Il
compagno (ed amico, non ne dubitiamo) Dino Erba ci ha trasmesso un suo intervento avverso ad
un certo Corrado Basile colpevole di “negazionismo” per aver ospitato nelle sue fu-edizioni
Graphos dei testi negazionisti in merito alla questione ebraica sottoposta alla dura repressione
hitleriana. In poche parole: il suddetto Basile avrebbe accreditato la leggenda che Hitler non
avrebbe fatto altro che “eliminare i pidocchi” di cui gli ebrei nei lager erano colpiti con
un’opportuna disinfestazione “chimica” senza alcun ricorso all’eliminazione fisica, via cremazione,
di costoro. Tra i testi incriminati troviamo Rassinier, Faurisson, Mattogno e il “bordighista”
Saletta. E questa sarebbe la pietra dello scandalo.
Precisiamo subito che noi non nutriamo alcuna simpatia, né politica né umana, nei confronti del signor Basile, i cui tratti antimarxisti Dino Erba ha bene evidenziato in una impeccabile recensione ad un suo recente lavoro su Bordiga su cui c’è veramente poco da aggiungere.
Ma l’evocazione del “negazionismo” di cui costui sarebbe colpevole ci lascia quantomeno perplessi, anche e soprattutto perché la questione dell’eliminazione degli ebrei tramite le camere a gas desta effettivamente molti interrogativi e chi si è industriato a negarla non può essere classificato a priori come un falsificatore della storia ed il ricorso alla ricerca storica sul tema ha dei suoi punti di forza, a prescindere dal fatto che l’antisemitismo hitleriano sia un fatto assodato, ed orrendo. Così come è altrettanto assodato che il sionismo abbia giocato su questo tema per farne un’“industria” ai propri fini, non precisamente di ricerca della verità storica (e qui ci richiamiamo ad un testo di autore ebreo tutt’altro che dubitabile).
Solo dei cretini, o mascalzoni (o bis in idem) potrebbero negare la realtà della feroce ondata antisemita hitleriana, anche se di qui all’ipotesi della “soluzione finale” tramite le camere a gas ce ne corre. L’hitlerismo aveva certamente al proprio centro la questione dell’antiebraismo nella maniera vomitevole e criminale che sappiamo. In ciò esso ereditava una “tradizione” antiebraica precedente ben sistematizzata a pro dell’ideologia e della pratica naziste. L’ebraismo in Germania figurava agli occhi del nazismo come un duplice pericolo al regime: quello “capitalista” (extra ed antinazionale) e quello bolscevico. Gli ebrei, come “razza”, risultavano nemici del regime sia sul versante borghese antinazionale sia su quello dell’eversione marxista (e qui non serve citare la caterva di nomi di militanti della nostra causa, a cominciare dall’indimenticabile Rosa Luxemburg ammazzata dai... socialdemocratici, “antisemiti” in quanto anticomunisti per definizione).
C’era del vero in entrambe queste dichiarazioni: in effetti esisteva una borghesia ebraica per sua natura troppo “cosmopolita” per piegarsi al controllo totalitario dello stato nazional-razziale tedesco e, sul fronte opposto, una massa di proletari ed altri strati non sfruttatori ebraici che guardava al socialismo ed in mezzo una pletora di piccola borghesia ebraica “traffichina” sentita da strati vieppiù crescenti di popolazione tedesca, specie nella situazione di crisi del primo dopoguerra, come concorrente ed “espropriatrice” rispetto ai propri interessi. Su ciò s’innestava la propaganda (e l’azione diretta, quanto mai infame) dell’hitlerismo interessata a coprire del comodo manto razziale una questione attinente agli interessi del capitalismo nazionale su tutti i versanti utili: economico, politico, sociale.
Non occorrerà ricordare tutte le varie tappe della persecuzione degli ebrei già prima dello scoppio della seconda guerra mondiale anche se andrebbe detto qualcosa di più sull’atteggiamento della difesa dell’ebraismo da parte delle varie componenti della variegata, contraddittoria ed antagonista “popolazione ebraica” in Germania che non lo vide affatto unitario ed univoco: anche qui borghesi da una parte proletari dall’altra, per non accreditare – sia pure a rovescio – l’equivoco nazista su un presunto ebraismo monocefalo (ridicolmente e criminalmente ripreso in Italia dalla Vita italiana del Preziosi). Con l’approssimarsi della seconda guerra mondiale due vie dovevano manifestarsi divaricate in seno alla “comunità ebraica”: quella proletaria tesa, sino al definitivo schiacciamento (grazie anche ed in primis della socialdemocrazia e poi, per altra strada, dello stalinismo), a posizionarsi sul terreno rivoluzionario e quella della grande borghesia ebraica oggettivamente legata agli interessi delle forze statali capitalistiche antitedesche.
Due pietre d’inciampo per il capitalismo tedesco cui il nazismo offrì la soluzione che ben sappiamo del metterle assieme con la deportazione comune (ma quale parte ne pagò il prezzo intiero?) nei campi di concentramento in vista della cosiddetta “soluzione finale” del problema. Ma si trattava veramente di una “soluzione finale” di sterminio globale programmato? E’ lecito dubitarne vista la documentazione esistente in merito al piano nazista di “trasferimento” della popolazione ebraica nel Madagascar od altrove riaffermato nel corso della guerra (il che spiegherebbe le ragioni della concentrazione della popolazione ebraica in un unico centro di eventuale smistamento), ed anche quella dell’offerta agli stati “democratici” anti-Asse di prendersi in carico questa “marmaglia” (offerta precipitosamente rifiutata dai suddetti), mentre, nel frattempo, si era interessati a mantenere al massimo (nelle condizioni inumane che sappiamo, per altro comuni a tutti gli altri internati) la risorsa di una manodopera tutt’altro che da gasare a costi vicini allo zero per le necessità industriali, e di guerra, “nazionali”. Ed anche ai più ortodossi storici della shoah resta difficile da spiegare l’assenza di una reazione nei lager in cui quotidianamente e sistematicamente si sarebbe consumata la tragedia delle cremazioni di massa quando la Comune ebraico-proletaria di Varsavia mostrava che resistenza jusq’au bout poteva esserci.
Dopo di che sarebbero venute le camere a gas per liberarsi delle “eccedenze” inutilizzabili a tali scopi. Di sicuro è che nelle condizioni determinatesi specialmente negli ultimi due anni di guerra le morti degli internati – di qualsiasi razza e colore – si sono tragicamente moltiplicate e questa sorte ha tragicamente toccato tutti essi come si può, ad esempio, facilmente constatare dando una scorsa agli elenchi degli scomparsi nei lager degli stessi italiani ivi presenti per malattie e denutrizione. E che, in questa condizione, una sorte meno benigna sia toccata alla “feccia” ebraica è senz’altro scontato.
Altra è la questione delle vere e proprie camere a gas di sterminio programmato su cui è ben strano che dalla parte delle “democrazie” (ed anche da parte di certi settori borghesi ebraici) non ci sia stato un avvertimento ed un’attenzione a tempo debito, così come è certo che la “bibliografia” su di esse risulta piuttosto tardiva ed in crescita esponenziale (e sospetta), a numeri moltiplicati via via post festum, così come è espunta dalla bibliografia ufficiale qualsiasi accenno all’atteggiamento pilatesco, quando va bene, delle “democrazie antifasciste” di fronte alla questione ebraica (Poliakov accenna perlomeno all’ostilità – per usare un eufemismo – dei bravi cattolici antinazisti polacchi nei confronti degli stessi resistenti ebrei; e resta da scrivere una pagina chiara sull’isolamento ed abbandono della Comune di Varsavia da parte dei futuri “liberatori” fermi a pochi passi da lì senza muovere un dito).
Anche ad una lettura superficiale scorrendo i vari testi sullo sterminio programmato degli ebrei (vedi per tutti il libro di Leon Poliakov) ci si imbatte in numerose contraddizioni in merito, il che – sia ben chiaro – nulla toglie alla barbarie consumatasi da parte tedesca nel corso di questa guerra (che sarebbe comunque indegno di un marxista imputare al solo nazifascismo – come anche Trotzkij, nel suo ultimo documento programmatico, ebbe giustamente a sottolineare; e senza dimenticare gli orrori perpetrati dalla parte “buona” del fronte di guerra).
In buona sostanza: nei lager tedeschi si è consumata una shoah generalizzata della popolazione internata, ebraica, zingara, italiana, tedesca etc. che non ha risparmiato nessuna delle parti in causa, sia per eventi “naturali” sia per interventi di sterminio a carico di “eccedenza umana inservibile” o di oppositori del regime di ogni specie (si pensi solo alla sorte riservata ai Testimoni di Geova o ad alcuni religiosi protestanti o cattolici non “in riga”, per non parlare dei comunisti) anche senza dover tirare in ballo la questione, tuttora controversa, delle camere a gas su cui nel tempo si è innestata quella che un certo autore ebreo ha qualificato come “l’industria della shoah”.
Dove starebbe, a questo punto, il “negazionismo”? Per noi nel minimizzare la questione del macello determinato, su tutti i fronti, da una guerra che va imputata “equamente” alle varie e contrapposte parti imperialiste in causa e nella sua riduzione all’esclusivo tema ebraico. Negazionismo vero sarebbe dimenticare tutti i tasselli di questa immane tragedia di cui fanno parte, ad esempio, Hiroshima e Nagasaki (che una certa propaganda USA è addirittura arrivata a giustificare come misura “umanitaria” per por fine alla guerra nei migliori tempi utili), Dresda, i campi d’internamento dei militari tedeschi con quasi un milione di morti a partire dal ’45! –, le gesta degli ustascia e quelle dello stalinismo “liberatore dal nazifascismo” nelle sue aree d’intervento.
A questa stregua, e solo a questa stregua, è ammissibile una ricerca storica riguardante anche la vexata quaestio delle camere a gas, su cui non è legittimo alcun divieto preventivo. Altro sarebbe ovviamente una qualche assoluzione o minimizzazione delle responsabilità del nazismo e su questo possiamo benissimo ammettere certe preoccupazioni di cui il Dino Erba si fa mentore.
L’attuale tentativo di introdurre il criterio di un certo “negazionismo” sotto la specie di una sorta di delitto punibile a suon di articoli di legge ha tutt’altro significato. Si tratta, né più né meno, di ridurre la questione della seconda guerra mondiale a criteri consoni alle “verità” dei vincitori e di predisporre il terreno della propaganda ad una mobilitazione sciovinista di guerra per le future evenienze, od anche a quelle già in corso, d’interventismo militare “buono” da parte del nostro imperialismo.
Di recente il “nostro” parlamento ha votato delle disposizioni in tal senso senza che quasi nessuno abbia manifestato un segno di dissenso (tra le pochissime eccezioni ricordiamo un bell’articolo apparso sul Manifesto da parte di una compagna che ha ben colto nel segno): si comincia dal reato di negazionismo per l’Olocausto e si finisce fatalmente nell’obbligo di adesione a qualsivoglia “verità” istituzionale imposta per legge e domani, chissà, il semplice richiamo al comunismo potrebbe diventare “corpo di reato”, così come hanno statuito i governi di Varsavia e Kiev invocando a giustificazione i crimini dello stalinismo su cui non è lecito alcun negazionismo neanche da parte di chi rivendica le ragioni del comunismo contro lo stalinismo.
Stando alla legge “antinegazionista” che il legislatore si appresta a varare il “negazionismo” diventa reato anche laddove lontanissimo da ogni velleità di riabilitazione del nazifascismo e ne è vietata ogni ricerca storica preoccupata di accertare i fatti per quel che essi realmente sono, o si suppone essere (il famoso diritto all’opinione in nome dell’inopinabile “verità” di stato). E, sulla scia della shoah, si stabilisce che ciò si applica anche a chi osa mettere in dubbio il tema delle “foibe” titine. E siccome, per nostra fortuna, qui da noi c’è chi in maniera documentatissima ha smantellato la favola del “genocidio italiano” ad opera dei “comunisti” di Tito ridimensionando totalmente le cifre inventate dalla propaganda sciovinista italiana ed inquadrando le – tutto sommato limitate – vicende (reali) esistite nel loro esatto quadro storico di risposta alle atrocità italiane (si pensi all’ormai ricca bibliografia sui nostrani campi di concentramento per gli odiati slavi e sul rimprovero alle nostre truppe perché “si ammazza troppo poco”), non resta che invocare il bavaglio “antinegazionista”! Operazione in cui si è ben distinta una certa sinistra di ex-picisti pentiti e in vena di dichiarare “non siamo mai stati comunisti”, a cominciare da un certo ex-presidente della Repubblica che pure aveva a suo tempo inneggiato al glorioso Tito e abbondantemente pranzato alla sua tavola. Gli italiani, brava gente per definizione, fascisti od antifascisti poco importa, genocidizzati dai comunisti slavi (barbaro di per sé il binomio). Noi ci limitiamo qui a riprodurre un nostro intervento in materia su cui meriterà discutere, e ci duole che anche il non sprovveduto Dino Erba si sia lasciato a suo tempo andare a sottoscrivere la vulgata... revisionista che tanto piace ai nipotini del Duce in buona compagnia col PD di Renzi. Quindi: dopo la giornata del ricordo per la shoah abbiamo quella del ricordo obbligatorio, con insegnamento tassativamente prescritto per le nostre scuole d’obbligo, dei “martiri delle foibe” cui aggiungere quella dell’esodo istriano-dalmata e del caso-Porzus.
In un bel libro recentissimo (Fenomenologia di un martirio mediatico, Udine, Kappa Vu, richiedibile via telefax al n. 0432 530540) un giovane studioso, Federico Tenca Montini, ha ben riassunto le vicende che hanno portato “da sinistra” alla “giornata del ricordo” dopo che il tema-foibe, messo in atto prima dai nazisti e dai repubblichini aveva vissuto una vita abbastanza grama sino ai primi anni novanta quale pura propaganda di parte “nostalgica” presa poco sul serio da tutti gli studiosi degni di tal nome e con l’ovvia moltiplicazione delle presunte vittime da ricordare (passate da qualche centinaio alle 17.000 calcolate dal missino Menia e con l’ovvia possibilità di ulteriori aggiunte, speriamo non sino ai 6 milioni degli ebrei):
“Nei primi anni Novanta non si può parlare di una strategia mediatica vera e propria (...) La presenza stabile delle foibe nel Pantheon dei miti nazionali sarebbe andata strutturandosi solo negli anni successivi, soprattutto grazie alla disponibilità del partito principale della sinistra di allora. (..) I dirigenti postcomunisti del PDS, giunti finalmente al governo nel 1996 dopo la rovinosa caduta del primo governo Berlusconi, avvertirono il bisogno di sottolineare la propria adesione all’agenda patriottica della nuova stagione politica in modo più efficace di quanto fatto fino allora, e cercarono al contempo una cesura rispetto ai trascorsi ideologici del proprio partito più convincente degli interventi cosmetici intervenuti sul simbolo del partito. Le foibe erano perfette per servire ad entrambi gli scopi: erano ancora presenti all’attenzione del pubblico dopo i recenti clamori e permettevano di condannare crimini superficialmente riconducibili all’ideologia comunista, scaricando al contempo la responsabilità delle violenze su di un nemico definito da clichés razzisti, in modo da deviare sugli “slavi” gli attacchi mossi da destra ai meriti della Resistenza italiana. (..) Il pretesto per il solenne mea culpa della sinistra venne nel ’96 dalle inchieste per una serie di processi istruiti a Roma all’inizio del decennio contro i presunti colpevoli di alcune uccisioni. Sull’argomento s’infiammò un intenso dibattito nel corso del quale le foibe vennero accostate sistematicamente all’Olocausto. La stura fu data a sinistra dal dirigente del PDS triestino Stelio Spadaro e portò all’incontro del 14 marzo 1998, svoltosi a Trieste e promosso dall’ateneo locale, tra gli onorevoli Luciano Violante e Gianfranco Fini in cui le foibe furono equiparate alla Risiera di San Sabba”.
Da qui all’istituzione della giornata del ricordo il passo è stato breve ed ha segnato l’avvio di quello che, renzianamente, possiamo definire il “partito unico della nazione” in cui destre e sinistre si ritrovano assieme nel rivendicare i comuni interessi patrii (cioè: borghesi, imperialisti). Nel bel mezzo si era già consumata la “soluzione finale” decretata da entrambi per la questione jugoslava!
Una modesta appendice a tutto ciò è quella dell’“eccidio di Porzus” a carico dei “resistenti” osovani. I quali, come risulta da un accurato studio pro-repubblichino, avevano il merito di contrapporsi all’avanzata “comunista-slava” collaborando, alla bisogna, con repubblichini e nazisti come portabandiera degli interessi nazionali italiani contro gli “slavi” di comune accordo con i “patrioti” fascisti e gli stessi nazisti, cui poco importava della causa “nazionale” italiana, ma comunque interessati a far fronte alla resistenza antitedesca titina. Una recente pubblicazione “privata” e semi-clandestina ha messo nero su bianco, con documentazione inoppugnabile, tutto ciò senza alcun turbamento da parte della nostrana “sinistra”: gli osovani restano comunque “il nostro fronte di lotta patriottico” contro il nemico “slavo-comunista”. Da questo punto di vista osiamo ritenere che stavano più a sinistra i “fascisti rossi” alla Stanis Ruinas preconizzatori di un’”unità nazionale” tra fascisti e resistenti partigiani di “sani interessi nazionali” per fronteggiare assieme sia la “minaccia slava” che quella del predominio dittatoriale anglo-americano sul “nostro paese”.
Quanto all’esodo ci sarà altra occasione di parlarne, non sottacendo le responsabilità di un certo revanscismo nazionalista jugoslavo, ma da mettere assieme allo studio sulla composizione politico-sociale di certa presenza italiana importata come nazione dominante e slavofoba in Istria e Dalmazia e senza mai dimenticare il nefasto ruolo giocato dallo stalinismo di Mosca e Roma con la condanna del “titofascismo” nel ’48, che doveva annichilire il risultato di quella che era stata, bene o male (niente a che fare col comunismo!) l’unità antifascista italo-slava. De Gasperi e Palmiro giocarono qui di conserva senza che noi, comunisti internazionalisti, fossimo in grado di... esodarli.
Naturalmente il tema antinegazionista non vale per operazioni di peace-keeping (come si usa dire secondo il neovocabolario orwelliano) di cui il nostro paese ha fatto parte, per limitarci agli ultimi tempi, dalla Jugoslavia all’Iraq ed all’Afghanistan sino alla Libia per liberare – così si dice-quella gente dalle tirannie ed esportar loro la nostra “democrazia”. E, stando così le cose, che peso possono avere le centinaia di migliaia di vittime del nostro fuoco amico al netto di foibe e camere a gas? Poi ce la prenderemo con fenomeni quali quello dell’ISIS, frutto diretto di simili operazioni “liberatrici”, ed invocare ulteriori interventi in un’area che per l’imperialismo occidentale rappresenta il giardino di casa, il dovuto posto al sole (il che equivale, per le popolazioni locali, a un posto sotto terra o alla riduzione al ruolo di nostri schiavi). Nessuna “giornata del ricordo” e della riflessione critica – anzi: Verboten! – su tutto ciò, salvo che per noi comunisti che quotidianamente ce ne ricordiamo egualmente e lavoriamo a presentarne il conto a chi di dovere!
18 aprile 2015
http://www.nucleocom.org/archivio/archivionote/negazionismo.htm
Precisiamo subito che noi non nutriamo alcuna simpatia, né politica né umana, nei confronti del signor Basile, i cui tratti antimarxisti Dino Erba ha bene evidenziato in una impeccabile recensione ad un suo recente lavoro su Bordiga su cui c’è veramente poco da aggiungere.
Ma l’evocazione del “negazionismo” di cui costui sarebbe colpevole ci lascia quantomeno perplessi, anche e soprattutto perché la questione dell’eliminazione degli ebrei tramite le camere a gas desta effettivamente molti interrogativi e chi si è industriato a negarla non può essere classificato a priori come un falsificatore della storia ed il ricorso alla ricerca storica sul tema ha dei suoi punti di forza, a prescindere dal fatto che l’antisemitismo hitleriano sia un fatto assodato, ed orrendo. Così come è altrettanto assodato che il sionismo abbia giocato su questo tema per farne un’“industria” ai propri fini, non precisamente di ricerca della verità storica (e qui ci richiamiamo ad un testo di autore ebreo tutt’altro che dubitabile).
Solo dei cretini, o mascalzoni (o bis in idem) potrebbero negare la realtà della feroce ondata antisemita hitleriana, anche se di qui all’ipotesi della “soluzione finale” tramite le camere a gas ce ne corre. L’hitlerismo aveva certamente al proprio centro la questione dell’antiebraismo nella maniera vomitevole e criminale che sappiamo. In ciò esso ereditava una “tradizione” antiebraica precedente ben sistematizzata a pro dell’ideologia e della pratica naziste. L’ebraismo in Germania figurava agli occhi del nazismo come un duplice pericolo al regime: quello “capitalista” (extra ed antinazionale) e quello bolscevico. Gli ebrei, come “razza”, risultavano nemici del regime sia sul versante borghese antinazionale sia su quello dell’eversione marxista (e qui non serve citare la caterva di nomi di militanti della nostra causa, a cominciare dall’indimenticabile Rosa Luxemburg ammazzata dai... socialdemocratici, “antisemiti” in quanto anticomunisti per definizione).
C’era del vero in entrambe queste dichiarazioni: in effetti esisteva una borghesia ebraica per sua natura troppo “cosmopolita” per piegarsi al controllo totalitario dello stato nazional-razziale tedesco e, sul fronte opposto, una massa di proletari ed altri strati non sfruttatori ebraici che guardava al socialismo ed in mezzo una pletora di piccola borghesia ebraica “traffichina” sentita da strati vieppiù crescenti di popolazione tedesca, specie nella situazione di crisi del primo dopoguerra, come concorrente ed “espropriatrice” rispetto ai propri interessi. Su ciò s’innestava la propaganda (e l’azione diretta, quanto mai infame) dell’hitlerismo interessata a coprire del comodo manto razziale una questione attinente agli interessi del capitalismo nazionale su tutti i versanti utili: economico, politico, sociale.
Non occorrerà ricordare tutte le varie tappe della persecuzione degli ebrei già prima dello scoppio della seconda guerra mondiale anche se andrebbe detto qualcosa di più sull’atteggiamento della difesa dell’ebraismo da parte delle varie componenti della variegata, contraddittoria ed antagonista “popolazione ebraica” in Germania che non lo vide affatto unitario ed univoco: anche qui borghesi da una parte proletari dall’altra, per non accreditare – sia pure a rovescio – l’equivoco nazista su un presunto ebraismo monocefalo (ridicolmente e criminalmente ripreso in Italia dalla Vita italiana del Preziosi). Con l’approssimarsi della seconda guerra mondiale due vie dovevano manifestarsi divaricate in seno alla “comunità ebraica”: quella proletaria tesa, sino al definitivo schiacciamento (grazie anche ed in primis della socialdemocrazia e poi, per altra strada, dello stalinismo), a posizionarsi sul terreno rivoluzionario e quella della grande borghesia ebraica oggettivamente legata agli interessi delle forze statali capitalistiche antitedesche.
Due pietre d’inciampo per il capitalismo tedesco cui il nazismo offrì la soluzione che ben sappiamo del metterle assieme con la deportazione comune (ma quale parte ne pagò il prezzo intiero?) nei campi di concentramento in vista della cosiddetta “soluzione finale” del problema. Ma si trattava veramente di una “soluzione finale” di sterminio globale programmato? E’ lecito dubitarne vista la documentazione esistente in merito al piano nazista di “trasferimento” della popolazione ebraica nel Madagascar od altrove riaffermato nel corso della guerra (il che spiegherebbe le ragioni della concentrazione della popolazione ebraica in un unico centro di eventuale smistamento), ed anche quella dell’offerta agli stati “democratici” anti-Asse di prendersi in carico questa “marmaglia” (offerta precipitosamente rifiutata dai suddetti), mentre, nel frattempo, si era interessati a mantenere al massimo (nelle condizioni inumane che sappiamo, per altro comuni a tutti gli altri internati) la risorsa di una manodopera tutt’altro che da gasare a costi vicini allo zero per le necessità industriali, e di guerra, “nazionali”. Ed anche ai più ortodossi storici della shoah resta difficile da spiegare l’assenza di una reazione nei lager in cui quotidianamente e sistematicamente si sarebbe consumata la tragedia delle cremazioni di massa quando la Comune ebraico-proletaria di Varsavia mostrava che resistenza jusq’au bout poteva esserci.
Dopo di che sarebbero venute le camere a gas per liberarsi delle “eccedenze” inutilizzabili a tali scopi. Di sicuro è che nelle condizioni determinatesi specialmente negli ultimi due anni di guerra le morti degli internati – di qualsiasi razza e colore – si sono tragicamente moltiplicate e questa sorte ha tragicamente toccato tutti essi come si può, ad esempio, facilmente constatare dando una scorsa agli elenchi degli scomparsi nei lager degli stessi italiani ivi presenti per malattie e denutrizione. E che, in questa condizione, una sorte meno benigna sia toccata alla “feccia” ebraica è senz’altro scontato.
Altra è la questione delle vere e proprie camere a gas di sterminio programmato su cui è ben strano che dalla parte delle “democrazie” (ed anche da parte di certi settori borghesi ebraici) non ci sia stato un avvertimento ed un’attenzione a tempo debito, così come è certo che la “bibliografia” su di esse risulta piuttosto tardiva ed in crescita esponenziale (e sospetta), a numeri moltiplicati via via post festum, così come è espunta dalla bibliografia ufficiale qualsiasi accenno all’atteggiamento pilatesco, quando va bene, delle “democrazie antifasciste” di fronte alla questione ebraica (Poliakov accenna perlomeno all’ostilità – per usare un eufemismo – dei bravi cattolici antinazisti polacchi nei confronti degli stessi resistenti ebrei; e resta da scrivere una pagina chiara sull’isolamento ed abbandono della Comune di Varsavia da parte dei futuri “liberatori” fermi a pochi passi da lì senza muovere un dito).
Anche ad una lettura superficiale scorrendo i vari testi sullo sterminio programmato degli ebrei (vedi per tutti il libro di Leon Poliakov) ci si imbatte in numerose contraddizioni in merito, il che – sia ben chiaro – nulla toglie alla barbarie consumatasi da parte tedesca nel corso di questa guerra (che sarebbe comunque indegno di un marxista imputare al solo nazifascismo – come anche Trotzkij, nel suo ultimo documento programmatico, ebbe giustamente a sottolineare; e senza dimenticare gli orrori perpetrati dalla parte “buona” del fronte di guerra).
In buona sostanza: nei lager tedeschi si è consumata una shoah generalizzata della popolazione internata, ebraica, zingara, italiana, tedesca etc. che non ha risparmiato nessuna delle parti in causa, sia per eventi “naturali” sia per interventi di sterminio a carico di “eccedenza umana inservibile” o di oppositori del regime di ogni specie (si pensi solo alla sorte riservata ai Testimoni di Geova o ad alcuni religiosi protestanti o cattolici non “in riga”, per non parlare dei comunisti) anche senza dover tirare in ballo la questione, tuttora controversa, delle camere a gas su cui nel tempo si è innestata quella che un certo autore ebreo ha qualificato come “l’industria della shoah”.
Dove starebbe, a questo punto, il “negazionismo”? Per noi nel minimizzare la questione del macello determinato, su tutti i fronti, da una guerra che va imputata “equamente” alle varie e contrapposte parti imperialiste in causa e nella sua riduzione all’esclusivo tema ebraico. Negazionismo vero sarebbe dimenticare tutti i tasselli di questa immane tragedia di cui fanno parte, ad esempio, Hiroshima e Nagasaki (che una certa propaganda USA è addirittura arrivata a giustificare come misura “umanitaria” per por fine alla guerra nei migliori tempi utili), Dresda, i campi d’internamento dei militari tedeschi con quasi un milione di morti a partire dal ’45! –, le gesta degli ustascia e quelle dello stalinismo “liberatore dal nazifascismo” nelle sue aree d’intervento.
A questa stregua, e solo a questa stregua, è ammissibile una ricerca storica riguardante anche la vexata quaestio delle camere a gas, su cui non è legittimo alcun divieto preventivo. Altro sarebbe ovviamente una qualche assoluzione o minimizzazione delle responsabilità del nazismo e su questo possiamo benissimo ammettere certe preoccupazioni di cui il Dino Erba si fa mentore.
L’attuale tentativo di introdurre il criterio di un certo “negazionismo” sotto la specie di una sorta di delitto punibile a suon di articoli di legge ha tutt’altro significato. Si tratta, né più né meno, di ridurre la questione della seconda guerra mondiale a criteri consoni alle “verità” dei vincitori e di predisporre il terreno della propaganda ad una mobilitazione sciovinista di guerra per le future evenienze, od anche a quelle già in corso, d’interventismo militare “buono” da parte del nostro imperialismo.
Di recente il “nostro” parlamento ha votato delle disposizioni in tal senso senza che quasi nessuno abbia manifestato un segno di dissenso (tra le pochissime eccezioni ricordiamo un bell’articolo apparso sul Manifesto da parte di una compagna che ha ben colto nel segno): si comincia dal reato di negazionismo per l’Olocausto e si finisce fatalmente nell’obbligo di adesione a qualsivoglia “verità” istituzionale imposta per legge e domani, chissà, il semplice richiamo al comunismo potrebbe diventare “corpo di reato”, così come hanno statuito i governi di Varsavia e Kiev invocando a giustificazione i crimini dello stalinismo su cui non è lecito alcun negazionismo neanche da parte di chi rivendica le ragioni del comunismo contro lo stalinismo.
Stando alla legge “antinegazionista” che il legislatore si appresta a varare il “negazionismo” diventa reato anche laddove lontanissimo da ogni velleità di riabilitazione del nazifascismo e ne è vietata ogni ricerca storica preoccupata di accertare i fatti per quel che essi realmente sono, o si suppone essere (il famoso diritto all’opinione in nome dell’inopinabile “verità” di stato). E, sulla scia della shoah, si stabilisce che ciò si applica anche a chi osa mettere in dubbio il tema delle “foibe” titine. E siccome, per nostra fortuna, qui da noi c’è chi in maniera documentatissima ha smantellato la favola del “genocidio italiano” ad opera dei “comunisti” di Tito ridimensionando totalmente le cifre inventate dalla propaganda sciovinista italiana ed inquadrando le – tutto sommato limitate – vicende (reali) esistite nel loro esatto quadro storico di risposta alle atrocità italiane (si pensi all’ormai ricca bibliografia sui nostrani campi di concentramento per gli odiati slavi e sul rimprovero alle nostre truppe perché “si ammazza troppo poco”), non resta che invocare il bavaglio “antinegazionista”! Operazione in cui si è ben distinta una certa sinistra di ex-picisti pentiti e in vena di dichiarare “non siamo mai stati comunisti”, a cominciare da un certo ex-presidente della Repubblica che pure aveva a suo tempo inneggiato al glorioso Tito e abbondantemente pranzato alla sua tavola. Gli italiani, brava gente per definizione, fascisti od antifascisti poco importa, genocidizzati dai comunisti slavi (barbaro di per sé il binomio). Noi ci limitiamo qui a riprodurre un nostro intervento in materia su cui meriterà discutere, e ci duole che anche il non sprovveduto Dino Erba si sia lasciato a suo tempo andare a sottoscrivere la vulgata... revisionista che tanto piace ai nipotini del Duce in buona compagnia col PD di Renzi. Quindi: dopo la giornata del ricordo per la shoah abbiamo quella del ricordo obbligatorio, con insegnamento tassativamente prescritto per le nostre scuole d’obbligo, dei “martiri delle foibe” cui aggiungere quella dell’esodo istriano-dalmata e del caso-Porzus.
In un bel libro recentissimo (Fenomenologia di un martirio mediatico, Udine, Kappa Vu, richiedibile via telefax al n. 0432 530540) un giovane studioso, Federico Tenca Montini, ha ben riassunto le vicende che hanno portato “da sinistra” alla “giornata del ricordo” dopo che il tema-foibe, messo in atto prima dai nazisti e dai repubblichini aveva vissuto una vita abbastanza grama sino ai primi anni novanta quale pura propaganda di parte “nostalgica” presa poco sul serio da tutti gli studiosi degni di tal nome e con l’ovvia moltiplicazione delle presunte vittime da ricordare (passate da qualche centinaio alle 17.000 calcolate dal missino Menia e con l’ovvia possibilità di ulteriori aggiunte, speriamo non sino ai 6 milioni degli ebrei):
“Nei primi anni Novanta non si può parlare di una strategia mediatica vera e propria (...) La presenza stabile delle foibe nel Pantheon dei miti nazionali sarebbe andata strutturandosi solo negli anni successivi, soprattutto grazie alla disponibilità del partito principale della sinistra di allora. (..) I dirigenti postcomunisti del PDS, giunti finalmente al governo nel 1996 dopo la rovinosa caduta del primo governo Berlusconi, avvertirono il bisogno di sottolineare la propria adesione all’agenda patriottica della nuova stagione politica in modo più efficace di quanto fatto fino allora, e cercarono al contempo una cesura rispetto ai trascorsi ideologici del proprio partito più convincente degli interventi cosmetici intervenuti sul simbolo del partito. Le foibe erano perfette per servire ad entrambi gli scopi: erano ancora presenti all’attenzione del pubblico dopo i recenti clamori e permettevano di condannare crimini superficialmente riconducibili all’ideologia comunista, scaricando al contempo la responsabilità delle violenze su di un nemico definito da clichés razzisti, in modo da deviare sugli “slavi” gli attacchi mossi da destra ai meriti della Resistenza italiana. (..) Il pretesto per il solenne mea culpa della sinistra venne nel ’96 dalle inchieste per una serie di processi istruiti a Roma all’inizio del decennio contro i presunti colpevoli di alcune uccisioni. Sull’argomento s’infiammò un intenso dibattito nel corso del quale le foibe vennero accostate sistematicamente all’Olocausto. La stura fu data a sinistra dal dirigente del PDS triestino Stelio Spadaro e portò all’incontro del 14 marzo 1998, svoltosi a Trieste e promosso dall’ateneo locale, tra gli onorevoli Luciano Violante e Gianfranco Fini in cui le foibe furono equiparate alla Risiera di San Sabba”.
Da qui all’istituzione della giornata del ricordo il passo è stato breve ed ha segnato l’avvio di quello che, renzianamente, possiamo definire il “partito unico della nazione” in cui destre e sinistre si ritrovano assieme nel rivendicare i comuni interessi patrii (cioè: borghesi, imperialisti). Nel bel mezzo si era già consumata la “soluzione finale” decretata da entrambi per la questione jugoslava!
Una modesta appendice a tutto ciò è quella dell’“eccidio di Porzus” a carico dei “resistenti” osovani. I quali, come risulta da un accurato studio pro-repubblichino, avevano il merito di contrapporsi all’avanzata “comunista-slava” collaborando, alla bisogna, con repubblichini e nazisti come portabandiera degli interessi nazionali italiani contro gli “slavi” di comune accordo con i “patrioti” fascisti e gli stessi nazisti, cui poco importava della causa “nazionale” italiana, ma comunque interessati a far fronte alla resistenza antitedesca titina. Una recente pubblicazione “privata” e semi-clandestina ha messo nero su bianco, con documentazione inoppugnabile, tutto ciò senza alcun turbamento da parte della nostrana “sinistra”: gli osovani restano comunque “il nostro fronte di lotta patriottico” contro il nemico “slavo-comunista”. Da questo punto di vista osiamo ritenere che stavano più a sinistra i “fascisti rossi” alla Stanis Ruinas preconizzatori di un’”unità nazionale” tra fascisti e resistenti partigiani di “sani interessi nazionali” per fronteggiare assieme sia la “minaccia slava” che quella del predominio dittatoriale anglo-americano sul “nostro paese”.
Quanto all’esodo ci sarà altra occasione di parlarne, non sottacendo le responsabilità di un certo revanscismo nazionalista jugoslavo, ma da mettere assieme allo studio sulla composizione politico-sociale di certa presenza italiana importata come nazione dominante e slavofoba in Istria e Dalmazia e senza mai dimenticare il nefasto ruolo giocato dallo stalinismo di Mosca e Roma con la condanna del “titofascismo” nel ’48, che doveva annichilire il risultato di quella che era stata, bene o male (niente a che fare col comunismo!) l’unità antifascista italo-slava. De Gasperi e Palmiro giocarono qui di conserva senza che noi, comunisti internazionalisti, fossimo in grado di... esodarli.
Naturalmente il tema antinegazionista non vale per operazioni di peace-keeping (come si usa dire secondo il neovocabolario orwelliano) di cui il nostro paese ha fatto parte, per limitarci agli ultimi tempi, dalla Jugoslavia all’Iraq ed all’Afghanistan sino alla Libia per liberare – così si dice-quella gente dalle tirannie ed esportar loro la nostra “democrazia”. E, stando così le cose, che peso possono avere le centinaia di migliaia di vittime del nostro fuoco amico al netto di foibe e camere a gas? Poi ce la prenderemo con fenomeni quali quello dell’ISIS, frutto diretto di simili operazioni “liberatrici”, ed invocare ulteriori interventi in un’area che per l’imperialismo occidentale rappresenta il giardino di casa, il dovuto posto al sole (il che equivale, per le popolazioni locali, a un posto sotto terra o alla riduzione al ruolo di nostri schiavi). Nessuna “giornata del ricordo” e della riflessione critica – anzi: Verboten! – su tutto ciò, salvo che per noi comunisti che quotidianamente ce ne ricordiamo egualmente e lavoriamo a presentarne il conto a chi di dovere!
18 aprile 2015
http://www.nucleocom.org/archivio/archivionote/negazionismo.htm
Nessun commento:
Posta un commento