi corazzati meccanizzati: non furono usate forze aeree e nessun contingente di fanteria (la fanteria era coperta interamente da reparti dell’esercito ungherese che operarono al seguito dei carri armati sovietici).

I mezzi corazzati, essenzialmente carri armati di media portata, condussero una battaglia di risposta, non di attacco attivo: dove gruppi di controrivoluzionari resistevano sparando, i carri armati rispondevano al fuoco finché la resistenza fosse cessata.  Non ci fu un ordine generale di fuoco, né un intervento sistematico dell’artiglieria. Fuori Budapest vennero impiegati mezzi e tattiche simili: qui, essenzialmente, furono occupati i nodi e le arterie principali di comunicazione, e contemporaneamente, venne arrestata l’infiltrazione di gruppi avversari e rifornimenti militari attraverso il confine occidentale.

Nonostante che buona parte della stampa e degli organi di informazione occidentali abbia riferito storie sensazionali di grosse battaglie, la verità appare molto più modesta: non vi fu nulla che potesse essere definito come una battaglia decisiva, le devastazioni non furono gravi e limitato rimase il numero delle vittime.
Dopo circa 15 ore, era praticamente cessata ogni forma organizzata di resistenza controrivoluzionaria: nello spazio di circa una settimana tutte le operazioni armate erano terminate in ogni parte del paese.
Se si tiene conto che l’intervento dell’armata rossa pose fine al terrore bianco e ai pogrom e salvò centinaia di persone già destinate alla tortura e all’esecuzione, appare probabile che il numero delle vite perse nei combattimenti di quella settimana non sia stato più grande di quello delle vite così risparmiate, per non parlare delle perdite che sarebbero derivate da una guerra civile su larga scala!
Forse l’unica testimonianza direttamente accessibile, di fonte non-comunista, e capace di dare qualche senso della realtà, dal punto di vista militare, delle forze sovietiche entrate in azione il 4 Novembre, ricorre nell’articolo di Peter Schmid sulla rivista Commentary del 17 Novembre 1956.  Il 6 Novembre, Schmid racconta, “mi avventurai a uscire” per le vie di Budapest, e “trovai che i danni erano   sorprendentemente lievi anche nelle aree dove si erano svolti direttamente gli scontri”.
E “nelle vie secondarie, la vita continuava proprio come al solito”. Schmid ebbe “l’impressione che il comando russo non volesse prendere le cose di petto a Budapest”, e di più, che “la visibile esitazione del comando sovietico a lanciare una azione a fondo era nulla in confronto alla riluttanza del singolo soldato russo a sparare su civili indifesi”. Da questi fatti, in parte, Schmid è condotto alla conclusione che “le perdite degli insorti durante la battaglia vera e propria furono infinitamente minori delle valutazioni esagerate apparse sulla stampa mondiale.
Non saprei sottolineare abbastanza la necessità di toglier fede alle macabre storie di montagne di cadaveri e di sangue corrente a rivi nei rigagnoli di Budapest, con cui i giornalisti affamati di sensazionale hanno riempito le loro corrispondenze”.

– Epilogo dei fatti d’Ungheria


Dal 23 Ottobre al 1° Dicembre, gli ospedali di Budapest registrano poco meno di 13.000 pazienti curati per ferite; i corpi di combattenti (escluse le perdite causate dal terrore bianco) controrivoluzionari, militari rivoluzionari ungheresi e sovietici trovati morti sul campo ammontano a circa 2000.
Delle perdite fuori la capitale non ci sono state fatte stime anche se esse furono quasi certamente più lievi che a Budapest.  Stime approssimative portano a circa 22.000 le vittime del terrore fascista dei controrivoluzionari.  Fra loro comunisti, antifascisti ed ebrei.

Il cardinal Mindszenty, che della controrivoluzione divenne la “figura morale”, trovò asilo politico nell’ambasciata americana di Budapest ossia il quartier generale della controrivoluzione.
Vi rimase fino al 1971 quando, con la mediazione di Nixon, poté raggiungere Roma e poi Vienna dove morì sotto i ferri il 6 Maggio 1975.
Imre Nagy e altri ministri del suo sciagurato governo illegittimo e golpista trovarono rifugio nell’ambasciata jugoslava e poi poterono recarsi a Snagov, in Romania, in semilibertà vigilata in attesa di riabilitazione.  Sì, proprio così.
Dato che sui fatti dell’Ottobre-Novembre del 1956 non avevano la coscienza pulita ne Kadar ne altri suoi collaboratori revisionisti, questi fecero di tutto per evitare un processo a Nagy e per evitare quindi che l’istruttoria e il dibattimento li coinvolgesse direttamente.
Ma, per tutto il 1957, manifestazioni di massa in tutta l’Ungheria chiesero che Nagy (e i suoi compari) fosse pubblicamente processato per la sua complicità attiva con la controrivoluzione del 1956 che tanti lutti procurò a non poche famiglie ungheresi.
Nonostante le continue dimostrazioni della volontà popolare solo col Governo del revisionista Ferenc Münnich (succeduto al “sordo” Kadar il 27 Gennaio 1958) Nagy verrà estradato dalla Romania e processato coi suoi accoliti il 10 giugno 1958 ma non pubblicamente bensì a porte chiuse (per tranquillizzare Kadar ed altri). Il 15 giugno Nagy, Maleter & C. verranno condannato a morte per alto tradimento e impiccati all’alba del giorno seguente.  Giustizia fu fatta! (nonostante tutto!). Questa la verità sui fatti d’Ungheria!
https://paginerosse.wordpress.com/2013/06/01/giovanni-apostolou-la-verita-sui-fatti-dungheria-del-1956/

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