FONTE: AS I PLEASE
Questo articolo è stato pubblicato da Global Research l’8 giugno 2004.Mentre l’America conduce la guerra in Medio Oriente, questo articolo incisivo e frutto di ricerche accurate da parte di Jacques Pauwels fornisce una comprensione storica delle relazioni fra guerra e profitto. (Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova).
Negli Stati Uniti, la Seconda Guerra Mondiale è considerata generalmente come “la buona guerra”. In contrasto con molte delle guerre dell’America, per ammissione generale ritenute perniciose, come le Guerre Indiane, quasi dei genocidi, e come il feroce conflitto nel Vietnam, la Seconda Guerra Mondiale è largamente celebrata come una “crociata”, nella quale gli USA hanno combattuto incondizionatamente dalla parte della democrazia, della libertà e della giustizia, contro le dittature. Non fa meraviglia che il Presidente George W. Bush ami paragonare l’attuale “guerra contro il terrorismo” con la Seconda Guerra Mondiale, insinuando che l’America ancora una volta si colloca dalla parte giusta in un conflitto apocalittico tra il Bene e il Male. Comunque, le guerre mai hanno presentato un lato scuro e l’altro completamente candido, come Mr. Bush vorrebbe farci credere, e questo può applicarsi anche alla Seconda Guerra Mondiale. L’America certamente merita credito per il suo contributo importante alla vittoria, dopo strenua lotta, che alla fine ha arriso agli Alleati. Ma il ruolo delle imprese Americane giocato nella guerra è seccamente sintetizzato dalla dichiarazione del Presidente Roosevelt, per cui gli USA erano un “arsenale democratico”. Quando gli Americani sbarcarono in Normandia nel giugno 1944 e catturarono i primi autocarri, scoprirono che questi veicoli erano forniti di motori prodotti da industrie Americane, come la Ford e la General Motors. (1) Quindi, era accaduto che il sistema industriale e finanziario Americano era stato utilizzato come arsenale del Nazismo. I Fans del Führer Fin dal momento del suo arrivo al potere, Mussolini aveva espresso una grandissima ammirazione verso il sistema delle imprese Americane in una società che aveva definito dal punto di vista statuale come “una bella e giovane rivoluzione”. (2) D’altro canto, Hitler inviava segnali eterogenei. Come le loro controparti Germaniche, gli uomini di affari Americani da molto tempo erano preoccupati per le intenzioni e i metodi di questi parvenus plebei, la cui ideologia veniva definita Nazional-Socialismo, il cui partito, esso stesso, si identificava come un partito dei lavoratori, e che parlava sinistramente di essere portatore di cambiamenti rivoluzionari. (3) Però, alcuni dei leaders di più alto profilo nel sistema d’impresa Americano, come Henry Ford, vedevano con favore e ammiravano il Führer fin dalle prime fasi. (4) Altri ammiratori di Hitler della prima ora erano il barone della stampa Randolph Hearst e Irénée Du Pont, a capo del trust Du Pont, che secondo Charles Higham, avevano “appassionatamente seguito la carriera del futuro Führer già dagli anni Venti” e lo avevano sostenuto finanziariamente. (5) Col passare del tempo, molti dei capitani di industria Americani impararono ad amare il Führer. Si è spesso accennato che l’attrattiva per Hitler era una questione di personalità, materia di psicologia. Si presume che le personalità autoritarie non potevano fare a meno di avere simpatia ed ammirazione per un uomo che predicava le virtù del “principio di supremazia” e metteva in pratica quello che predicava, prima nel suo partito e poi per l’intera Germania. Sebbene citi anche altri fattori, essenzialmente è in questi termini che Edwin Black, autore del libro eccellente sotto vari aspetti “IBM e l’Olocausto”, spiega il caso del presidente dell’IBM, Thomas J. Watson, che aveva incontrato Hitler in parecchie occasioni negli anni Trenta ed era rimasto affascinato dal nuovo regime autoritario della Germania. Ma è nel dominio della politica economica, non della psicologia, che possiamo più proficuamente capire perché il sistema economico ed industriale Americano abbia abbracciato Hitler.
Nel corso degli anni Venti, molte corporations Americane particolarmente importanti avevano goduto di considerevoli investimenti in Germania. Prima della Prima Guerra Mondiale, la IBM aveva insediato in Germania una sua filiale, la Dehomag; negli anni Venti, la General Motors aveva preso il control
lo del più grosso produttore industriale di auto della Germania, la Adam Opel AG; e Ford aveva gettato le basi di un impianto succursale, più tardi noto come la Ford-Werke, a Colonia. Altre compagnie USA contraevano società strategiche con compagnie Tedesche. La Standard Oil del New Jersey — oggi Exxon — sviluppava collegamenti strettissimi con il trust Germanico IG Farben. Dall’inizio degli anni Trenta, una élite di circa venti fra le più grandi corporations Americane, fra cui Du Pont, Union Carbide, Westinghouse, General Electric, Gillette, Goodrich, Singer, Eastman Kodak, Coca-Cola, IBM, e ITT aveva rapporti con la Germania. Per ultimo, molti studi legali Americani, compagnie di assicurazioni e finanziarie, e banche venivano profondamente coinvolte in un’offensiva finanziaria Statunitense in Germania; fra questi, il famoso studio legale di Wall Street, Sullivan & Cromwell, e le banche J. P. Morgan e Dillon, Read and Company, così come la Union Bank di New York, di proprietà di Brown Brothers & Harriman. La Union Bank era intimamente collegata con l’impero finanziario ed industriale del magnate Tedesco dell’acciaio Thyssen, il cui apporto finanziario aveva permesso ad Hitler di arrivare al potere. Questa banca era gestita da Prescott Bush, nonno di George W. Bush. Si suppone che anche Prescott Bush fosse un supporter entusiasta di Hitler, visto che a costui Bush travasava denaro via Thyssen, e in cambio realizzava considerevoli profitti col fare affari con la Germania Nazista; con questi profitti aveva lanciato suo figlio, più tardi divenuto Presidente degli USA, negli affari del petrolio. (6) Le avventure Americane d’oltremare ebbero scarso successo agli inizi degli anni Trenta, visto che la Grande Depressione aveva colpito duramente, in particolare la Germania. La produzione e i profitti erano precipitati in modo pesante, la situazione politica era estremamente instabile, vi erano continuamente scioperi e scontri per le strade fra Nazisti e Comunisti, e molti temevano che il paese fosse maturo per una rivoluzione “rossa”, dello stesso stampo di quella che aveva portato al potere i Bolscevichi nella Russia del 1917. Comunque, sostenuto dalla potenza e dal denaro degli industriali e dei banchieri Tedeschi, come Thyssen, Krupp, e Schacht, Hitler arrivava al potere nel gennaio 1933, e non solo la politica ma anche la situazione socio-economica mutava drasticamente. Improvvisamente, le filiali Tedesche delle corporations Americane cominciarono a mietere profitti. Perché? Dopo la presa del potere da parte di Hitler, i leaders affaristici con attività in Germania trovarono a loro immensa soddisfazione che la cosiddetta rivoluzione Nazista conservava lo “status quo socio-economico”. La stigmate del fascismo Teutonico del Führer, come di ogni altra varietà di fascismo, era reazionaria di natura ed estremamente vantaggiosa per gli scopi dei capitalisti. Portato al potere dagli uomini di affari e dai banchieri Tedeschi, Hitler serviva agli interessi di questi “deleganti”. La sua principale iniziativa era stata di sciogliere i sindacati dei lavoratori e di schiacciare i Comunisti e i tanti attivisti Socialisti, sbattendoli in prigione e nei primi campi di concentramento, che erano stati appositamente impiantati per accogliere la sovrabbondanza di prigionieri politici di sinistra. Queste spietate misure non solo rimossero il timore di un cambiamento rivoluzionario — incarnato dai Comunisti Tedeschi — ma anche castrarono la classe lavoratrice della Germania e la trasformarono in una impotente “massa di seguaci” (Gefolgschaft), per usare la terminologia Nazista, che veniva incondizionatamente messa a disposizione dei datori di lavoro, i Thyssen e i Krupp. Inoltre, le imprese Tedesche, comprese le succursali Americane, anche se non tutte, approfittarono di questa situazione e tagliarono di netto i costi del lavoro. Ad esempio, la Ford-Werke, riduceva i costi del lavoro, dal 15% del volume di affari nel 1933 a solo l’11% nel 1938. (Research Findings, 135–6) L’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen accresceva in modo considerevole la sua redditività poiché, sotto il regime di Hitler, i lavoratori “erano poco più che servi ai quali era proibito non solo scioperare, ma anche cambiare lavoro, costretti a lavorare più duramente e più velocemente, mentre i loro salari erano deliberatamente tenuti ai livelli minimi.” (7) Infatti, nella Germania Nazista, i salari effettivi si erano abbassati rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza erano accresciuti, e non era possibile far parola alcuna di problematiche del lavoro, tanto meno cercare di organizzare uno sciopero, senza che immediatamente si scatenasse una risposta armata da parte della Gestapo, con il risultato di arresti e licenziamenti. Questo è stato il caso della fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nel giugno 1936. (Billstein et al., 25) Come ha scritto dopo la guerra il professore e membro della Resistenza anti-fascista della Turingia, Otto Jenssen, i dirigenti delle imprese della Germania erano felici “che il terrore per il campo di concentramento rendesse i lavoratori Tedeschi docili e mansueti come cagnolini.” (8) I proprietari e i managers delle corporations Americane con investimenti in Germania erano non meno incantati, e se apertamente esprimevano la loro ammirazione per Hitler — come erano usi fare il Presidente della General Motors, William Knudsen, e il boss della ITT Sosthenes Behn — questo avveniva senza alcun dubbio perché Hitler aveva risolto i problemi sociali della Germania in modo tale da creare giovamento ai loro interessi. (9) Depressione? Quale Depressione? Hitler si era accattivato il sistema delle corporations Americane per un’altra ragione veramente importante: aveva fatto apparire, come per magia, la soluzione al problema immenso della Grande Depressione. Il suo rimedio forniva una sorta di stratagemma Keynesiano, tramite commesse statuali per stimolare la domanda, per rimettere in moto la produzione e fare il possibile in favore delle imprese in Germania — comprese anche le imprese di proprietà straniera — per incrementare in modo assoluto i loro livelli di produzione ed acquisire un livello di redditività senza precedenti. Però, quello che lo stato Nazista ordinava all’industria Tedesca era materiale bellico ed era piuttosto chiaro che la politica di riarmo di Hitler avrebbe portato inesorabilmente alla guerra, dato che solo il bottino risultante da una guerra vittoriosa avrebbe permesso al regime di pagare i conti enormi presentati dai fornitori. Già di per sé, il programma di riarmo Nazista si rivelava come una meravigliosa vetrina di opportunità per le imprese fornitrici Statunitensi. Ford pretende che la sua Ford-Werke abbia subito delle discriminazioni da parte del regime Nazista, per il fatto che la proprietà era straniera, ma ammette che per tutta la seconda metà degli anni Trenta la sua filiale di Colonia era stata “formalmente legalizzata dalle autorità Naziste…essendo la sua origine Tedesca” e quindi “con i requisiti per ricevere contratti governativi.” Ford trasse profitto da questa opportunità, anche se le commesse del governo erano quasi esclusivamente per forniture militari. La filiale Tedesca di Ford, la Ford-Werke , che nei primi anni Trenta aveva incassato pesanti perdite, grazie ai contratti lucrativi con il governo, derivati dalla spinta Hitleriana al riarmo, vedeva un aumento spettacolare dei propri profitti annuali, dai 63.000 marchi (RM-Reichsmarks) nel 1935 a 1.287.800 RM nel 1939. (Research Findings, 21) La fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nei pressi di Mainz, mieteva un successo ancora migliore. La sua quota di mercato Tedesco dell’automobile balzava dal 35% nel 1933 a più del 50% nel 1935, e la succursale GM, che aveva perso denaro all’inizio degli anni Trenta, divenne estremamente redditizia grazie al boom economico prodotto dal programma di riarmo di Hitler. Nel 1938 venivano registrati profitti per 35 milioni di marchi RM — quasi 14 milioni di dollari (USA). (Research Findings, 135–6; e Billstein et al., 24) (10) Nel 1939, alla vigilia della guerra, il Presidente della GM, Alfred P. Sloan, pubblicamente motivava il fatto di fare affari nella Germania di Hitler, sottolineando la natura altamente vantaggiosa delle operazioni della GM sotto il Terzo Reich. (11) Ancora un’altra corporation Americana che aveva trovato un filone d’oro nel Terzo Reich di Hitler è stata la IBM. La sua filiale Tedesca, la Dehomag, ha fornito ai Nazisti l’apparecchiatura a schede perforate — antesignana del computer — necessaria ad automatizzare la produzione del paese, e con questo la IBM-Germany realizzava un sacco di soldi. Nel 1933, l’anno della presa del potere da parte di Hitler, la Dehomag realizzava profitti per un milione di dollari, e durante i primi anni del regime di Hitler versava alla IBM negli USA qualcosa come 4.5 milioni di dollari di dividendi. “Nel 1938, ancora in piena Depressione, i profitti annuali si aggiravano sui 2.3 milioni di marchi RM; nel 1939 i profitti della Dehomag aumentavano in modo spettacolare a circa 4.0 milioni di marchi RM”, scrive Edwin Black. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119, 120–1, 164, 198, and 222) Le imprese Americane con succursali in Germania non erano le uniche a guadagnare fortune inaspettate dalle spinte di Hitler al riarmo. La Germania, in preparazione della guerra, stava immagazzinando petrolio e molto di questo petrolio veniva fornito da imprese Americane. La Texaco realizzava grandi profitti dalle vendite alla Germania Nazista, e non fa sorpresa che il suo Presidente Torkild Rieber, fosse diventato un altro dei potenti imprenditori Americani che ammiravano Hitler. Un membro dei servizi segreti Tedeschi riportava che costui era “assolutamente filo Tedesco” e “un sincero ammiratore del Führer”. Sta di fatto che Rieber era divenuto amico personale di Göring, lo czar economico di Hitler. (12) Questo valeva anche per Ford, la cui impresa non solo produceva per i Nazisti nella stessa Germania, ma anche esportava autocarri parzialmente assemblati direttamente dagli USA in Germania. Questi veicoli venivano poi completamente assemblati nella Ford-Werke a Colonia ed erano pronti ad essere usati al momento giusto nella primavera del 1939, quando Hitler occupava la parte della Cecoslovacchia che non gli era stata ceduta nell’infame Patto di Monaco dell’anno precedente. Per giunta, negli ultimi anni Trenta, Ford aveva inviato in Germania materie prime strategiche, a volte tramite sue società consociate in paesi terzi; solo all’inizio del 1937, queste spedizioni comprendevano quasi 2 milioni di libbre di gomma e 130.000 libbre di rame. (Research Findings, 24, e 28) Le corporations Americane facevano il pieno di denaro nella Germania Hitleriana; questa è la ragione, e non il presunto carisma del Führer, per cui i proprietari e i managers di queste imprese lo adoravano! Per contro, Hitler e i suoi compagnoni si compiacevano di molto per le performances del capitale Americano nello stato Nazista. Infatti, la produzione di materiale bellico da parte delle consociate Americane onorava e addirittura superava le aspettative della dirigenza Nazista. Berlino pagava pronta cassa ed Hitler in persona mostrava il suo apprezzamento, assegnando prestigiose decorazioni a gente come Henry Ford, Thomas Watson della IBM, e James D. Mooney, direttore delle esportazioni della GM. Lo stock di investimenti Americani in Germania era accresciuto enormemente dopo la conquista del potere da parte di Hitler nel 1933. La motivazione principale di tutto questo era che il regime Nazista non consentiva ai profitti realizzati da imprese straniere di rientrare nelle nazioni di origine, almeno in teoria. In realtà, i centri operativi delle corporations potevano eludere questo embargo tramite stratagemmi, e così alle filiali Tedesche venivano pagate le fatture in “royalties” e con ogni sorta di “parcelle”. Ancora, le restrizioni comportavano che i profitti venivano largamente reinvestiti all’interno del paese delle grandi opportunità, che a quel tempo la Germania dimostrava di essere, per esempio nella modernizzazione di impianti esistenti, nella costruzione o nell’acquisizione di nuove fabbriche e nell’acquisto di obbligazioni del Reich e di beni immobili. Così, la IBM reinvestiva i suoi considerevoli guadagni in una nuova fabbrica a Berlino-Lichterfelde, in un allargamento delle sue strutture a Sindelfingen, vicino Stoccarda, in numerosi uffici succursali in tutto il Reich, e nell’acquisto di appartamenti a Berlino, di altre proprietà immobiliari e di strutture per attività materiali. (Black, 60, 99, 116, e 122–3) Conseguentemente a queste circostanze, il valore del capitale di IBM in Germania era aumentato in modo considerevole, e alla fine del 1938 il valore netto della Dehomag era raddoppiato, dai 7.7 milioni di marchi RM del 1934 ad oltre i 14 milioni di marchi RM. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119–21, 164, 198, and 222) Negli anni Trenta, il valore delle proprietà complessive della Ford-Werke cresceva come i funghi, dai 25.8 milioni di marchi RM del 1933 ai 60.4 milioni di marchi RM del 1939. (Research Findings, 133) Sotto Hitler, gli investimenti Americani in Germania continuarono ad espandersi, e al tempo di Pearl Harbor ammontavano a circa 475 milioni di dollari. (Research Findings, 6) (13) Meglio Hitler di “Rosenfeld” Per tutti i “tempestosi anni Trenta” i profitti delle imprese negli USA si erano mantenuti sul depresso; le società come la GM e Ford potevano solo sognarsi di realizzare in patria il genere di ricchezze che le loro affiliate in Germania stavano realizzando grazie a Hitler. Inoltre, in casa, il sistema imprenditoriale Americano stava vivendo problemi con attivisti sindacali, Comunisti, e altri radicali. Cosa pensavano i nervosi detentori di questi marchi di fabbrica della personalità e del regime del Führer? I leaders delle imprese Americane subivano per questo qualche turbamento? All’apparenza non molto, se non proprio affatto. Ad esempio, l’odio razziale profuso da Hitler non offendeva eccessivamente la loro sensibilità. Dopo tutto, il razzismo contro i non-Bianchi rimaneva sistemico in tutti gli Stati Uniti e l’anti-Semitismo era comune nella classe imprenditoriale. Nei clubs esclusivi e negli hotels di gran classe patrocinati dai capitani di industria, gli Ebrei vi erano raramente ammessi; e molti alti dirigenti delle imprese Americane si dichiaravano apertamente anti-Semiti. (14) Agli inizi degli anni Venti, Henry Ford fece pubblicare un libro virulentemente anti-Semita, “L’Internazionale Giudea”, che veniva tradotto in molte lingue; Hitler ne lesse la versione Tedesca e in seguito ammise che il testo gli aveva fornito ispirazione ed incoraggiamento. Un altro magnate Americano, notoriamente anti-Semita, era Irénée Du Pont, anche se la famiglia Du Pont aveva avuto antenati Ebrei. (15) L’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano assomigliava fortemente a quello di Hitler, il cui punto di vista sull’Ebraismo era interconnesso intimamente con il suo giudizio sul Marxismo, come Arno J. Mayer ha argomentato in modo convincente nel suo libro “Why Did the Heavens not Darken – Perché il Cielo non si è oscurato?” (16) Hitler dichiarava di essere un socialista, ma era sottinteso che il suo era un socialismo “nazionale”, un socialismo solo per i Tedeschi di razza pura. Quanto all’autentico socialismo, che predicava la solidarietà internazionale fra le classi lavoratrici e trovava la sua ispirazione nell’opera di Karl Marx, questo veniva disprezzato da Hitler come un’ideologia Giudaica che si proponeva di rendere schiavi o addirittura annullare i Tedeschi e gli altri “Ariani”. Hitler detestava come “Giudaiche” tutte le forme di Marxismo, ma nessuna più del Comunismo (o “Bolscevismo”) e denunciava l’Unione Sovietica come patria del socialismo “Giudaico” internazionale. Negli anni Trenta, con le stesse modalità, l’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano si manifestava come l’altra faccia della medaglia dell’anti-socialismo, anti-Marxismo, e del disprezzo dei rossi. Molti uomini d’affari Americani condannavano pubblicamente il New Deal di Roosevelt come un’interferenza “socialistica” in economia. Gli anti-Semiti del sistema imprenditoriale Americano consideravano Roosevelt come un cripto-Comunista ed un agente degli interessi degli Ebrei, se non addirittura di essere lui stesso un “Giudeo”; di routine si faceva riferimento a lui come “Rosenfeld”, e il suo New Deal veniva storpiato con “Jew (Giudeo) Deal”. (17) Nel suo libro“ The Flivver King”, Upton Sinclair ha descritto l’anti-Semita dichiarato Henry Ford come sognante un movimento fascista Americano, che “si impegnava nel paese ad abbattere i Rossi e a preservare gli interessi padronali; ad estromettere il Bolscevico [Roosevelt] dalla Casa Bianca e tutti i suoi professori progressisti dalle cariche di governo… [e] a considerare un illecito penale degno della fucilazione il parlare di comunismo o la proclamazione di uno sciopero.” (18) Anche altri magnati Americani desideravano ardentemente un Salvatore fascista che potesse sbarazzare l’America dai “Rossi” e quindi ridonarle prosperità e redditività. Du Pont forniva generosi contributi finanziari per sostenere le organizzazioni fasciste presenti negli Stati Uniti, come la famigerata “Black Legion – la Legione Nera”, ed era anche coinvolto nei piani di un colpo di stato fascista a Washington. (Hofer and Reginbogin, 585–6) (19) Perché preoccuparsi per la Guerra Incombente? Era del tutto ovvio che Hitler, riarmando la Germania fino ai denti, prima o dopo avrebbe scatenato un grave conflitto. Potessero avere avuto i capitani di industria Americani qualche timore a riguardo, presto le loro apprensioni venivano fugate, visto che negli anni Trenta gli esperti di diplomazia internazionale e di economia, senza eccezioni, si aspettavano che Hitler avrebbe risparmiato i paesi occidentali, e avrebbe attaccato e distrutto l’Unione Sovietica, come promesso nel “Mein Kampf”. Ad incoraggiarlo e a sostenerlo in questa impresa, che egli considerava la grande missione della sua vita, (20) veniva il segreto obiettivo dell’infame politica di acquiescenza perseguita da Londra e Parigi, e tacitamente approvata da Washington. (21) I leaders del sistema imprenditoriale in tutti i paesi occidentali, più nettamente negli USA, detestavano l’Unione Sovietica, poiché questo stato era la culla dell’ “antisistema” comunista in contrapposizione all’ordine capitalista internazionale e una fonte di ispirazione per gli stessi “rossi” Americani. Inoltre, trovavano particolarmente offensivo che la patria del comunismo non fosse caduta preda della Grande Depressione, ma sperimentasse una rivoluzione industriale, che in seguito è stata favorevolmente paragonata dallo storico Americano John H. Backer al tanto decantato “miracolo economico” della Germania Ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale. (22) La politica di pacificazione e di acquiescenza era un progetto ambiguo, i cui reali obiettivi dovevano essere celati all’opinione pubblica della Gran Bretagna e della Francia. In modo spettacolare si ottenne un effetto contrario, dato che i contorcimenti di questa politica alla fine resero Hitler diffidente verso le effettive intenzioni di Londra e Parigi, e lo indussero a sottoscrivere un accordo con Stalin, e lo portarono a scatenare la guerra della Germania contro la Francia e la Gran Bretagna, piuttosto che contro l’Unione Sovietica. Tuttavia, il sogno di una crociata Tedesca contro l’Unione Sovietica comunista nell’interesse dell’Occidente capitalistico non rinunciò a morire. Londra e Parigi scatenarono semplicemente una “Guerra Fasulla” contro la Germania, sperando che Hitler alla fine si sarebbe rivolto contro l’Unione Sovietica. Questa era anche l’idea che informava le missioni quasi-ufficiali a Londra e a Berlino intraprese da James D. Mooney della GM, che cercava insistentemente — come aveva fatto l’ambasciatore USA a Londra, Joseph Kennedy, padre di John F. Kennedy — di convincere i dirigenti della Germania e della Gran Bretagna ad appianare i loro inopportuni conflitti, in modo che Hitler potesse dedicare la sua completa attenzione al suo grande “Progetto Orientale”. In un incontro con Hitler nel marzo 1940, Mooney lanciava un appello di pace per l’Europa Occidentale, dichiarando che “gli Americani erano comprensivi del punto di vista Tedesco rispetto alla questione dello spazio vitale” — in altre parole, che loro non avevano nulla in contrario rispetto alle pretese territoriali Tedesche nei riguardi dell’Est Europeo. (Billstein et al., 37–44) (23) Queste iniziative Americane, comunque, non avrebbero prodotto i risultati sperati. Senza ombra di dubbio, i proprietari e i managers delle corporations Statunitensi con filiali in Germania si rammaricarono che la guerra scatenata da Hitler nel 1939 fosse una guerra contro l’Occidente, ma in ultima analisi questo rammarico si palesava non più che tanto. Quello che era di sicura importanza consisteva in questo: aiutare Hitler a preparare la guerra significava fare buoni affari e la guerra stessa apriva, ancor di più, prospettive inimmaginabili di fare affari e realizzare profitti. Imporre il Blitz alla Guerra Lampo I successi militari della Germania del 1939 e del 1940 si fondavano su una nuova ed estremamente mobile forma di muovere guerra, la Blitzkrieg, la Guerra Lampo, che consisteva di attacchi estremamente rapidi e altamente sincronizzati dall’aria e per terra. Per intraprendere la Guerra Lampo, Hitler necessitava di macchine belliche, carri armati, autocarri, aeroplani, carburanti ed oli per motori, benzina, gomma e sistemi di comunicazione sofisticati per assicurare agli Stukas di colpire in tandem con i Panzers. Molto di questo equipaggiamento veniva fornito da imprese Americane, soprattutto dalle affiliate Tedesche delle grandi corporations Americane, ma molto veniva anche importato dagli Stati Uniti, sebbene solitamente attraverso paesi terzi. Senza questo tipo di supporto Americano, nel 1939 e nel 1940 il Führer poteva solo sognarsi di “guerre lampo”, seguite da “vittorie lampo”. La maggior parte dei mezzi da trasporto e degli aeroplani di Hitler venivano prodotti dalle filiali Tedesche della GM e della Ford. Alla fine degli anni Trenta queste imprese avevano gradualmente rimosso la produzione civile per impegnarsi esclusivamente sullo sviluppo di apparecchiature militari per l’esercito e per l’aviazione militare della Germania. Questo mutamento, richiesto— se non ordinato — dalle autorità Naziste, non solo era stato approvato, ma anche attivamente incoraggiato dai centri direzionali delle imprese negli USA. La Ford-Werke a Colonia procedeva non solo a fabbricare senza limiti mezzi di trasporto per materiali ed uomini, ma anche macchinari bellici e parti di ricambio per la Wehrmacht. La nuova fabbrica Opel della GM nel Brandenburgo avviava la produzione degli autocarri “Blitz” per la Wehrmacht, mentre la fabbrica principale a Rüsselsheim produceva principalmente per la Luftwaffe, assemblando aeroplani come lo JU-88, il cavallo di battaglia della flotta di bombardieri della Germania. Ad un certo punto, la GM e Ford insieme si aggiudicavano non meno della metà dell’intera produzione Tedesca di carri armati. (Billstein et al., 25,) (24) Intanto la ITT aveva acquisito la quarta parte dei titoli azionari della fabbrica di aeroplani Focke-Wulf, e così contribuiva alla costruzione di aerei da combattimento. (25) Forse i Tedeschi avrebbero potuto assemblare veicoli ed aerei senza l’assistenza Americana. Ma la Germania necessitava disperatamente di materie prime strategiche, come gomme e petrolio, che erano indispensabili a combattere una guerra che si basava sulla mobilità e la velocità. Le corporations Statunitensi andarono in soccorso. Come abbiamo fatto menzione in precedenza, la Texaco aiutava i Nazisti ad immagazzinare carburanti. Per giunta, quando in Europa la guerra era sul punto di scoppiare, grandi quantità di gasolio, oli lubrificanti, e altri prodotti petroliferi venivano spedite via mare in Germania non solo dalla Texaco ma anche dalla Standard Oil, specialmente attraverso i porti della Spagna. (Fra l’altro, la Flotta Tedesca veniva rifornita di carburante dal petroliere Texano William Rhodes Davis.) (26) Negli anni Trenta, la Standard Oil aveva assistito la IG Farben nello sviluppo di carburanti sintetici come alternativa al petrolio naturale, di cui la Germania doveva importare anche una singola goccia. (Hofer and Reginbogin, 588–9) Albert Speer, l’architetto di Hitler e Ministro degli Armamenti per il tempo di guerra, dopo il conflitto dichiarava che senza certi tipi di carburante sintetico realizzati con l’aiuto delle industrie Americane, Hitler “non avrebbe mai preso in considerazione l’invasione della Polonia”. (27) Questo valeva per i Focke-Wulfs e per altri aerei veloci da combattimento Tedeschi, che non avrebbero potuto acquisire la loro implacabile velocità senza un additivo nel loro carburante, il piombo tetraetile di sintesi; i Tedeschi stessi, in seguito, ammisero che senza il piombo tetraetile il concetto globale di Blitzkrieg sarebbe risultato inconcepibile. Questo magico ingrediente era stato sintetizzato da una impresa, la Ethyl GmbH, una affiliata del trio formato da Standard Oil, da IG Farben, partner Tedesca della Standard, e da GM. (Hofer and Reginbogin, 589) (28) La guerra lampo, la “Blitzkrieg”, prevedeva attacchi da terra e dall’aria perfettamente sincronizzati, e questo richiedeva un sistema di strutture per le comunicazioni altamente sofisticato. La filiale Tedesca della ITT forniva la maggior parte della strumentazione, mentre l’altro stato-dell’-arte tecnologica essenziale agli scopi della Guerra Lampo faceva l’onore della IBM, attraverso la sua filiale Tedesca, la Dehomag. Secondo Edwin Black, il know-how della IBM permetteva alla macchina bellica Nazista di “acquisire dimensioni, velocità ed efficienza”; e concludeva che “la IBM aveva apportato il “lampo” alla guerra della Germania Nazista.” (Black, 208) Secondo le prospettive del sistema delle imprese Americane non era una catastrofe che la Germania dall’estate del 1940 avesse stabilito la sua supremazia sul continente Europeo. Molte affiliate Tedesche delle imprese Americane — ad esempio la Ford-Werke e l’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen — andavano espandendosi nei paesi occupati, approfittando delle vittorie della Wehrmacht. Il Presidente della IBM, Thomas Watson, era sicuro che la sua associata Tedesca avrebbe conseguito vantaggi dai trionfi Hitleriani. Black scrive: “Come molti uomini di affari Statunitensi, Watson confidava che la Germania sarebbe rimasta egemone in Europa, e che la IBM avrebbe beneficiato di questo, con il predominio sui centri di calcolo e di elaborazione dei dati, fornendo alla Germania gli strumenti tecnologici per un controllo globale.” (Black, 212) Il 26 giugno 1940, una delegazione commerciale Tedesca organizzava una colazione di lavoro al Waldorf-Astoria Hotel di New York per applaudire alle vittorie dell’Esercito Tedesco nell’Europa Occidentale. Molti importanti industriali presenziarono, compreso James D. Mooney, direttore responsabile delle operazioni Tedesche della GM. Cinque giorni più tardi, sempre a New York, venivano nuovamente celebrate le vittorie Tedesche, questa volta ad un party offerto dal filo-fascista Rieber, boss della Texaco. Fra i leaders delle imprese Americane erano presenti James D. Mooney e il figlio di Henry Ford, Edsel. (29) Che guerra meravigliosa! Il Millenovecentoquaranta costituì un anno particolarmente vantaggioso per le imprese Americane. Le filiali in Germania non solo partecipavano al bottino dei trionfi di Hitler, ma il conflitto Europeo stava generando altre meravigliose opportunità. La stessa America stava preparandosi ora per una possibile guerra, e da Washington cominciavano a scorrere commesse per automezzi, carri armati, aeroplani e navi. Inoltre, inizialmente su rigide basi di “cash-and-carry” (vendite con pagamento in contanti) e poi attraverso “Lend-Lease”, (contratti di leasing coperti da prestito obbligazionario), il Presidente Roosevelt permetteva all’industria Statunitense di rifornire la Gran Bretagna di strutture militari e di altre attrezzature, consentendo così alla coraggiosa piccola Albione di continuare indefinitamente la guerra contro Hitler. Alla fine del 1940, tutte le nazioni belligeranti, come pure quelle neutrali, ma armate, come gli USA stessi, si stavano imbottendo di armamenti messi in campo dalle industrie del sistema imprenditoriale Americano, qualunque fosse l’area del loro insediamento, in Gran Bretagna (dove Ford et al., avevano anche loro affiliate) o nella Germania. In verità si trattava di una guerra meravigliosa, e più a lungo durava meglio era — dal punto di vista del sistema delle imprese Americano! Questo sistema non desiderava che Hitler perdesse questa guerra, ma nemmeno che la vincesse; infatti desiderava solo che la guerra durasse più a lungo possibile. Inizialmente, Henry Ford si era rifiutato di produrre armamenti per la Gran Bretagna, ma ora aveva cambiato musica. Secondo il suo biografo, David Lanier Lewis, egli “esprimeva la speranza che ne’ gli Alleati ne’ l’Asse risultassero vincitori”, e proponeva che gli USA dovessero rifornire sia gli Alleati che le potenze dell’Asse con “armamenti che consentissero di combattere fino al collasso di entrambe le parti”. (30) Il 22 giugno1941 la Wehrmacht attraversò a valanga il confine Sovietico, forte dell’equipaggiamento e delle attrezzature della Ford e della GM, dotata di armamenti prodotti in Germania dal capitale e dal know-how Americano. Mentre molti leaders delle imprese Americane speravano che i Nazisti e i Sovietici rimanessero avvinghiati quanto più a lungo possibile in una guerra che avrebbe dovuto debilitarli entrambi, (31) e quindi il prolungarsi della guerra in Europa avrebbe procurato solo profitti, gli esperti a Washington e a Londra prevedevano che i Sovietici sarebbero stati schiacciati, “come un uovo”, dalla Wehrmacht. (32) L’USSR, comunque, divenne il primo paese a contrastare la Guerra Lampo, fino ad arrestarla. E il 5 dicembre 1941, l’Armata Rossa addirittura lanciava una controffensiva. (33) Da allora in poi risultava evidente che i Tedeschi avrebbero dovuto preoccuparsi in modo notevole sul Fronte Orientale, cosa che avrebbe permesso anche agli Inglesi di continuare l’impegno bellico, e agli affari redditizi Lend-Lease di continuare senza limiti di tempo. La situazione divenne ancora di più vantaggiosa per il sistema delle imprese Americano, quando apparve che gli affari potevano da quel momento essere fatti anche con i Sovietici. Infatti, nel novembre 1941, quando era già chiaro che l’Unione Sovietica non sarebbe arrivata al crollo, Washington si accordò per estendere il credito a Mosca, e concluse un accordo Lend-Lease con l’USSR, fornendo così alle grandi imprese Americane un ulteriore mercato per i loro prodotti. Aiuti Americani ai Sovietici…e ai Nazisti Dopo la guerra, sarebbe divenuto di uso comune in Occidente affermare che il successo inaspettato dei Sovietici contro la Germania Nazista era stato possibile grazie all’assistenza massiccia degli Americani, fornita nei termini di un accordo Lend-Lease tra Washington e Mosca, e che senza questo aiuto l’Unione Sovietica non sarebbe sopravvissuta all’aggressione Nazista. Questa affermazione è poco attendibile! Primo, l’assistenza materiale Americana, prima del 1942, era quasi completamente insignificante, cioè, ben dopo che i Sovietici senza l’aiuto di nessuno avevano posto fine all’avanzata della Wehrmacht e avevano scatenato la loro prima controffensiva. Secondo, l’aiuto Americano non andò mai oltre al quattro o cinque per cento della produzione totale Sovietica del tempo di guerra, sebbene si debba ammettere che anche questo magro contributo poteva in qualche modo risultare cruciale in una situazione critica. Terzo, gli stessi Sovietici dettero l’avvio alla produzione di tutti gli armamenti leggeri e pesanti di alta qualità — come il carro armato T-34, probabilmente il miglior tank della Seconda Guerra Mondiale — che avevano consentito il loro successo contro la Wehrmacht, data per vincente. (34) Per ultimo, il tanto pubblicizzato aiuto Lend-Lease fornito all’USSR veniva in larga misura neutralizzato — e possiamo dire vanificato — dall’assistenza non ufficiale, discreta, ma veramente importante fornita ai Tedeschi, nemici dei Sovietici, dalle fonti delle imprese Americane. Nel 1940 e 1941, le compagnie petrolifere Americane avevano aumentato le loro esportazioni di petrolio verso la Germania, quantità rilevanti venivano inviate alla Germania Nazista attraverso stati neutrali, realizzando forti profitti. La percentuale Americana delle importazioni Tedesche di olio per la lubrificazione dei macchinari (Motorenöl), assolutamente indispensabile, aumentò rapidamente, dal 44% del luglio 1941 al 94% nel settembre 1941. Secondo lo storico Tedesco Tobias Jersak, un’autorità nel campo dei “carburanti per il Führer” Americani, senza il carburante fornito dagli USA l’aggressione Tedesca contro l’Unione Sovietica non sarebbe stata possibile. (35) Hitler stava ancora rimuginando sulle notizie catastrofiche della controffensiva Sovietica e sulla disfatta della Guerra Lampo nell’Europa Orientale, quando veniva a sapere che i Giapponesi, a sorpresa, avevano lanciato un attacco su Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. Gli USA ora entravano in guerra contro il Giappone, ma Washington non aveva alcuna intenzione di dichiarare guerra alla Germania. Hitler non aveva nessun obbligo di correre in aiuto dei suoi amici Giapponesi, ma l’11 dicembre 1941 dichiarava guerra agli Stati Uniti, probabilmente aspettandosi — vanamente, visto quello che avvenne — che il Giappone a sua volta dichiarasse guerra all’Unione Sovietica. La non necessaria dichiarazione di guerra di Hitler, accompagnata da una risibile dichiarazione di guerra Italiana, trasformarono gli USA in un partecipante attivo alla guerra in Europa. Questo, come influenzò le attività Tedesche delle grandi corporations Americane? (36) Affari, come sempre! Le affiliate Tedesche delle corporations Americane non venivano assolutamente confiscate dai Nazisti e non veniva rimosso il completo controllo di queste imprese sussidiarie da parte delle case madri, fino alla disfatta della Germania nel 1945, al di là di come le società capogruppo avrebbero affermato dopo la guerra. Ad esempio, rispetto alle strutture della Ford e della GM, l’esperto Tedesco Hans Helms dichiara, “neppure una volta, durante il loro regime di terrore, i Nazisti si sono impegnati in un tentativo anche il più insignificante di variare la situazione proprietaria della Ford, cioè della Ford-Werke, o della Opel” . (37) Neppure dopo Pearl Harbor, a Ford veniva requisito il 52% delle azioni della Ford-Werke a Colonia, e la GM rimaneva l’unica proprietaria della Opel. (Billstein et al., 74, e 141) In più, i proprietari e i dirigenti Americani conservarono una dimensione di controllo a volte considerevole sulle loro affiliate Tedesche, anche dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA. Esistono risultanze che le centrali delle imprese negli USA e le loro filiali in Germania rimasero in contatto le une con le altre, o indirettamente via filiali nella Svizzera neutrale, o direttamente tramite la rete mondiale dei sistemi moderni di comunicazioni. Quest’ultima veniva fornita dalla ITT in collaborazione con Transradio, una joint venture fra la stessa ITT con la RCA (un’altra corporation Americana) e le imprese Tedesche Siemens e Telefunken. (38) In un recente documento sulle sue attività nella Germania Nazista, Ford dichiara che, dopo Pearl Harbor, la sua centrale direzionale a Dearborn non teneva più contatti diretti con la sua affiliata Tedesca. Per quel che concerne la possibilità di comunicazioni via società consociate presenti in paesi neutrali, il documento afferma che “non esistono indicazioni di comunicazioni fra le centrali USA e le filiali in Germania tramite loro consociate nei paesi neutrali”. (Research Findings, 88) Comunque, la mancanza di tali “indicazioni” significa semplicemente che ogni prova di contatti può essere stata smarrita o distrutta prima che gli autori del documento permettessero l’accesso agli specifici archivi; dopo tutto, l’accesso a questi archivi è stato concesso solamente più di 50 anni dopo gli accadimenti. Inoltre, lo stesso documento mette in evidenza un elemento contraddittorio, che un alto dirigente della Ford-Werke aveva fatto un viaggio nel 1943 a Lisbona per una visita alla filiale Portoghese della Ford, ed è estremamente improbabile che a Dearborn non fossero al corrente di questo. Questo vale anche per la IBM: Edwin Black scrive che durante la guerra il general manager della IBM per l’Europa, l’Olandese Jurriaan W. Schotte, veniva insediato nella centrale operativa a New York, dove egli “continuava a mantenere regolarmente rapporti diretti con le filiali della IBM in territorio Nazista, come nella sua patria di origine, l’Olanda, e in Belgio”. Quindi, la IBM poteva “tenere sotto controllo gli eventi ed esercitare la sua autorità in Europa attraverso le filiali situate nelle nazioni neutrali,” e in modo particolare attraverso le sue diramazioni Svizzere a Ginevra, il cui direttore, di nazionalità Svizzera,“viaggiava liberamente in, e dalla, Germania, nei territori occupati e nei paesi neutrali”. Infine, come per molte altre grandi imprese USA, la IBM poteva anche affidarsi ai diplomatici Americani presenti nei paesi occupati e neutrali per inviare messaggi tramite valigia diplomatica. (Black, 339, 376, and 392–5) I Nazisti, non solo permettevano ai proprietari Americani di conservare le loro strutture e le loro filiali in Germania e di esercitarne anche in una certa misura il controllo amministrativo, ma la loro influenza, ad esempio nella conduzione della Opel e della Ford-Werke, rimaneva minima. Dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA, i membri della dirigenza Americana certamente si ritirarono dalle scene, ma i managers presenti in Germania — che riscuotevano la fiducia dei capi negli Stati Uniti — in genere conservarono le loro posizioni autorevoli e continuarono a condurre gli affari, perciò tenendo sempre presenti gli interessi delle case madri delle imprese e degli azionisti Americani. Per quel che riguarda la Opel, il quartier generale della GM negli USA aveva mantenuto l’effettivo controllo totale sui dirigenti a Rüsselsheim; questo scrive lo storico Americano Bradford Snell, che negli anni Settanta ha dedicato la sua attenzione a questo tema, ma i cui riscontri sono stati contestati da GM. Un recente studio della ricercatrice Tedesca Anita Kugler conferma il resoconto di Snell, fornendo maggiori dettagli e maggiori sfumature al quadro presentato. Dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA, la Kluger scrive che i Nazisti assolutamente non crearono difficoltà alla dirigenza della Opel. Solo il 25 novembre 1942 Berlino nominava un “servizio di controllo alle strutture produttive del nemico”, ma il significato di questa procedura risultò essere puramente simbolico. I Nazisti semplicemente desideravano assegnare un’immagine Tedesca ad un’impresa che sarà posseduta al 100% dalla GM per tutto il corso della guerra. (Billstein et al., 61) Presso la Ford-Werke, Robert Schmidt, certamente un fervente Nazista, durante la guerra operava come general manager, e le sue prestazioni erano tanto soddisfacenti sia per le autorità di Berlino che per i dirigenti della Ford in America. Messaggi di approvazione e congratulazioni, recanti la firma di Edsel Ford, gli venivano regolarmente recapitati dalla casa madre della Ford a Dearborn. I Nazisti erano veramente deliziati dal lavoro di Schmidt; in opportuna occasione lo avevano gratificato del titolo di “leader nel campo dell’economia militare”. Perfino quando, mesi dopo Pearl Harbor, erano stati imposti controlli a sovrintendere gli impianti della Ford a Colonia, Schmidt aveva conservato le sue prerogative e la sua libertà di azione. (39) Allo stesso modo, l’esperienza in tempo di guerra per la IBM sotto controllo dell’Asse in Germania, Francia, Belgio, e in altri paesi risultava ben lontana dall’essere traumatica. I Nazisti erano molto meno interessati alla nazionalità dei proprietari o all’identità dei managers che alla produzione, visto che, dopo il fallimento della loro strategia di Guerra Lampo nell’Unione Sovietica, stavano sperimentando la necessità sempre crescente di una produzione massiccia di aerei e di mezzi da trasporto. Dal momento in cui Henry Ford aveva aperto la strada all’impiego della catena di montaggio e ad altre tecniche “Fordiste”, le imprese Americane erano divenute leaders nel campo della produzione industriale di massa, e le affiliate Statunitensi in Germania, inclusa la sussidiaria Opel della GM, non facevano eccezione a questa regola generale. I pianificatori Nazisti, come Göring e Speer, avevano ben compreso che radicali cambiamenti nel management della Opel potevano ostacolare la produzione nel Brandenburgo e a Rüsselsheim. Per mantenere il rendimento della Opel ad alti livelli, ai managers in carica veniva concesso di andare avanti, dato che avevano familiarità con i metodi di produzione Americani particolarmente efficienti. Anita Kugler conclude che l’Opel, “aveva messo a disposizione dei Nazisti la sua produzione totale e quindi — obiettivamente parlando — aveva contribuito ad accrescere le loro possibilità di condurre la guerra per un lungo periodo di tempo”. (Billstein et al., 81) (40) Esperti ritengono che le migliori innovazioni tecnologiche della GM e della Ford per scopi bellici principalmente siano andate a tutto vantaggio delle loro filiali nella Germania Nazista. Ad esempio, citano gli autocarri della Opel con tutte le ruote motrici, che si erano rivelati particolarmente utili ai Tedeschi nel fango del Fronte Orientale e nei deserti del Nord Africa, così come i motori per il nuovo ME-262, il primo caccia a reazione, che veniva assemblato sempre dalla Opel a Rüsselsheim. (41) Lo stesso vale per la Ford-Werke: nel 1939 questa industria aveva sviluppato un autocarro all’avanguardia — il Maultier (“mulo”) — che aveva ruote cingolate sulla parte frontale e un rimorchio nella parte posteriore. Inoltre la Ford-Werke aveva creato una “società di copertura”, la Arendt GmbH, per produrre equipaggiamento bellico, oltre a veicoli, e, nello specifico, parti lavorate per aeroplani. Ma Ford afferma che questo era stato fatto senza che a Dearborn si fosse a conoscenza o lo si approvasse. Verso la fine della guerra, questa fabbrica veniva coinvolta nello sviluppo top-secret di turbine per gli scellerati missili V-2 che avevano procurato devastazioni su Londra e Anversa. (Research Findings, 41–2) La ITT continuava a fornire alla Germania sistemi avanzati per le comunicazioni anche dopo Pearl Harbor, a detrimento degli stessi Americani, il cui codice cifrato diplomatico era stato decifrato dai Nazisti tramite questa strumentazione. (42) Fino alla fine totale della guerra, le strutture produttive della ITT in Germania, come pure in paesi neutrali come la Svezia,la Svizzera e la Spagna, fornivano alle forze armate Tedesche congegni bellici di avanguardia. Charles Higham entra nei particolari: dopo Pearl Harbor, l’esercito, la marina e l’aviazione Tedesca hanno stipulato contratti con la ITT per la fabbricazione di centraline telefoniche, telefoni, suonerie d’allarme, gavitelli, dispositivi d’allarme di attacchi aerei, strumentazione radar, trentamila spolette al mese per proiettili d’artiglieria…, che arrivavano a cinquantamila al mese nel 1944. Per giunta, la ITT forniva componenti per le bombe-razzo che cadevano su Londra, celle al selenio per raddrizzatori a secco, strumentazione radio ad alta frequenza, e apparecchi per le comunicazioni e per il rafforzamento di campo. Senza queste forniture di materiali cruciali sarebbe stato impossibile per l’aviazione Tedesca eliminare truppe Americane e Britanniche, per l’esercito Tedesco combattere contro gli Alleati, per l’Inghilterra venire bombardata, o per le navi degli Alleati venire attaccate sul mare. (43) Allora, non sorprende che le sussidiarie Tedesche delle imprese Americane fossero considerate come “pionieri dello sviluppo tecnologico” da parte dei pianificatori nei Ministeri Economici del Reich della Germania e di altre autorità Naziste coinvolte nello sforzo bellico. (44) Inoltre, Edwin Black afferma che la tecnologia avanzata della IBM, relativa alla perforazione delle schede, che ha preceduto il computer, ha permesso ai Nazisti di automatizzare la persecuzione. La IBM, presumibilmente, aveva consentito la valutazione degli inimmaginabili numeri dell’Olocausto, perché aveva fornito al regime di Hitler di macchine calcolatrici e di altri strumenti che venivano utilizzati per “generare le liste degli Ebrei e delle altre vittime, che venivano designate alla deportazione” e “per registrare i detenuti dei campi di concentramento e di seguire il lavoro schiavile”. (Black, xx) Comunque, i critici della ricerca di Black sostengono che i Nazisti avrebbero potuto acquisire la loro efficienza di sterminio senza l’apporto della tecnologia IBM. In ogni modo, il caso della IBM fornisce ancora un altro esempio di come le corporations USA abbiano procurato ai Nazisti tecnologia avanzata e chiaramente non si sono curate troppo a quali scopi malvagi questa tecnologia sarebbe stata applicata. Il profitto über Alles; il profitto innanzitutto! I proprietari e i managers delle imprese case madri negli USA si preoccupavano poco di quali prodotti venivano sviluppati e prodotti dalle catene di montaggio Tedesche. Quello che contava per loro e per i detentori delle loro azioni era solamente il profitto. Le affiliate delle corporations Americane in Germania realizzavano considerevoli guadagni durante il conflitto, e questo denaro non veniva intascato dai Nazisti. Per quel che concerne la Ford-Werke, sono disponibili dati precisi. I profitti della filiale Tedesca di Dearborn aumentavano da 1.2 milioni di Marchi Tedeschi (RM) nel 1939 a 1.7 milioni di RM nel 1940, a 1.8 milioni di RM nel 1941, a 2.0 milioni di RM nel 1942, e a 2.1 milioni di RM in 1943. (Research Findings, 136). (45) Anche le filiali della Ford nella Francia occupata, in Olanda e nel Belgio, dove il gigantesco sistema delle imprese Americane forniva un contributo industriale allo sforzo bellico Nazista, vedevano ugualmente realizzarsi successi straordinari. Ad esempio, la Ford-France, — che prima della guerra non era una struttura troppo fiorente —, divenne veramente redditizia dopo il 1940, grazie alla sua collaborazione incondizionata con i Tedeschi; nel 1941 registrava profitti per 58 milioni di Franchi, un livello di rendimento per cui riceveva le calde congratulazioni da parte di Edsel Ford. (Billstein et al, 106; e Research Findings, 73–5) (46) Relativamente alla Opel, i profitti industriali erano saliti alle stelle al punto tale che il Ministero dell’Economia Nazista aveva vietato la loro pubblicazione per impedire un bagno di sangue da parte della popolazione Tedesca, alla quale si chiedeva in maniera sempre più pressante di stringere collettivamente la cinghia.(Billstein et al, 73) (47) La IBM non solo realizzava profitti alle stelle tramite la sua filiale Tedesca, ma, come la Ford, vedeva innalzarsi i suoi guadagni anche nella Francia occupata, soprattutto per merito degli affari generati tramite la zelante collaborazione con le autorità di occupazione Tedesche. Era stato perfino necessario costruire nuove fabbriche. Comunque, su tutto, la IBM prosperava in Germania e nei paesi occupati grazie alle vendite ai Nazisti di strumenti tecnologici richiesti per identificare, deportare, ghettizzare, schiavizzare e, alla fine del percorso, sterminare milioni di Ebrei Europei, in altre parole, per organizzare l’Olocausto. (Black, 212, 253, and 297–9) È ben lontano dall’essere chiarito cosa sia successo ai profitti realizzati in Germania durante la guerra dalle filiali Americane, ma qualche allettante notizia succosa di informazioni è nonostante tutto emersa. Negli anni Trenta le imprese Americane avevano sviluppato diverse strategie per eludere l’embargo Nazista al rimpatrio dei profitti. L’ufficio della dirigenza della IBM a New York, per esempio, regolarmente fatturava la Dehomag per royalties dovute alla casa madre, per rimborso di prestiti inventati, e per altre competenze e spese; queste pratiche ed altri bizantinismi di transazioni inter-societarie minimizzavano i profitti realizzati in Germania e quindi nel contempo funzionavano come un realistico piano di evasione fiscale. Inoltre, esistevano altri modi di operare per evitare l’embargo sul rientro dei profitti alla casa madre, come il loro reinvestimento all’interno della Germania, ma dopo il 1939 questa opzione non veniva permessa più a lungo, almeno in teoria. In pratica, le sussidiarie Americane intrapresero questo percorso, di aumentare in modo assolutamente considerevole le loro strutture. L’Opel, ad esempio, nel 1942 assumeva il controllo di una fonderia a Lipsia. (48) Rimaneva anche possibile utilizzare i profitti per migliorare e modernizzare le infrastrutture stesse delle affiliate, cosa che era avvenuta spesso nel caso della Opel. Inoltre, esistevano possibilità di espansione nei paesi occupati dell’Europa. Nel 1941, la sussidiaria della Ford in Francia utilizzava i suoi profitti per costruire un’industria di carri armati ad Orano, Algeria; con tutta probabilità, questo impianto aveva fornito all’Africa Corps di Rommel le strutture necessarie all’avanzata diretta verso El Alamein in Egitto. Nel 1943, anche la Ford-Werke insediava una fonderia non lontano da Colonia, proprio attraverso il confine con il Belgio, vicino a Liegi, per produrre parti di ricambio. (Research Findings, 133) Per di più, è probabile che una parte del profitto ammassato nel Terzo Reich veniva trasferita in qualche modo direttamente negli USA, ad esempio, attraverso la Svizzera neutrale. Molte corporations USA mantenevano in Svizzera uffici che funzionavano da intermediari fra le case madri e le loro filiali nei paesi nemici od occupati, e quindi erano coinvolti nel “riciclaggio dei profitti”, come scrive Edwin Black a proposito della filiale Svizzera della IBM. (Black, 73) (49) Allora, allo scopo del ritorno dei profitti alle case madri, le corporations potevano far conto sui servizi sperimentati delle filiali Parigine di alcune banche Americane, come la Chase Manhattan e J.P. Morgan, e di un certo numero di banche Svizzere. La Chase Manhattan faceva parte dell’impero di Rockefeller, così come la Standard Oil, partner Americana della IG Farben; la sua filiale nella Parigi sotto occupazione Tedesca rimaneva aperta per tutto il corso della guerra e realizzava guadagni in modo considerevole grazie alla stretta collaborazione con le autorità Tedesche. Inoltre, da parte Svizzera, si dava il caso che alcune istituzioni finanziarie si impegnavano — senza porsi imbarazzanti domande — a prendersi cura dell’oro sottratto dai Nazisti alle loro vittime Ebree. A questo riguardo, giocava un importante ruolo la banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) di Basilea, una Banca internazionale che era stata fondata nel 1930 all’interno della struttura del Progetto Giovani, con l’obiettivo di agevolare i pagamenti delle riparazioni di guerra da parte Tedesca dopo la Prima Guerra Mondiale. I banchieri Americani e Tedeschi (come Schacht) dominavano la BIS fin dall’inizio e collaboravano con tutta comodità in tutte le sue speculazioni finanziarie. Durante la guerra, era un Tedesco, che era membro del Partito Nazista, Paul Hechler, ad occupare la funzione di direttore della BIS, mentre un Americano, Thomas H. McKittrick, ne era presidente. McKittrick era un buon amico dell’ambasciatore Americano a Berna e di un agente in Svizzera del servizio segreto Americano [l’OSS, antesignano della CIA], Allen Dulles. Prima della guerra, Allen Dulles e suo fratello John Foster Dulles erano stati partners nell’ufficio legale di New York Sullivan & Cromwell, ed erano specializzati nell’affare veramente redditizio di gestione di investimenti Americani nella Germania. Avevano eccellenti rapporti con i proprietari e dirigenti al vertice di imprese Americane, e in Germania con banchieri, uomini di affari e funzionari governativi, compresi alti papaveri Nazisti. Dopo lo scoppio della guerra, John Foster divenne il legale societario per la BIS a New York, mentre Allen veniva arruolato nell’OSS e prendeva servizio in Svizzera, dove si dimostrava amico di McKittrick. È ampiamente conosciuto che durante il conflitto la BIS maneggiava quantità enormi di denaro e di oro provenienti dalla Germania Nazista. (50) Non è irragionevole sospettare che tali trasferimenti potevano riguardare i proventi delle associate Americane destinati agli USA, in altre parole, denaro accumulato da clienti ed associati degli onnipresenti fratelli Dulles! Procurare il lavoro di schiavi! Prima della guerra, le imprese Tedesche si erano entusiasticamente avvantaggiate del grande favore loro concesso dai Nazisti, vale a dire dell’eliminazione dei sindacati dei lavoratori e della trasformazione risultante della classe lavoratrice Tedesca, nel passato militante e consapevole, in una mansueta “massa di servitori”. Quindi, non è sorprendente che nella Germania Nazista i salari reali diminuivano rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza si incrementavano. Durante la guerra, i prezzi continuavano a salire, mentre gli stipendi venivano gradualmente erosi e l’orario di lavoro veniva aumentato. (51) Questa era anche l’esperienza che dovevano subire le forze del lavoro delle sussidiarie Americane. Per contrastare la deficienza di lavoratori nelle industrie, i Nazisti facevano assegnamento in modo crescente su lavoratori stranieri che venivano deportati a lavorare in Germania sotto condizioni molto spesso disumane. Insieme a centinaia di migliaia di Sovietici e di altri prigionieri di guerra e di reclusi nei campi di concentramento, questi lavoratori stranieri (lavoratori forzati) costituivano una gigantesca massa di lavoratori che potevano essere sfruttati a volontà da chiunque li prendesse in carico, in cambio di una modesta remunerazione versata alle SS, la Schutzstaffel, la milizia di protezione nazista. Infatti, le SS mantenevano la disciplina e l’ordine d’obbligo con pugno di ferro. Allora, i costi del lavoro crollavano ad un livello tale per cui i programmatori di oggi possono solo sognare, e i profitti delle imprese aumentavano in proporzione. Anche le filiali Tedesche delle imprese Americane avevano fatto con bramosia uso del lavoro schiavile fornito dai Nazisti, non solo attraverso lavoratori stranieri, ma anche di prigionieri di guerra e di reclusi dei campi di concentramento. Ad esempio, la Yale & Towne Manufacturing Company con sede a Velbert in Renania, da quanto viene documentato, faceva affidamento sul “concorso di lavoratori provenienti dall’Europa Orientale” per realizzare “consistenti profitti”, (52) ed anche viene sottolineato che la Coca-Cola ha avuto vantaggi dall’utilizzo di lavoratori stranieri, e di prigionieri di guerra nei suoi impianti della Fanta. (53) Comunque, gli esempi maggiormente spettacolari dell’uso di lavoro forzato da parte di filiali Americane sono sicuramente forniti dalla Ford e dalla GM, due casi che di recente hanno costituito l’oggetto di un’approfondita inchiesta. Sulla Ford-Werke, è stato asserito che a partire dal 1942 questa fabbrica “sollecitamente, aggressivamente e con grande successo” aveva perseguito l’uso di lavoratori stranieri e di prigionieri di guerra dall’Unione Sovietica, dalla Francia e dal Belgio e da altri paesi occupati — chiaramente con la conoscenza della casa madre dell’impresa negli USA. (54) Karola Fings, una ricercatrice Tedesca che con molta attenzione ha studiato le attività in tempo di guerra della Ford-Werke, scrive: “[Ford] aveva fatto meravigliosi affari con i Nazisti, dato che l’accelerazione della produzione durante la guerra dava spazio totalmente a nuove opportunità, mantenendo basso il livello del costo del lavoro. In effetti era dal 1941 che alla Ford-Werke era in atto un generale congelamento dell’aumento dei salari. Comunque, i più alti margini di profitto potevano essere acquisiti per mezzo dell’uso dei cosiddetti Ostarbeiter [lavoratori forzati provenienti dall’Europa dell’Est]. (55) Le migliaia di lavoratori forzati stranieri portati a lavorare nella Ford-Werke venivano costretti come schiavi ogni giorno, eccettuata la domenica, per dodici ore al giorno, e per questo non ricevevano un qualsiasi salario. Presumibilmente anche peggiore era il trattamento riservato al relativamente piccolo numero di reclusi del campo di concentramento di Buchenwald, messo a disposizione della Ford-Werke nell’estate del 1944”. (Research Findings, 45–72) In contrasto con Ford-Werke, l’Opel non ha mai usato reclusi di campi di concentramento, almeno non nelle fabbriche principali di Rüsselsheim e nel Brandenburgo. La filiale Tedesca della GM, comunque, aveva avuto un insaziabile appetito per altri tipi di lavoratori forzati, per i prigionieri di guerra. “Tipico dell’uso schiavistico del lavoro nelle fabbriche Opel, particolarmente quando venivano utilizzati i Russi”, scrive la storica Anita Kugler, “era lo sfruttamento massimo, il trattamento peggiore possibile, e …la pena capitale anche nel caso di lievi violazioni.” La Gestapo aveva l’incarico di sorvegliare e sovrintendere ai lavoratori stranieri. (56) Un permesso di lavoro in collaborazione con il nemico Negli USA, le case madri delle imprese delle filiali Tedesche lavoravano veramente in modo intenso per convincere l’opinione pubblica Americana sul loro patriottismo, in modo che l’uomo della strada Americano non potesse pensare che la GM, ad esempio, che in patria finanziava manifesti anti-Tedeschi, fosse coinvolta in operazioni di banche lontane, sul Reno, in attività che erano equivalenti al tradimento. (57) Washington era molto meglio informata di “John Doe”, ma il governo Americano osservava la regola non scritta convenuta che “quello che va bene per la General Motors va bene per l’America”, ed evitava di prendere in considerazione il fatto che le imprese Americane accumulavano ricchezze tramite i loro investimenti o i loro affari in un paese con cui gli Stati Uniti erano in guerra. Questo aveva molto a che fare con il fatto che il sistema delle imprese Americano era diventato ancora più influente a Washington durante il conflitto di quanto lo era stato dapprima; infatti, dopo Pearl Harbor i rappresentanti dei “grandi affari” si erano accalcati nella capitale in modo da prendere il controllo su molti uffici governativi importanti. Stando alle apparenze, costoro erano motivati da un genuino patriottismo e offrivano il loro servizi per una elemosina, diventando noti per questo come “gli uomini un-dollaro-per-un-anno”. In verità, molti occupavano quei posti per garantire le loro strutture in Germania. L’ex presidente della GM, William S. Knudsen, un esplicito ammiratore di Hitler dal 1933 e amico di Göring, divenne direttore dell’Ufficio G
Importanti Riferimenti:
Vedi Edwin Black, “IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation” – (IBM e l’Olocausto: L’alleanza strategica tra la Germania Nazista e la più potente impresa Americana.) – (London: Crown Publishers, 2001)
Walter Hofer e Herbert R. Reginbogin, „Hitler, der Westen und die Schweiz 1936–1945“ – (Hitler, l’Occidente e la Svizzera 1936-1945), (Zürich: NZZ Publishing House, 2002)
Reinhold Billstein, Karola Fings, Anita Kugler, e Nicholas Levis, “Working for the Enemy: Ford, General Motors, and Forced Labor during the Second World War” – (Lavorare per il nemico: Ford, General Motors e il lavoro forzato durante la Seconda Guerra Mondiale) – ( New York: Berghahn, 2000); Risultati di una ricerca su la Ford-Werke sotto il regime Nazista (Dearborn, MI: Ford Motor Company, 2001)
Note
1 Michael Dobbs, “US Automakers Fight Claims of Aiding Nazis- I produttori di automobili USA contrastano le affermazioni di aver aiutato i Nazisti ” The International Herald Tribune, 3 dicembre 1998.
2 David F. Schmitz, “‘A Fine Young Revolution': The United States and the Fascist Revolution in Italy, 1919–1925, – ‘Una meravigliosa giovane rivoluzione’: gli Stati Uniti e la Rivoluzione Fascista in Italia, 1919-1925,” Radical History Review, 33 (settembre1985), 117–38; e John P. Diggins, “Mussolini and Fascism: The View from America – Mussolini e il Fascismo: Uno sguardo dall’America” (Princeton 1972).
3 Gabriel Kolko, “American Business and Germany, 1930–1941, – Affari Americani e la Germania, 1930-1941″. “The Western Political Quarterly, 25 (dicembre1962), 714”, fa riferimento allo scetticismo che si era diffuso nella stampa economica Americana nei confronti di Hitler, dato che veniva considerato “un non conformista dal punto di vista economico e politico”.
4 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio” (New York 2001), in modo particolare: 172–91.
5 Charles Higham, “Trading with the Enemy: An Exposé of The Nazi-American Money Plot 1933–1949 – Fare affari col nemico: un resoconto dell’intreccio di denaro fra Nazisti e Americani 1933-1949” (New York 1983), 162.
6 Webster G. Tarpley e Anton Chaitkin, “The Hitler Project, – Il piano di Hitler” capitolo 2 in “George Bush: The Unauthorized Biography – George Bush: La biografia non autorizzata” (Washington 1991). Disponibile online ahttp://www.tarpley.net/bush2.htm .
7 Mark Pendergrast, “For God, Country, and Coca-Cola: The Unauthorized History of the Great American Soft Drink and the Company that Makes It – Per Dio, Patria e Coca-Cola: La storia non autorizzata della grande bibita analcolica Americana e della Compagnia che la produce.” (New York 1993), 221.
8 Citazione da Manfred Overesch, “Machtergreifung von links: Thüringen 1945/46 – La presa del potere da sinistra: Turingia 1945/46 „ (Hildesheim Germany 1993), 64.
9 Knudsen descriveva la Germania Nazista, dopo una sua visita nel 1933, come “il miracolo del ventesimo secolo.” Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 163.
10 Stephan H. Lindner, “Das Reichskommissariat für die Behandlung feindliches Vermögens im Zweiten Weltkrieg: Eine Studie zur Verwaltungs-, Rechts- and Wirtschaftsgeschichte des nationalsozialistischen Deutschlands – Il Commissariato del Reich per la gestione del patrimonio nemico durante la Seconda Guerra Mondiale: uno studio sulle questioni di tipo amministrativo, giuridico ed economico nella Germania Nazionalsocialista“ (Stuttgart 1991), 121; Simon Reich, „The Fruits of Fascism: Postwar Prosperity in Historical Perspective – I frutti del Fascismo: prosperità postbellica in una prospettiva storica“ (Ithaca, NY and London 1990), 109, 117, 247; e Ken Silverstein, “Ford and the Führer, – Ford e il Führer ” The Nation, 24 gennaio 2000, 11–6.
11 Citazione da Michael Dobbs, “Ford and GM Scrutinized for Alleged Nazi Collaboration, – Ford e la GM sotto inchiesta per una presunta collaborazione con il Nazismo” The Washington Post, 12 dicembre 1998.
12 Tobias Jersak, “Öl für den Führer, – Petrolio per il Führer ” Frankfurter Allgemeine Zeitung, 11 febbraio 1999.
13 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico” xvi.
14 Gli autori di un recente libro sull’Olocausto mettono anche in evidenza che “nel 1930, l’antiSemitismo era molto più visibile e impudente negli Stati Uniti piuttosto che in Germania.” Vedi l’intervista di Suzy Hansen con Deborah Dwork e Robert Jan Van Pelt, autori di “Olocausto: una storia”, a http:/salon.com/books/int/2002/10/02/dwork/index.html.
15 Henry Ford, “The International Jew: The World’s Foremost Problem – Il Giudaismo Internazionale: il principale problema mondiale.” (Dearborn, MI n.d.); e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico” 162.
16 Aino J. Mayer, “Why Did the Heavens not Darken? The Final Solution in History – Perché il Cielo non si è oscurato? La soluzione finale nella Storia.” (New York 1988).
17 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio”, 279; e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 161.
18 Upton Sinclair, “The Flivver King: A Story of Ford-America – Il re dei macinini: la storia di Ford-America” (Pasadena, CA 1937), 236.
19 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 162–4.
20 Vedi Bernd Martin, “Friedensinitiativen und Machtpolitik im Zweiten Weltkrieg 1939–1942 – Iniziative di pace e politica di potere nella Seconda Guerra Mondiale 1939-1942” (Düsseldorf 1974); e Richard Overy, “Russia’s War – la Guerra di Russia” (London 1998), 34–5.
21 Vedi Clement Leibovitz e Alvin Finkel, “In Our Time: The Chamberlain-Hitler Collusion – Nella nostra epoca: la collusione Chamberlain-Hitler” (New York 1998).
22 John H. Backer, “From Morgenthau Plan to Marshall Plan – Dal Piano Morgenthau al Piano Marshall,” in Robert Wolfe, ed., “Americans as Proconsuls: United States Military Governments in Germany and Japan, 1944–1952 – Americani come proconsoli: I governi militari degli Stati Uniti in Germania e in Giappone, 1944-1952” (Carbondale and Edwardsville, IL 1984), 162.
23 Mooney viene citato in Andreas Hillgruber, “Staatsmänner und Diplomaten bei Hitler. Vertrauliche Aufzeichnungen über Unterredungen mit Vertretern des Auslandes 1939–1941- Uomini di Stato e Diplomatici di Hitler. Appunti riservati sui colloqui con i rappresentanti esteri 1939-1941“ (Frankfurt am Main 1967), 85.
24 Anita Kugler, “Das Opel-Management während des Zweiten Weltkrieges. Die Behandlung ‘feindlichen Vermögens’ und die ‘Selbstverantwortung’ der Rüstungsindustrie, – La dirigenza Opel durante la Seconda Guerra Mondiale. La gestione del „patrimonio straniero“ e la „responsabilità“ dell’industria degli armamenti” in Bernd Heyl e Andrea Neugebauer, ed., „…ohne Rücksicht auf die Verhältnisse: Opel zwischen Weltwirtschaftskrise and Wiederaufbau – …al di sopra delle situazioni: l’Opel fra crisi economica mondiale e ricostruzione,“ (Frankfurt am Main 1997), 35–68, e 40–1; “Flugzeuge für den Führer. Deutsche ‘Gefolgschaftsmitglieder’ und ausländische Zwangsarbeiter im Opel-Werk in Rüsselsheim 1940 bis 1945, – Aerei per il Führer. I „membri al seguito“ tedeschi e i lavoratori forzati stranieri alla Opel-Werk in Rüsselsheim 1940 bis 1945″ in Heyl e Neugebauer, “… ohne Rücksicht auf die Verhältnisse – …al di sopra delle situazioni,” 69–92; e Hans G. Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” in Komila Felinska, ed., „Zwangsarbeit bei Ford – Il lavoro forzato“ (Cologne 1996), 113.
25 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 93, e 95.
26 Jersak, “Öl für den Führer – Petrolio per il Führer “; Bernd Martin, “Friedens-Planungen der multinationalen Grossindustrie (1932–1940) als politische Krisenstrategie – Progetti di pace delle grandi industrie multinazionali (1932-1940) come strategia politica per la crisi,” Geschichte und Gesellschaft, 2 (1976), 82.
27 Citato in Dobbs, “U.S. Automakers.- Produttori di auto USA”
28 Jamie Lincoln Kitman, “The Secret History of Lead – La storia segreta del piombo-tetraetile,” The Nation, 20 marzo 2002.
29 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 97; Ed Cray, “Chrome Colossus: General Motors and its Times – Il colosso del cromo: la General Motors e la sua epoca” (New York 1980), 315; e Anthony Sampson, “The Seven Sisters: The Great Oil Companies and the World They Made – le Sette Sorelle: le grandi compagnie petrolifere e il mondo da loro costruito” (New York 1975), 82.
30 David Lanier Lewis, “The Public Image of Henry Ford: an American Folk Hero and His Company – L’immagine pubblica di Henry Ford: un eroe popolare Americano e la sua impresa” (Detroit 1976), 222, and 270.
31 Ralph B. Levering, “American Opinion and the Russian Alliance, 1939-1945 – L’opinione pubblica Americana e l’alleanza con la Russia 1939-1945” (Chapel Hill, NC 1976), 46; e Wayne S. Cole, “Roosevelt and the Isolationists, 1932–45 – Roosevelt e gli isolazionisti, 1932-1945” (Lincoln, NE 1983), 433–34.
32 La speranza per un conflitto, che si protraesse a lungo, fra Berlino e Mosca poteva essere riscontrata in molti articoli di giornale e nel commento, che vedeva una larga diffusione, espresso dal Senatore Harry S. Truman il 24 giugno 1941, solo due giorni dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’attacco Nazista contro l’Unione Sovietica: “Se noi vediamo la Germania sul punto di vincere, noi dovremo aiutare la Russia, e se la Russia sta vincendo, dovremo aiutare la Germania, in modo tale da realizzare la distruzione di entrambi i contendenti…” Levering, American Opinion, 46–7.
33 Anche il 5 dicembre 1941, proprio due giorni prima dell’attacco Giapponese contro Pearl Harbor, una caricatura sul Hearst’s Chicago Tribune suggeriva che l’ideale per la “civilizzazione” sarebbe stato se queste “pericolose bestie”, i Nazisti e i Sovietici, “si distruggevano le une con le altre”. La caricatura sul Chicago Tribune viene riprodotta in Roy Douglas, “The World War 1939–1943: The Cartoonists’ Vision – La Guerra Mondiale 1939-1943: il punto di vista dei vignettisti” (London e New York 1990), 86.
34 Clive Ponting, “Armageddon: The Second World War – Armageddon: la Seconda Guerra Mondiale” (London 1995), 106; e Stephen E. Ambrose, “Americans at War – Americani in Guerra” (New York 1998), 76–77.
35 Jersak, “Öl für den Führer – Petrolio per il Führer”: Jersak ha usato un documento “top secret” prodotto dalla Divisione Statale della Wehrmacht per il Petrolio, ora nella sezione militare dell’archivio di Stato tedesco (Archivi Federali), File RW 19/2694. Vedi anche Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 59–61.
36 James V. Compton, “The Swastika and the Eagle – La Svastica e l’Aquila,” in Arnold A. Offner, ed., “America and the Origins of World War II, 1933–1941 – America e le origini della Seconda Guerra Mondiale 1933-1941 (New York 1971), 179–83; Melvin Small, “The ‘Lessons’ of the Past: Second Thoughts about World War II – Le “lezioni” del passato: riflessioni sulla Seconda Guerra Mondiale,” in Norman K. Risjord , ed., “Insights on American History. – Intuizioni sulla Storia Americana, Volume II” (San Diego 1988), 20; e Andreas Hillgruber, ed., “Der Zweite Weltkrieg 1939–1945: Kriegsziele und Strategie der Grossen Mächte – La Seconda Guerra Mondiale 1939-1945: obiettivi bellici e strategia dei poteri forti”, 5th ed., (Stuttgart 1989), 83–4.
37 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 114.
38 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,”14–5; e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 104–5.
39 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 15–6.
40 Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 52, 61 e seguenti, e 67; e Kugler, “Flugzeuge- Aerei,” 85.
41 Snell, “GM and the Nazis – La GM e i Nazisti,” Ramparts, 12 (giugno1974), 14–15; Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 53, e 67; e Kugler, “Flugzeuge- Aerei,” 89.
42 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 112.
43 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 99.
44 Lindner, “Das Reichskommissariet- il Commissariato di Stato”, 104.
45 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 12, e 14; Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115; e Reich, “The Fruits of Fascism – I frutti del Fascismo”, 121, e123.
46 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 15–16.
47 Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 55, e 67; e Kugler, “Flugzeuge – Aerei,” 85.
48 Comunicazione di A. Neugebauer, dell’archivio cittadino a Rüsselsheim, all’autore, 4 febbraio 2000; e Lindner, “Das Reichskommissariet- il Commissariato di Stato”, 126–27.
49 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115.
50 Gian Trepp, “Kapital über alles: Zentralbankenkooperation bei der Bank für Internationalen Zahlungsausgleich im Zweiten Weltkrieg – Il capitale soprattutto: la cooperazione delle Banche Centrali con la Banca per il Risarcimento Internazionale nella Seconda Guerra Mondiale ,” in Philipp Sarasin e Regina Wecker, eds., “Raubgold, Reduit, Flüchtlinge: Zur Geschichte der Schweiz im Zweiten Weltkrieg – Oro rapinato, imprigionati, profughi: dalla storia della Svizzera nella Seconda Guerra Mondiale” (Zürich 1998), 71–80; Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 1–19 e 175; Anthony Sampson, “The Sovereign State of ITT – Lo Stato Sovrano dell’ITT” (New York 1973), 47; “VS-Banken collaboreerden met nazi’s – Le Banche Centrali che hanno collaborato con il Nazismo,” Het Nieuwsblad, Brussels, 26 dicembre 1998; e William Clarke, “Nazi Gold: The Role of the Central Banks — Where Does the Blame Lie? – L’oro dei Nazisti: il ruolo delle Banche Centrali – Dove sta la responsabilità?,” Central Banking, 8, (estate 1997), a http://www.centralbanking.co.uk/cbv8n11.html.
51 Bernt Engelmann, “Einig and gegen Recht und Freiheit: Ein deutsches Anti-Geschichtsbuch – D’accordo e contro il diritto e la libertà: un libro di storia tedesco” (München 1975), 263–4; Marie-Luise Recker, “Zwischen sozialer Befriedung und materieller Ausbeutung: Lohn- und Arbeitsbedingungen im Zweiten Weltkrieg – Fra la pacificazione sociale e lo sfruttamento materiale: condizioni dei salari e del lavoro nella Seconda Guerra Mondiale ,” in Wolfgang Michalka, ed., “Der Zweite Weltkrieg. Analysen, Grundzüge, Forschungsbilanz – La Seconda Guerra Mondiale. Analisi, tratti fondamentali, bilancio di una ricerca” (Monaco e Zurigo 1989), 430–44, in particolare 436.
52 Lindner, “Das Reichkommissariat – Il Commissariato di Stato”, 118.
53 Pendergrast “For God, Country, and Coca-Cola – Per Dio, la Patria, e la Coca-Cola” 228.
54 “Ford-Konzern wegen Zwangsarbeit verklagt – Il gruppo industriale Ford citato in giudizio a causa del lavoro forzato,” Kölner Stadt-Anzeiger, 6 marzo 1998, come citato in “Antifaschistische Nachrichten – Notizie Antifasciste”, 6 (1998), a http://www.antifaschistischenachricten.de/1998/06/010.htm.
55 Karola Fings, “Zwangsarbeit bei den Kölner Ford-Werken – Lavoro forzato alla Ford-Werken di Colonia,” in Felinska, “Zwangsarbeit bei Ford – Lavoro forzato da Ford,” (Colonia 1996), 108. Vedi anche Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 14; e Billstein et al., 53–5, 135–56.
56 Kugler, “Das Opel-Management – La Dirigenza Opel,” 57; Kugler, “Flugzeuge – Aerei,” 72–6, citazione da 76; e Billstein et al., 53–5.
57 “GM-financed patriotic posters – I manifesti patriottici finanziati dalla GM” può essere trovato nella sezione “Still Pictures” dell’Archivio Nazionale a Washington, DC.
58 Michael S. Sherry, “In the Shadow of War: The United States Since the 1930s – All’ombra della guerra: gli Stati Uniti, a partire dagli anni Trenta(New Haven and London 1995), 172.
59 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, xv, e xxi.
60 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 44–6.
61 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115–6; Reich, “The Fruits of Fascism – I frutti del Fascismo, 124–5; e Mira Wilkins e Frank Ernest Hill, “American Business Abroad: Ford on Six Continents – Affari Americani all’estero: Ford sui sei Continenti” (Detroit 1964), 344–6.
62 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 212–23; Carolyn Woods Eisenberg, “U.S. Policy in Post-war Germany: The Conservative Restoration, – La politica USA nella Germania post-bellica: la restaurazione della conservazione,” Science and Society, 46 (Spring 1982), 29; Carolyn Woods Eisenberg, “The Limits of Democracy: US Policy and the Rights of German Labor, 1945–1949 – I limiti della democrazia: la politica USA e i diritti del lavoro in Germania 1945-1949,” in Michael Ermarth, ed., “America and the Shaping of German Society, 1945-1955 – America e la formazione dellaa società Tedesca 1945-1955” (Providence, RI and Oxford 1993), 63–4; Billstein et al., 96–97; e Werner Link, “Deutsche und amerikanische Gewerkschaften und Geschäftsleute 1945–1975: Eine Studie über transnationale Beziehungen – Sindacati e uomini d’affari tedeschi e americani 1945-1975: uno studio sui rapporti transnazionali” (Düsseldorf 1978), 100–06, e 88.
63 Gabriel Kolko, “The Politics of War: The World and United States Foreign Policy, 1943–1945 – Le politiche di guerra: il mondo e la politica estera degli Stati Uniti 1943-1945” (New York 1968), 331, e 348–9; Wilfried Loth, “Stalins ungeliebtes Kind: Warum Moskau die DDR nicht wollte – La creatura non amata di Stalin: perché Mosca non voleva la DDR” (Berlino 1994), 18; Wolfgang Krieger, “Die American Deutschlandplanung, Hypotheken und Chancen für einen Neuanfang – Il piano Americano per la Germania, ipoteche e occasioni per un nuovo inizio,” in Hans-Erich Volkmann, ed., “Ende des Dritten Reiches — Ende des Zweiten Weltkriegs: Eine perspektivische Rückschau – Fine del Terzo Reich – Fine della Seconda Guerra Mondiale: un punto di vista retrospettivo” (Monaco e Zurigo 1995), 36, e 40–1; e Lloyd C. Gardner, “Architects of Illusion: Men and Ideas in American Foreign Policy 1941–1949 – Architetti di illusioni: uomini ed idee nella politica estera Americana 1941-1949” (Chicago 1970), 250–1.
64 Kolko, “The Politics of War – Le politiche di guerra,” 507–11; Rolf Steininger, “Deutsche Geschichte 1945–1961: Darstellung und Dokumente in zwei Bänden. Band 1 – Storia Tedesca 1945-1961: Compendio e documenti in due volumi. Volume I ” (Frankfurt am Main 1983), 117–8; Joyce e Gabriel Kolko, “The Limits of Power: The World and United States Foreign Policy, 1945–1954 – I confini del potere: Il mondo e la politica estera degli Stati Uniti, 1945–1954” (New York 1972), 125–6; Reinhard Kühnl, “Formen bürgerlicher Herrschaft: Liberalismus — Faschismus – La conformazione del dominio borghese. Liberalismo-Fascismo” (Reinbek bei Hamburg 1971), 71; Reinhard Kühnl, ed., “Geschichte und Ideologie: Kritische Analyse bundesdeutscher Geschichtsbücher, second edition – Storia e Ideologia: analisi critica dei libri di storia dello stato federale tedesco ” (Reinbek bei Hamburg 1973), 138–9; Peter Altmann, ed., “Hauptsache Frieden. Kriegsende-Befreiung-Neubeginn 1945–1949: Vom antifaschistischen Konsens zum Grundgesetz – La pace, questione fondamentale. La fine della guerra-la liberazione-un nuovo inizio1945–1949: dal consenso antifascista alla Costituzione” (Frankfurt-am-Main, 1985), 58 ff.; e Gerhard Stuby, “Die Verhinderung der antifascistisch-demokratischen Umwälzung und die Restauration in der BRD von 1945–1961, Gli ostacoli alla rivoluzione antifascista-democratica e la restaurazione nella Repubblica Federale di Germania 1945–1961” in Reinhard Kühnl, ed., “Der bürgerliche Staat der Gegenwart: Formen bürgerlicher Herrschaft II – Lo stato borghese del presente: la conformazione del dominio borghese II” (Reinbek bei Hamburg 1972), 91–101.
65 Silverstein, “Ford and the Führer,” 15–6; and Lindner, Das Reichskommissariat, 121.
https://miccolismauro.wordpress.com/2015/05/09/il-profitto-uber-alles-il-profitto-innanzitutto-le-corporations-americane-ed-hitler-di-jacques-r-pauwels/
Questo articolo è stato pubblicato da Global Research l’8 giugno 2004.Mentre l’America conduce la guerra in Medio Oriente, questo articolo incisivo e frutto di ricerche accurate da parte di Jacques Pauwels fornisce una comprensione storica delle relazioni fra guerra e profitto. (Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova).
Negli Stati Uniti, la Seconda Guerra Mondiale è considerata generalmente come “la buona guerra”. In contrasto con molte delle guerre dell’America, per ammissione generale ritenute perniciose, come le Guerre Indiane, quasi dei genocidi, e come il feroce conflitto nel Vietnam, la Seconda Guerra Mondiale è largamente celebrata come una “crociata”, nella quale gli USA hanno combattuto incondizionatamente dalla parte della democrazia, della libertà e della giustizia, contro le dittature. Non fa meraviglia che il Presidente George W. Bush ami paragonare l’attuale “guerra contro il terrorismo” con la Seconda Guerra Mondiale, insinuando che l’America ancora una volta si colloca dalla parte giusta in un conflitto apocalittico tra il Bene e il Male. Comunque, le guerre mai hanno presentato un lato scuro e l’altro completamente candido, come Mr. Bush vorrebbe farci credere, e questo può applicarsi anche alla Seconda Guerra Mondiale. L’America certamente merita credito per il suo contributo importante alla vittoria, dopo strenua lotta, che alla fine ha arriso agli Alleati. Ma il ruolo delle imprese Americane giocato nella guerra è seccamente sintetizzato dalla dichiarazione del Presidente Roosevelt, per cui gli USA erano un “arsenale democratico”. Quando gli Americani sbarcarono in Normandia nel giugno 1944 e catturarono i primi autocarri, scoprirono che questi veicoli erano forniti di motori prodotti da industrie Americane, come la Ford e la General Motors. (1) Quindi, era accaduto che il sistema industriale e finanziario Americano era stato utilizzato come arsenale del Nazismo. I Fans del Führer Fin dal momento del suo arrivo al potere, Mussolini aveva espresso una grandissima ammirazione verso il sistema delle imprese Americane in una società che aveva definito dal punto di vista statuale come “una bella e giovane rivoluzione”. (2) D’altro canto, Hitler inviava segnali eterogenei. Come le loro controparti Germaniche, gli uomini di affari Americani da molto tempo erano preoccupati per le intenzioni e i metodi di questi parvenus plebei, la cui ideologia veniva definita Nazional-Socialismo, il cui partito, esso stesso, si identificava come un partito dei lavoratori, e che parlava sinistramente di essere portatore di cambiamenti rivoluzionari. (3) Però, alcuni dei leaders di più alto profilo nel sistema d’impresa Americano, come Henry Ford, vedevano con favore e ammiravano il Führer fin dalle prime fasi. (4) Altri ammiratori di Hitler della prima ora erano il barone della stampa Randolph Hearst e Irénée Du Pont, a capo del trust Du Pont, che secondo Charles Higham, avevano “appassionatamente seguito la carriera del futuro Führer già dagli anni Venti” e lo avevano sostenuto finanziariamente. (5) Col passare del tempo, molti dei capitani di industria Americani impararono ad amare il Führer. Si è spesso accennato che l’attrattiva per Hitler era una questione di personalità, materia di psicologia. Si presume che le personalità autoritarie non potevano fare a meno di avere simpatia ed ammirazione per un uomo che predicava le virtù del “principio di supremazia” e metteva in pratica quello che predicava, prima nel suo partito e poi per l’intera Germania. Sebbene citi anche altri fattori, essenzialmente è in questi termini che Edwin Black, autore del libro eccellente sotto vari aspetti “IBM e l’Olocausto”, spiega il caso del presidente dell’IBM, Thomas J. Watson, che aveva incontrato Hitler in parecchie occasioni negli anni Trenta ed era rimasto affascinato dal nuovo regime autoritario della Germania. Ma è nel dominio della politica economica, non della psicologia, che possiamo più proficuamente capire perché il sistema economico ed industriale Americano abbia abbracciato Hitler.
Nel corso degli anni Venti, molte corporations Americane particolarmente importanti avevano goduto di considerevoli investimenti in Germania. Prima della Prima Guerra Mondiale, la IBM aveva insediato in Germania una sua filiale, la Dehomag; negli anni Venti, la General Motors aveva preso il control
lo del più grosso produttore industriale di auto della Germania, la Adam Opel AG; e Ford aveva gettato le basi di un impianto succursale, più tardi noto come la Ford-Werke, a Colonia. Altre compagnie USA contraevano società strategiche con compagnie Tedesche. La Standard Oil del New Jersey — oggi Exxon — sviluppava collegamenti strettissimi con il trust Germanico IG Farben. Dall’inizio degli anni Trenta, una élite di circa venti fra le più grandi corporations Americane, fra cui Du Pont, Union Carbide, Westinghouse, General Electric, Gillette, Goodrich, Singer, Eastman Kodak, Coca-Cola, IBM, e ITT aveva rapporti con la Germania. Per ultimo, molti studi legali Americani, compagnie di assicurazioni e finanziarie, e banche venivano profondamente coinvolte in un’offensiva finanziaria Statunitense in Germania; fra questi, il famoso studio legale di Wall Street, Sullivan & Cromwell, e le banche J. P. Morgan e Dillon, Read and Company, così come la Union Bank di New York, di proprietà di Brown Brothers & Harriman. La Union Bank era intimamente collegata con l’impero finanziario ed industriale del magnate Tedesco dell’acciaio Thyssen, il cui apporto finanziario aveva permesso ad Hitler di arrivare al potere. Questa banca era gestita da Prescott Bush, nonno di George W. Bush. Si suppone che anche Prescott Bush fosse un supporter entusiasta di Hitler, visto che a costui Bush travasava denaro via Thyssen, e in cambio realizzava considerevoli profitti col fare affari con la Germania Nazista; con questi profitti aveva lanciato suo figlio, più tardi divenuto Presidente degli USA, negli affari del petrolio. (6) Le avventure Americane d’oltremare ebbero scarso successo agli inizi degli anni Trenta, visto che la Grande Depressione aveva colpito duramente, in particolare la Germania. La produzione e i profitti erano precipitati in modo pesante, la situazione politica era estremamente instabile, vi erano continuamente scioperi e scontri per le strade fra Nazisti e Comunisti, e molti temevano che il paese fosse maturo per una rivoluzione “rossa”, dello stesso stampo di quella che aveva portato al potere i Bolscevichi nella Russia del 1917. Comunque, sostenuto dalla potenza e dal denaro degli industriali e dei banchieri Tedeschi, come Thyssen, Krupp, e Schacht, Hitler arrivava al potere nel gennaio 1933, e non solo la politica ma anche la situazione socio-economica mutava drasticamente. Improvvisamente, le filiali Tedesche delle corporations Americane cominciarono a mietere profitti. Perché? Dopo la presa del potere da parte di Hitler, i leaders affaristici con attività in Germania trovarono a loro immensa soddisfazione che la cosiddetta rivoluzione Nazista conservava lo “status quo socio-economico”. La stigmate del fascismo Teutonico del Führer, come di ogni altra varietà di fascismo, era reazionaria di natura ed estremamente vantaggiosa per gli scopi dei capitalisti. Portato al potere dagli uomini di affari e dai banchieri Tedeschi, Hitler serviva agli interessi di questi “deleganti”. La sua principale iniziativa era stata di sciogliere i sindacati dei lavoratori e di schiacciare i Comunisti e i tanti attivisti Socialisti, sbattendoli in prigione e nei primi campi di concentramento, che erano stati appositamente impiantati per accogliere la sovrabbondanza di prigionieri politici di sinistra. Queste spietate misure non solo rimossero il timore di un cambiamento rivoluzionario — incarnato dai Comunisti Tedeschi — ma anche castrarono la classe lavoratrice della Germania e la trasformarono in una impotente “massa di seguaci” (Gefolgschaft), per usare la terminologia Nazista, che veniva incondizionatamente messa a disposizione dei datori di lavoro, i Thyssen e i Krupp. Inoltre, le imprese Tedesche, comprese le succursali Americane, anche se non tutte, approfittarono di questa situazione e tagliarono di netto i costi del lavoro. Ad esempio, la Ford-Werke, riduceva i costi del lavoro, dal 15% del volume di affari nel 1933 a solo l’11% nel 1938. (Research Findings, 135–6) L’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen accresceva in modo considerevole la sua redditività poiché, sotto il regime di Hitler, i lavoratori “erano poco più che servi ai quali era proibito non solo scioperare, ma anche cambiare lavoro, costretti a lavorare più duramente e più velocemente, mentre i loro salari erano deliberatamente tenuti ai livelli minimi.” (7) Infatti, nella Germania Nazista, i salari effettivi si erano abbassati rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza erano accresciuti, e non era possibile far parola alcuna di problematiche del lavoro, tanto meno cercare di organizzare uno sciopero, senza che immediatamente si scatenasse una risposta armata da parte della Gestapo, con il risultato di arresti e licenziamenti. Questo è stato il caso della fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nel giugno 1936. (Billstein et al., 25) Come ha scritto dopo la guerra il professore e membro della Resistenza anti-fascista della Turingia, Otto Jenssen, i dirigenti delle imprese della Germania erano felici “che il terrore per il campo di concentramento rendesse i lavoratori Tedeschi docili e mansueti come cagnolini.” (8) I proprietari e i managers delle corporations Americane con investimenti in Germania erano non meno incantati, e se apertamente esprimevano la loro ammirazione per Hitler — come erano usi fare il Presidente della General Motors, William Knudsen, e il boss della ITT Sosthenes Behn — questo avveniva senza alcun dubbio perché Hitler aveva risolto i problemi sociali della Germania in modo tale da creare giovamento ai loro interessi. (9) Depressione? Quale Depressione? Hitler si era accattivato il sistema delle corporations Americane per un’altra ragione veramente importante: aveva fatto apparire, come per magia, la soluzione al problema immenso della Grande Depressione. Il suo rimedio forniva una sorta di stratagemma Keynesiano, tramite commesse statuali per stimolare la domanda, per rimettere in moto la produzione e fare il possibile in favore delle imprese in Germania — comprese anche le imprese di proprietà straniera — per incrementare in modo assoluto i loro livelli di produzione ed acquisire un livello di redditività senza precedenti. Però, quello che lo stato Nazista ordinava all’industria Tedesca era materiale bellico ed era piuttosto chiaro che la politica di riarmo di Hitler avrebbe portato inesorabilmente alla guerra, dato che solo il bottino risultante da una guerra vittoriosa avrebbe permesso al regime di pagare i conti enormi presentati dai fornitori. Già di per sé, il programma di riarmo Nazista si rivelava come una meravigliosa vetrina di opportunità per le imprese fornitrici Statunitensi. Ford pretende che la sua Ford-Werke abbia subito delle discriminazioni da parte del regime Nazista, per il fatto che la proprietà era straniera, ma ammette che per tutta la seconda metà degli anni Trenta la sua filiale di Colonia era stata “formalmente legalizzata dalle autorità Naziste…essendo la sua origine Tedesca” e quindi “con i requisiti per ricevere contratti governativi.” Ford trasse profitto da questa opportunità, anche se le commesse del governo erano quasi esclusivamente per forniture militari. La filiale Tedesca di Ford, la Ford-Werke , che nei primi anni Trenta aveva incassato pesanti perdite, grazie ai contratti lucrativi con il governo, derivati dalla spinta Hitleriana al riarmo, vedeva un aumento spettacolare dei propri profitti annuali, dai 63.000 marchi (RM-Reichsmarks) nel 1935 a 1.287.800 RM nel 1939. (Research Findings, 21) La fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nei pressi di Mainz, mieteva un successo ancora migliore. La sua quota di mercato Tedesco dell’automobile balzava dal 35% nel 1933 a più del 50% nel 1935, e la succursale GM, che aveva perso denaro all’inizio degli anni Trenta, divenne estremamente redditizia grazie al boom economico prodotto dal programma di riarmo di Hitler. Nel 1938 venivano registrati profitti per 35 milioni di marchi RM — quasi 14 milioni di dollari (USA). (Research Findings, 135–6; e Billstein et al., 24) (10) Nel 1939, alla vigilia della guerra, il Presidente della GM, Alfred P. Sloan, pubblicamente motivava il fatto di fare affari nella Germania di Hitler, sottolineando la natura altamente vantaggiosa delle operazioni della GM sotto il Terzo Reich. (11) Ancora un’altra corporation Americana che aveva trovato un filone d’oro nel Terzo Reich di Hitler è stata la IBM. La sua filiale Tedesca, la Dehomag, ha fornito ai Nazisti l’apparecchiatura a schede perforate — antesignana del computer — necessaria ad automatizzare la produzione del paese, e con questo la IBM-Germany realizzava un sacco di soldi. Nel 1933, l’anno della presa del potere da parte di Hitler, la Dehomag realizzava profitti per un milione di dollari, e durante i primi anni del regime di Hitler versava alla IBM negli USA qualcosa come 4.5 milioni di dollari di dividendi. “Nel 1938, ancora in piena Depressione, i profitti annuali si aggiravano sui 2.3 milioni di marchi RM; nel 1939 i profitti della Dehomag aumentavano in modo spettacolare a circa 4.0 milioni di marchi RM”, scrive Edwin Black. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119, 120–1, 164, 198, and 222) Le imprese Americane con succursali in Germania non erano le uniche a guadagnare fortune inaspettate dalle spinte di Hitler al riarmo. La Germania, in preparazione della guerra, stava immagazzinando petrolio e molto di questo petrolio veniva fornito da imprese Americane. La Texaco realizzava grandi profitti dalle vendite alla Germania Nazista, e non fa sorpresa che il suo Presidente Torkild Rieber, fosse diventato un altro dei potenti imprenditori Americani che ammiravano Hitler. Un membro dei servizi segreti Tedeschi riportava che costui era “assolutamente filo Tedesco” e “un sincero ammiratore del Führer”. Sta di fatto che Rieber era divenuto amico personale di Göring, lo czar economico di Hitler. (12) Questo valeva anche per Ford, la cui impresa non solo produceva per i Nazisti nella stessa Germania, ma anche esportava autocarri parzialmente assemblati direttamente dagli USA in Germania. Questi veicoli venivano poi completamente assemblati nella Ford-Werke a Colonia ed erano pronti ad essere usati al momento giusto nella primavera del 1939, quando Hitler occupava la parte della Cecoslovacchia che non gli era stata ceduta nell’infame Patto di Monaco dell’anno precedente. Per giunta, negli ultimi anni Trenta, Ford aveva inviato in Germania materie prime strategiche, a volte tramite sue società consociate in paesi terzi; solo all’inizio del 1937, queste spedizioni comprendevano quasi 2 milioni di libbre di gomma e 130.000 libbre di rame. (Research Findings, 24, e 28) Le corporations Americane facevano il pieno di denaro nella Germania Hitleriana; questa è la ragione, e non il presunto carisma del Führer, per cui i proprietari e i managers di queste imprese lo adoravano! Per contro, Hitler e i suoi compagnoni si compiacevano di molto per le performances del capitale Americano nello stato Nazista. Infatti, la produzione di materiale bellico da parte delle consociate Americane onorava e addirittura superava le aspettative della dirigenza Nazista. Berlino pagava pronta cassa ed Hitler in persona mostrava il suo apprezzamento, assegnando prestigiose decorazioni a gente come Henry Ford, Thomas Watson della IBM, e James D. Mooney, direttore delle esportazioni della GM. Lo stock di investimenti Americani in Germania era accresciuto enormemente dopo la conquista del potere da parte di Hitler nel 1933. La motivazione principale di tutto questo era che il regime Nazista non consentiva ai profitti realizzati da imprese straniere di rientrare nelle nazioni di origine, almeno in teoria. In realtà, i centri operativi delle corporations potevano eludere questo embargo tramite stratagemmi, e così alle filiali Tedesche venivano pagate le fatture in “royalties” e con ogni sorta di “parcelle”. Ancora, le restrizioni comportavano che i profitti venivano largamente reinvestiti all’interno del paese delle grandi opportunità, che a quel tempo la Germania dimostrava di essere, per esempio nella modernizzazione di impianti esistenti, nella costruzione o nell’acquisizione di nuove fabbriche e nell’acquisto di obbligazioni del Reich e di beni immobili. Così, la IBM reinvestiva i suoi considerevoli guadagni in una nuova fabbrica a Berlino-Lichterfelde, in un allargamento delle sue strutture a Sindelfingen, vicino Stoccarda, in numerosi uffici succursali in tutto il Reich, e nell’acquisto di appartamenti a Berlino, di altre proprietà immobiliari e di strutture per attività materiali. (Black, 60, 99, 116, e 122–3) Conseguentemente a queste circostanze, il valore del capitale di IBM in Germania era aumentato in modo considerevole, e alla fine del 1938 il valore netto della Dehomag era raddoppiato, dai 7.7 milioni di marchi RM del 1934 ad oltre i 14 milioni di marchi RM. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119–21, 164, 198, and 222) Negli anni Trenta, il valore delle proprietà complessive della Ford-Werke cresceva come i funghi, dai 25.8 milioni di marchi RM del 1933 ai 60.4 milioni di marchi RM del 1939. (Research Findings, 133) Sotto Hitler, gli investimenti Americani in Germania continuarono ad espandersi, e al tempo di Pearl Harbor ammontavano a circa 475 milioni di dollari. (Research Findings, 6) (13) Meglio Hitler di “Rosenfeld” Per tutti i “tempestosi anni Trenta” i profitti delle imprese negli USA si erano mantenuti sul depresso; le società come la GM e Ford potevano solo sognarsi di realizzare in patria il genere di ricchezze che le loro affiliate in Germania stavano realizzando grazie a Hitler. Inoltre, in casa, il sistema imprenditoriale Americano stava vivendo problemi con attivisti sindacali, Comunisti, e altri radicali. Cosa pensavano i nervosi detentori di questi marchi di fabbrica della personalità e del regime del Führer? I leaders delle imprese Americane subivano per questo qualche turbamento? All’apparenza non molto, se non proprio affatto. Ad esempio, l’odio razziale profuso da Hitler non offendeva eccessivamente la loro sensibilità. Dopo tutto, il razzismo contro i non-Bianchi rimaneva sistemico in tutti gli Stati Uniti e l’anti-Semitismo era comune nella classe imprenditoriale. Nei clubs esclusivi e negli hotels di gran classe patrocinati dai capitani di industria, gli Ebrei vi erano raramente ammessi; e molti alti dirigenti delle imprese Americane si dichiaravano apertamente anti-Semiti. (14) Agli inizi degli anni Venti, Henry Ford fece pubblicare un libro virulentemente anti-Semita, “L’Internazionale Giudea”, che veniva tradotto in molte lingue; Hitler ne lesse la versione Tedesca e in seguito ammise che il testo gli aveva fornito ispirazione ed incoraggiamento. Un altro magnate Americano, notoriamente anti-Semita, era Irénée Du Pont, anche se la famiglia Du Pont aveva avuto antenati Ebrei. (15) L’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano assomigliava fortemente a quello di Hitler, il cui punto di vista sull’Ebraismo era interconnesso intimamente con il suo giudizio sul Marxismo, come Arno J. Mayer ha argomentato in modo convincente nel suo libro “Why Did the Heavens not Darken – Perché il Cielo non si è oscurato?” (16) Hitler dichiarava di essere un socialista, ma era sottinteso che il suo era un socialismo “nazionale”, un socialismo solo per i Tedeschi di razza pura. Quanto all’autentico socialismo, che predicava la solidarietà internazionale fra le classi lavoratrici e trovava la sua ispirazione nell’opera di Karl Marx, questo veniva disprezzato da Hitler come un’ideologia Giudaica che si proponeva di rendere schiavi o addirittura annullare i Tedeschi e gli altri “Ariani”. Hitler detestava come “Giudaiche” tutte le forme di Marxismo, ma nessuna più del Comunismo (o “Bolscevismo”) e denunciava l’Unione Sovietica come patria del socialismo “Giudaico” internazionale. Negli anni Trenta, con le stesse modalità, l’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano si manifestava come l’altra faccia della medaglia dell’anti-socialismo, anti-Marxismo, e del disprezzo dei rossi. Molti uomini d’affari Americani condannavano pubblicamente il New Deal di Roosevelt come un’interferenza “socialistica” in economia. Gli anti-Semiti del sistema imprenditoriale Americano consideravano Roosevelt come un cripto-Comunista ed un agente degli interessi degli Ebrei, se non addirittura di essere lui stesso un “Giudeo”; di routine si faceva riferimento a lui come “Rosenfeld”, e il suo New Deal veniva storpiato con “Jew (Giudeo) Deal”. (17) Nel suo libro“ The Flivver King”, Upton Sinclair ha descritto l’anti-Semita dichiarato Henry Ford come sognante un movimento fascista Americano, che “si impegnava nel paese ad abbattere i Rossi e a preservare gli interessi padronali; ad estromettere il Bolscevico [Roosevelt] dalla Casa Bianca e tutti i suoi professori progressisti dalle cariche di governo… [e] a considerare un illecito penale degno della fucilazione il parlare di comunismo o la proclamazione di uno sciopero.” (18) Anche altri magnati Americani desideravano ardentemente un Salvatore fascista che potesse sbarazzare l’America dai “Rossi” e quindi ridonarle prosperità e redditività. Du Pont forniva generosi contributi finanziari per sostenere le organizzazioni fasciste presenti negli Stati Uniti, come la famigerata “Black Legion – la Legione Nera”, ed era anche coinvolto nei piani di un colpo di stato fascista a Washington. (Hofer and Reginbogin, 585–6) (19) Perché preoccuparsi per la Guerra Incombente? Era del tutto ovvio che Hitler, riarmando la Germania fino ai denti, prima o dopo avrebbe scatenato un grave conflitto. Potessero avere avuto i capitani di industria Americani qualche timore a riguardo, presto le loro apprensioni venivano fugate, visto che negli anni Trenta gli esperti di diplomazia internazionale e di economia, senza eccezioni, si aspettavano che Hitler avrebbe risparmiato i paesi occidentali, e avrebbe attaccato e distrutto l’Unione Sovietica, come promesso nel “Mein Kampf”. Ad incoraggiarlo e a sostenerlo in questa impresa, che egli considerava la grande missione della sua vita, (20) veniva il segreto obiettivo dell’infame politica di acquiescenza perseguita da Londra e Parigi, e tacitamente approvata da Washington. (21) I leaders del sistema imprenditoriale in tutti i paesi occidentali, più nettamente negli USA, detestavano l’Unione Sovietica, poiché questo stato era la culla dell’ “antisistema” comunista in contrapposizione all’ordine capitalista internazionale e una fonte di ispirazione per gli stessi “rossi” Americani. Inoltre, trovavano particolarmente offensivo che la patria del comunismo non fosse caduta preda della Grande Depressione, ma sperimentasse una rivoluzione industriale, che in seguito è stata favorevolmente paragonata dallo storico Americano John H. Backer al tanto decantato “miracolo economico” della Germania Ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale. (22) La politica di pacificazione e di acquiescenza era un progetto ambiguo, i cui reali obiettivi dovevano essere celati all’opinione pubblica della Gran Bretagna e della Francia. In modo spettacolare si ottenne un effetto contrario, dato che i contorcimenti di questa politica alla fine resero Hitler diffidente verso le effettive intenzioni di Londra e Parigi, e lo indussero a sottoscrivere un accordo con Stalin, e lo portarono a scatenare la guerra della Germania contro la Francia e la Gran Bretagna, piuttosto che contro l’Unione Sovietica. Tuttavia, il sogno di una crociata Tedesca contro l’Unione Sovietica comunista nell’interesse dell’Occidente capitalistico non rinunciò a morire. Londra e Parigi scatenarono semplicemente una “Guerra Fasulla” contro la Germania, sperando che Hitler alla fine si sarebbe rivolto contro l’Unione Sovietica. Questa era anche l’idea che informava le missioni quasi-ufficiali a Londra e a Berlino intraprese da James D. Mooney della GM, che cercava insistentemente — come aveva fatto l’ambasciatore USA a Londra, Joseph Kennedy, padre di John F. Kennedy — di convincere i dirigenti della Germania e della Gran Bretagna ad appianare i loro inopportuni conflitti, in modo che Hitler potesse dedicare la sua completa attenzione al suo grande “Progetto Orientale”. In un incontro con Hitler nel marzo 1940, Mooney lanciava un appello di pace per l’Europa Occidentale, dichiarando che “gli Americani erano comprensivi del punto di vista Tedesco rispetto alla questione dello spazio vitale” — in altre parole, che loro non avevano nulla in contrario rispetto alle pretese territoriali Tedesche nei riguardi dell’Est Europeo. (Billstein et al., 37–44) (23) Queste iniziative Americane, comunque, non avrebbero prodotto i risultati sperati. Senza ombra di dubbio, i proprietari e i managers delle corporations Statunitensi con filiali in Germania si rammaricarono che la guerra scatenata da Hitler nel 1939 fosse una guerra contro l’Occidente, ma in ultima analisi questo rammarico si palesava non più che tanto. Quello che era di sicura importanza consisteva in questo: aiutare Hitler a preparare la guerra significava fare buoni affari e la guerra stessa apriva, ancor di più, prospettive inimmaginabili di fare affari e realizzare profitti. Imporre il Blitz alla Guerra Lampo I successi militari della Germania del 1939 e del 1940 si fondavano su una nuova ed estremamente mobile forma di muovere guerra, la Blitzkrieg, la Guerra Lampo, che consisteva di attacchi estremamente rapidi e altamente sincronizzati dall’aria e per terra. Per intraprendere la Guerra Lampo, Hitler necessitava di macchine belliche, carri armati, autocarri, aeroplani, carburanti ed oli per motori, benzina, gomma e sistemi di comunicazione sofisticati per assicurare agli Stukas di colpire in tandem con i Panzers. Molto di questo equipaggiamento veniva fornito da imprese Americane, soprattutto dalle affiliate Tedesche delle grandi corporations Americane, ma molto veniva anche importato dagli Stati Uniti, sebbene solitamente attraverso paesi terzi. Senza questo tipo di supporto Americano, nel 1939 e nel 1940 il Führer poteva solo sognarsi di “guerre lampo”, seguite da “vittorie lampo”. La maggior parte dei mezzi da trasporto e degli aeroplani di Hitler venivano prodotti dalle filiali Tedesche della GM e della Ford. Alla fine degli anni Trenta queste imprese avevano gradualmente rimosso la produzione civile per impegnarsi esclusivamente sullo sviluppo di apparecchiature militari per l’esercito e per l’aviazione militare della Germania. Questo mutamento, richiesto— se non ordinato — dalle autorità Naziste, non solo era stato approvato, ma anche attivamente incoraggiato dai centri direzionali delle imprese negli USA. La Ford-Werke a Colonia procedeva non solo a fabbricare senza limiti mezzi di trasporto per materiali ed uomini, ma anche macchinari bellici e parti di ricambio per la Wehrmacht. La nuova fabbrica Opel della GM nel Brandenburgo avviava la produzione degli autocarri “Blitz” per la Wehrmacht, mentre la fabbrica principale a Rüsselsheim produceva principalmente per la Luftwaffe, assemblando aeroplani come lo JU-88, il cavallo di battaglia della flotta di bombardieri della Germania. Ad un certo punto, la GM e Ford insieme si aggiudicavano non meno della metà dell’intera produzione Tedesca di carri armati. (Billstein et al., 25,) (24) Intanto la ITT aveva acquisito la quarta parte dei titoli azionari della fabbrica di aeroplani Focke-Wulf, e così contribuiva alla costruzione di aerei da combattimento. (25) Forse i Tedeschi avrebbero potuto assemblare veicoli ed aerei senza l’assistenza Americana. Ma la Germania necessitava disperatamente di materie prime strategiche, come gomme e petrolio, che erano indispensabili a combattere una guerra che si basava sulla mobilità e la velocità. Le corporations Statunitensi andarono in soccorso. Come abbiamo fatto menzione in precedenza, la Texaco aiutava i Nazisti ad immagazzinare carburanti. Per giunta, quando in Europa la guerra era sul punto di scoppiare, grandi quantità di gasolio, oli lubrificanti, e altri prodotti petroliferi venivano spedite via mare in Germania non solo dalla Texaco ma anche dalla Standard Oil, specialmente attraverso i porti della Spagna. (Fra l’altro, la Flotta Tedesca veniva rifornita di carburante dal petroliere Texano William Rhodes Davis.) (26) Negli anni Trenta, la Standard Oil aveva assistito la IG Farben nello sviluppo di carburanti sintetici come alternativa al petrolio naturale, di cui la Germania doveva importare anche una singola goccia. (Hofer and Reginbogin, 588–9) Albert Speer, l’architetto di Hitler e Ministro degli Armamenti per il tempo di guerra, dopo il conflitto dichiarava che senza certi tipi di carburante sintetico realizzati con l’aiuto delle industrie Americane, Hitler “non avrebbe mai preso in considerazione l’invasione della Polonia”. (27) Questo valeva per i Focke-Wulfs e per altri aerei veloci da combattimento Tedeschi, che non avrebbero potuto acquisire la loro implacabile velocità senza un additivo nel loro carburante, il piombo tetraetile di sintesi; i Tedeschi stessi, in seguito, ammisero che senza il piombo tetraetile il concetto globale di Blitzkrieg sarebbe risultato inconcepibile. Questo magico ingrediente era stato sintetizzato da una impresa, la Ethyl GmbH, una affiliata del trio formato da Standard Oil, da IG Farben, partner Tedesca della Standard, e da GM. (Hofer and Reginbogin, 589) (28) La guerra lampo, la “Blitzkrieg”, prevedeva attacchi da terra e dall’aria perfettamente sincronizzati, e questo richiedeva un sistema di strutture per le comunicazioni altamente sofisticato. La filiale Tedesca della ITT forniva la maggior parte della strumentazione, mentre l’altro stato-dell’-arte tecnologica essenziale agli scopi della Guerra Lampo faceva l’onore della IBM, attraverso la sua filiale Tedesca, la Dehomag. Secondo Edwin Black, il know-how della IBM permetteva alla macchina bellica Nazista di “acquisire dimensioni, velocità ed efficienza”; e concludeva che “la IBM aveva apportato il “lampo” alla guerra della Germania Nazista.” (Black, 208) Secondo le prospettive del sistema delle imprese Americane non era una catastrofe che la Germania dall’estate del 1940 avesse stabilito la sua supremazia sul continente Europeo. Molte affiliate Tedesche delle imprese Americane — ad esempio la Ford-Werke e l’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen — andavano espandendosi nei paesi occupati, approfittando delle vittorie della Wehrmacht. Il Presidente della IBM, Thomas Watson, era sicuro che la sua associata Tedesca avrebbe conseguito vantaggi dai trionfi Hitleriani. Black scrive: “Come molti uomini di affari Statunitensi, Watson confidava che la Germania sarebbe rimasta egemone in Europa, e che la IBM avrebbe beneficiato di questo, con il predominio sui centri di calcolo e di elaborazione dei dati, fornendo alla Germania gli strumenti tecnologici per un controllo globale.” (Black, 212) Il 26 giugno 1940, una delegazione commerciale Tedesca organizzava una colazione di lavoro al Waldorf-Astoria Hotel di New York per applaudire alle vittorie dell’Esercito Tedesco nell’Europa Occidentale. Molti importanti industriali presenziarono, compreso James D. Mooney, direttore responsabile delle operazioni Tedesche della GM. Cinque giorni più tardi, sempre a New York, venivano nuovamente celebrate le vittorie Tedesche, questa volta ad un party offerto dal filo-fascista Rieber, boss della Texaco. Fra i leaders delle imprese Americane erano presenti James D. Mooney e il figlio di Henry Ford, Edsel. (29) Che guerra meravigliosa! Il Millenovecentoquaranta costituì un anno particolarmente vantaggioso per le imprese Americane. Le filiali in Germania non solo partecipavano al bottino dei trionfi di Hitler, ma il conflitto Europeo stava generando altre meravigliose opportunità. La stessa America stava preparandosi ora per una possibile guerra, e da Washington cominciavano a scorrere commesse per automezzi, carri armati, aeroplani e navi. Inoltre, inizialmente su rigide basi di “cash-and-carry” (vendite con pagamento in contanti) e poi attraverso “Lend-Lease”, (contratti di leasing coperti da prestito obbligazionario), il Presidente Roosevelt permetteva all’industria Statunitense di rifornire la Gran Bretagna di strutture militari e di altre attrezzature, consentendo così alla coraggiosa piccola Albione di continuare indefinitamente la guerra contro Hitler. Alla fine del 1940, tutte le nazioni belligeranti, come pure quelle neutrali, ma armate, come gli USA stessi, si stavano imbottendo di armamenti messi in campo dalle industrie del sistema imprenditoriale Americano, qualunque fosse l’area del loro insediamento, in Gran Bretagna (dove Ford et al., avevano anche loro affiliate) o nella Germania. In verità si trattava di una guerra meravigliosa, e più a lungo durava meglio era — dal punto di vista del sistema delle imprese Americano! Questo sistema non desiderava che Hitler perdesse questa guerra, ma nemmeno che la vincesse; infatti desiderava solo che la guerra durasse più a lungo possibile. Inizialmente, Henry Ford si era rifiutato di produrre armamenti per la Gran Bretagna, ma ora aveva cambiato musica. Secondo il suo biografo, David Lanier Lewis, egli “esprimeva la speranza che ne’ gli Alleati ne’ l’Asse risultassero vincitori”, e proponeva che gli USA dovessero rifornire sia gli Alleati che le potenze dell’Asse con “armamenti che consentissero di combattere fino al collasso di entrambe le parti”. (30) Il 22 giugno1941 la Wehrmacht attraversò a valanga il confine Sovietico, forte dell’equipaggiamento e delle attrezzature della Ford e della GM, dotata di armamenti prodotti in Germania dal capitale e dal know-how Americano. Mentre molti leaders delle imprese Americane speravano che i Nazisti e i Sovietici rimanessero avvinghiati quanto più a lungo possibile in una guerra che avrebbe dovuto debilitarli entrambi, (31) e quindi il prolungarsi della guerra in Europa avrebbe procurato solo profitti, gli esperti a Washington e a Londra prevedevano che i Sovietici sarebbero stati schiacciati, “come un uovo”, dalla Wehrmacht. (32) L’USSR, comunque, divenne il primo paese a contrastare la Guerra Lampo, fino ad arrestarla. E il 5 dicembre 1941, l’Armata Rossa addirittura lanciava una controffensiva. (33) Da allora in poi risultava evidente che i Tedeschi avrebbero dovuto preoccuparsi in modo notevole sul Fronte Orientale, cosa che avrebbe permesso anche agli Inglesi di continuare l’impegno bellico, e agli affari redditizi Lend-Lease di continuare senza limiti di tempo. La situazione divenne ancora di più vantaggiosa per il sistema delle imprese Americano, quando apparve che gli affari potevano da quel momento essere fatti anche con i Sovietici. Infatti, nel novembre 1941, quando era già chiaro che l’Unione Sovietica non sarebbe arrivata al crollo, Washington si accordò per estendere il credito a Mosca, e concluse un accordo Lend-Lease con l’USSR, fornendo così alle grandi imprese Americane un ulteriore mercato per i loro prodotti. Aiuti Americani ai Sovietici…e ai Nazisti Dopo la guerra, sarebbe divenuto di uso comune in Occidente affermare che il successo inaspettato dei Sovietici contro la Germania Nazista era stato possibile grazie all’assistenza massiccia degli Americani, fornita nei termini di un accordo Lend-Lease tra Washington e Mosca, e che senza questo aiuto l’Unione Sovietica non sarebbe sopravvissuta all’aggressione Nazista. Questa affermazione è poco attendibile! Primo, l’assistenza materiale Americana, prima del 1942, era quasi completamente insignificante, cioè, ben dopo che i Sovietici senza l’aiuto di nessuno avevano posto fine all’avanzata della Wehrmacht e avevano scatenato la loro prima controffensiva. Secondo, l’aiuto Americano non andò mai oltre al quattro o cinque per cento della produzione totale Sovietica del tempo di guerra, sebbene si debba ammettere che anche questo magro contributo poteva in qualche modo risultare cruciale in una situazione critica. Terzo, gli stessi Sovietici dettero l’avvio alla produzione di tutti gli armamenti leggeri e pesanti di alta qualità — come il carro armato T-34, probabilmente il miglior tank della Seconda Guerra Mondiale — che avevano consentito il loro successo contro la Wehrmacht, data per vincente. (34) Per ultimo, il tanto pubblicizzato aiuto Lend-Lease fornito all’USSR veniva in larga misura neutralizzato — e possiamo dire vanificato — dall’assistenza non ufficiale, discreta, ma veramente importante fornita ai Tedeschi, nemici dei Sovietici, dalle fonti delle imprese Americane. Nel 1940 e 1941, le compagnie petrolifere Americane avevano aumentato le loro esportazioni di petrolio verso la Germania, quantità rilevanti venivano inviate alla Germania Nazista attraverso stati neutrali, realizzando forti profitti. La percentuale Americana delle importazioni Tedesche di olio per la lubrificazione dei macchinari (Motorenöl), assolutamente indispensabile, aumentò rapidamente, dal 44% del luglio 1941 al 94% nel settembre 1941. Secondo lo storico Tedesco Tobias Jersak, un’autorità nel campo dei “carburanti per il Führer” Americani, senza il carburante fornito dagli USA l’aggressione Tedesca contro l’Unione Sovietica non sarebbe stata possibile. (35) Hitler stava ancora rimuginando sulle notizie catastrofiche della controffensiva Sovietica e sulla disfatta della Guerra Lampo nell’Europa Orientale, quando veniva a sapere che i Giapponesi, a sorpresa, avevano lanciato un attacco su Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. Gli USA ora entravano in guerra contro il Giappone, ma Washington non aveva alcuna intenzione di dichiarare guerra alla Germania. Hitler non aveva nessun obbligo di correre in aiuto dei suoi amici Giapponesi, ma l’11 dicembre 1941 dichiarava guerra agli Stati Uniti, probabilmente aspettandosi — vanamente, visto quello che avvenne — che il Giappone a sua volta dichiarasse guerra all’Unione Sovietica. La non necessaria dichiarazione di guerra di Hitler, accompagnata da una risibile dichiarazione di guerra Italiana, trasformarono gli USA in un partecipante attivo alla guerra in Europa. Questo, come influenzò le attività Tedesche delle grandi corporations Americane? (36) Affari, come sempre! Le affiliate Tedesche delle corporations Americane non venivano assolutamente confiscate dai Nazisti e non veniva rimosso il completo controllo di queste imprese sussidiarie da parte delle case madri, fino alla disfatta della Germania nel 1945, al di là di come le società capogruppo avrebbero affermato dopo la guerra. Ad esempio, rispetto alle strutture della Ford e della GM, l’esperto Tedesco Hans Helms dichiara, “neppure una volta, durante il loro regime di terrore, i Nazisti si sono impegnati in un tentativo anche il più insignificante di variare la situazione proprietaria della Ford, cioè della Ford-Werke, o della Opel” . (37) Neppure dopo Pearl Harbor, a Ford veniva requisito il 52% delle azioni della Ford-Werke a Colonia, e la GM rimaneva l’unica proprietaria della Opel. (Billstein et al., 74, e 141) In più, i proprietari e i dirigenti Americani conservarono una dimensione di controllo a volte considerevole sulle loro affiliate Tedesche, anche dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA. Esistono risultanze che le centrali delle imprese negli USA e le loro filiali in Germania rimasero in contatto le une con le altre, o indirettamente via filiali nella Svizzera neutrale, o direttamente tramite la rete mondiale dei sistemi moderni di comunicazioni. Quest’ultima veniva fornita dalla ITT in collaborazione con Transradio, una joint venture fra la stessa ITT con la RCA (un’altra corporation Americana) e le imprese Tedesche Siemens e Telefunken. (38) In un recente documento sulle sue attività nella Germania Nazista, Ford dichiara che, dopo Pearl Harbor, la sua centrale direzionale a Dearborn non teneva più contatti diretti con la sua affiliata Tedesca. Per quel che concerne la possibilità di comunicazioni via società consociate presenti in paesi neutrali, il documento afferma che “non esistono indicazioni di comunicazioni fra le centrali USA e le filiali in Germania tramite loro consociate nei paesi neutrali”. (Research Findings, 88) Comunque, la mancanza di tali “indicazioni” significa semplicemente che ogni prova di contatti può essere stata smarrita o distrutta prima che gli autori del documento permettessero l’accesso agli specifici archivi; dopo tutto, l’accesso a questi archivi è stato concesso solamente più di 50 anni dopo gli accadimenti. Inoltre, lo stesso documento mette in evidenza un elemento contraddittorio, che un alto dirigente della Ford-Werke aveva fatto un viaggio nel 1943 a Lisbona per una visita alla filiale Portoghese della Ford, ed è estremamente improbabile che a Dearborn non fossero al corrente di questo. Questo vale anche per la IBM: Edwin Black scrive che durante la guerra il general manager della IBM per l’Europa, l’Olandese Jurriaan W. Schotte, veniva insediato nella centrale operativa a New York, dove egli “continuava a mantenere regolarmente rapporti diretti con le filiali della IBM in territorio Nazista, come nella sua patria di origine, l’Olanda, e in Belgio”. Quindi, la IBM poteva “tenere sotto controllo gli eventi ed esercitare la sua autorità in Europa attraverso le filiali situate nelle nazioni neutrali,” e in modo particolare attraverso le sue diramazioni Svizzere a Ginevra, il cui direttore, di nazionalità Svizzera,“viaggiava liberamente in, e dalla, Germania, nei territori occupati e nei paesi neutrali”. Infine, come per molte altre grandi imprese USA, la IBM poteva anche affidarsi ai diplomatici Americani presenti nei paesi occupati e neutrali per inviare messaggi tramite valigia diplomatica. (Black, 339, 376, and 392–5) I Nazisti, non solo permettevano ai proprietari Americani di conservare le loro strutture e le loro filiali in Germania e di esercitarne anche in una certa misura il controllo amministrativo, ma la loro influenza, ad esempio nella conduzione della Opel e della Ford-Werke, rimaneva minima. Dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA, i membri della dirigenza Americana certamente si ritirarono dalle scene, ma i managers presenti in Germania — che riscuotevano la fiducia dei capi negli Stati Uniti — in genere conservarono le loro posizioni autorevoli e continuarono a condurre gli affari, perciò tenendo sempre presenti gli interessi delle case madri delle imprese e degli azionisti Americani. Per quel che riguarda la Opel, il quartier generale della GM negli USA aveva mantenuto l’effettivo controllo totale sui dirigenti a Rüsselsheim; questo scrive lo storico Americano Bradford Snell, che negli anni Settanta ha dedicato la sua attenzione a questo tema, ma i cui riscontri sono stati contestati da GM. Un recente studio della ricercatrice Tedesca Anita Kugler conferma il resoconto di Snell, fornendo maggiori dettagli e maggiori sfumature al quadro presentato. Dopo la dichiarazione di guerra della Germania contro gli USA, la Kluger scrive che i Nazisti assolutamente non crearono difficoltà alla dirigenza della Opel. Solo il 25 novembre 1942 Berlino nominava un “servizio di controllo alle strutture produttive del nemico”, ma il significato di questa procedura risultò essere puramente simbolico. I Nazisti semplicemente desideravano assegnare un’immagine Tedesca ad un’impresa che sarà posseduta al 100% dalla GM per tutto il corso della guerra. (Billstein et al., 61) Presso la Ford-Werke, Robert Schmidt, certamente un fervente Nazista, durante la guerra operava come general manager, e le sue prestazioni erano tanto soddisfacenti sia per le autorità di Berlino che per i dirigenti della Ford in America. Messaggi di approvazione e congratulazioni, recanti la firma di Edsel Ford, gli venivano regolarmente recapitati dalla casa madre della Ford a Dearborn. I Nazisti erano veramente deliziati dal lavoro di Schmidt; in opportuna occasione lo avevano gratificato del titolo di “leader nel campo dell’economia militare”. Perfino quando, mesi dopo Pearl Harbor, erano stati imposti controlli a sovrintendere gli impianti della Ford a Colonia, Schmidt aveva conservato le sue prerogative e la sua libertà di azione. (39) Allo stesso modo, l’esperienza in tempo di guerra per la IBM sotto controllo dell’Asse in Germania, Francia, Belgio, e in altri paesi risultava ben lontana dall’essere traumatica. I Nazisti erano molto meno interessati alla nazionalità dei proprietari o all’identità dei managers che alla produzione, visto che, dopo il fallimento della loro strategia di Guerra Lampo nell’Unione Sovietica, stavano sperimentando la necessità sempre crescente di una produzione massiccia di aerei e di mezzi da trasporto. Dal momento in cui Henry Ford aveva aperto la strada all’impiego della catena di montaggio e ad altre tecniche “Fordiste”, le imprese Americane erano divenute leaders nel campo della produzione industriale di massa, e le affiliate Statunitensi in Germania, inclusa la sussidiaria Opel della GM, non facevano eccezione a questa regola generale. I pianificatori Nazisti, come Göring e Speer, avevano ben compreso che radicali cambiamenti nel management della Opel potevano ostacolare la produzione nel Brandenburgo e a Rüsselsheim. Per mantenere il rendimento della Opel ad alti livelli, ai managers in carica veniva concesso di andare avanti, dato che avevano familiarità con i metodi di produzione Americani particolarmente efficienti. Anita Kugler conclude che l’Opel, “aveva messo a disposizione dei Nazisti la sua produzione totale e quindi — obiettivamente parlando — aveva contribuito ad accrescere le loro possibilità di condurre la guerra per un lungo periodo di tempo”. (Billstein et al., 81) (40) Esperti ritengono che le migliori innovazioni tecnologiche della GM e della Ford per scopi bellici principalmente siano andate a tutto vantaggio delle loro filiali nella Germania Nazista. Ad esempio, citano gli autocarri della Opel con tutte le ruote motrici, che si erano rivelati particolarmente utili ai Tedeschi nel fango del Fronte Orientale e nei deserti del Nord Africa, così come i motori per il nuovo ME-262, il primo caccia a reazione, che veniva assemblato sempre dalla Opel a Rüsselsheim. (41) Lo stesso vale per la Ford-Werke: nel 1939 questa industria aveva sviluppato un autocarro all’avanguardia — il Maultier (“mulo”) — che aveva ruote cingolate sulla parte frontale e un rimorchio nella parte posteriore. Inoltre la Ford-Werke aveva creato una “società di copertura”, la Arendt GmbH, per produrre equipaggiamento bellico, oltre a veicoli, e, nello specifico, parti lavorate per aeroplani. Ma Ford afferma che questo era stato fatto senza che a Dearborn si fosse a conoscenza o lo si approvasse. Verso la fine della guerra, questa fabbrica veniva coinvolta nello sviluppo top-secret di turbine per gli scellerati missili V-2 che avevano procurato devastazioni su Londra e Anversa. (Research Findings, 41–2) La ITT continuava a fornire alla Germania sistemi avanzati per le comunicazioni anche dopo Pearl Harbor, a detrimento degli stessi Americani, il cui codice cifrato diplomatico era stato decifrato dai Nazisti tramite questa strumentazione. (42) Fino alla fine totale della guerra, le strutture produttive della ITT in Germania, come pure in paesi neutrali come la Svezia,la Svizzera e la Spagna, fornivano alle forze armate Tedesche congegni bellici di avanguardia. Charles Higham entra nei particolari: dopo Pearl Harbor, l’esercito, la marina e l’aviazione Tedesca hanno stipulato contratti con la ITT per la fabbricazione di centraline telefoniche, telefoni, suonerie d’allarme, gavitelli, dispositivi d’allarme di attacchi aerei, strumentazione radar, trentamila spolette al mese per proiettili d’artiglieria…, che arrivavano a cinquantamila al mese nel 1944. Per giunta, la ITT forniva componenti per le bombe-razzo che cadevano su Londra, celle al selenio per raddrizzatori a secco, strumentazione radio ad alta frequenza, e apparecchi per le comunicazioni e per il rafforzamento di campo. Senza queste forniture di materiali cruciali sarebbe stato impossibile per l’aviazione Tedesca eliminare truppe Americane e Britanniche, per l’esercito Tedesco combattere contro gli Alleati, per l’Inghilterra venire bombardata, o per le navi degli Alleati venire attaccate sul mare. (43) Allora, non sorprende che le sussidiarie Tedesche delle imprese Americane fossero considerate come “pionieri dello sviluppo tecnologico” da parte dei pianificatori nei Ministeri Economici del Reich della Germania e di altre autorità Naziste coinvolte nello sforzo bellico. (44) Inoltre, Edwin Black afferma che la tecnologia avanzata della IBM, relativa alla perforazione delle schede, che ha preceduto il computer, ha permesso ai Nazisti di automatizzare la persecuzione. La IBM, presumibilmente, aveva consentito la valutazione degli inimmaginabili numeri dell’Olocausto, perché aveva fornito al regime di Hitler di macchine calcolatrici e di altri strumenti che venivano utilizzati per “generare le liste degli Ebrei e delle altre vittime, che venivano designate alla deportazione” e “per registrare i detenuti dei campi di concentramento e di seguire il lavoro schiavile”. (Black, xx) Comunque, i critici della ricerca di Black sostengono che i Nazisti avrebbero potuto acquisire la loro efficienza di sterminio senza l’apporto della tecnologia IBM. In ogni modo, il caso della IBM fornisce ancora un altro esempio di come le corporations USA abbiano procurato ai Nazisti tecnologia avanzata e chiaramente non si sono curate troppo a quali scopi malvagi questa tecnologia sarebbe stata applicata. Il profitto über Alles; il profitto innanzitutto! I proprietari e i managers delle imprese case madri negli USA si preoccupavano poco di quali prodotti venivano sviluppati e prodotti dalle catene di montaggio Tedesche. Quello che contava per loro e per i detentori delle loro azioni era solamente il profitto. Le affiliate delle corporations Americane in Germania realizzavano considerevoli guadagni durante il conflitto, e questo denaro non veniva intascato dai Nazisti. Per quel che concerne la Ford-Werke, sono disponibili dati precisi. I profitti della filiale Tedesca di Dearborn aumentavano da 1.2 milioni di Marchi Tedeschi (RM) nel 1939 a 1.7 milioni di RM nel 1940, a 1.8 milioni di RM nel 1941, a 2.0 milioni di RM nel 1942, e a 2.1 milioni di RM in 1943. (Research Findings, 136). (45) Anche le filiali della Ford nella Francia occupata, in Olanda e nel Belgio, dove il gigantesco sistema delle imprese Americane forniva un contributo industriale allo sforzo bellico Nazista, vedevano ugualmente realizzarsi successi straordinari. Ad esempio, la Ford-France, — che prima della guerra non era una struttura troppo fiorente —, divenne veramente redditizia dopo il 1940, grazie alla sua collaborazione incondizionata con i Tedeschi; nel 1941 registrava profitti per 58 milioni di Franchi, un livello di rendimento per cui riceveva le calde congratulazioni da parte di Edsel Ford. (Billstein et al, 106; e Research Findings, 73–5) (46) Relativamente alla Opel, i profitti industriali erano saliti alle stelle al punto tale che il Ministero dell’Economia Nazista aveva vietato la loro pubblicazione per impedire un bagno di sangue da parte della popolazione Tedesca, alla quale si chiedeva in maniera sempre più pressante di stringere collettivamente la cinghia.(Billstein et al, 73) (47) La IBM non solo realizzava profitti alle stelle tramite la sua filiale Tedesca, ma, come la Ford, vedeva innalzarsi i suoi guadagni anche nella Francia occupata, soprattutto per merito degli affari generati tramite la zelante collaborazione con le autorità di occupazione Tedesche. Era stato perfino necessario costruire nuove fabbriche. Comunque, su tutto, la IBM prosperava in Germania e nei paesi occupati grazie alle vendite ai Nazisti di strumenti tecnologici richiesti per identificare, deportare, ghettizzare, schiavizzare e, alla fine del percorso, sterminare milioni di Ebrei Europei, in altre parole, per organizzare l’Olocausto. (Black, 212, 253, and 297–9) È ben lontano dall’essere chiarito cosa sia successo ai profitti realizzati in Germania durante la guerra dalle filiali Americane, ma qualche allettante notizia succosa di informazioni è nonostante tutto emersa. Negli anni Trenta le imprese Americane avevano sviluppato diverse strategie per eludere l’embargo Nazista al rimpatrio dei profitti. L’ufficio della dirigenza della IBM a New York, per esempio, regolarmente fatturava la Dehomag per royalties dovute alla casa madre, per rimborso di prestiti inventati, e per altre competenze e spese; queste pratiche ed altri bizantinismi di transazioni inter-societarie minimizzavano i profitti realizzati in Germania e quindi nel contempo funzionavano come un realistico piano di evasione fiscale. Inoltre, esistevano altri modi di operare per evitare l’embargo sul rientro dei profitti alla casa madre, come il loro reinvestimento all’interno della Germania, ma dopo il 1939 questa opzione non veniva permessa più a lungo, almeno in teoria. In pratica, le sussidiarie Americane intrapresero questo percorso, di aumentare in modo assolutamente considerevole le loro strutture. L’Opel, ad esempio, nel 1942 assumeva il controllo di una fonderia a Lipsia. (48) Rimaneva anche possibile utilizzare i profitti per migliorare e modernizzare le infrastrutture stesse delle affiliate, cosa che era avvenuta spesso nel caso della Opel. Inoltre, esistevano possibilità di espansione nei paesi occupati dell’Europa. Nel 1941, la sussidiaria della Ford in Francia utilizzava i suoi profitti per costruire un’industria di carri armati ad Orano, Algeria; con tutta probabilità, questo impianto aveva fornito all’Africa Corps di Rommel le strutture necessarie all’avanzata diretta verso El Alamein in Egitto. Nel 1943, anche la Ford-Werke insediava una fonderia non lontano da Colonia, proprio attraverso il confine con il Belgio, vicino a Liegi, per produrre parti di ricambio. (Research Findings, 133) Per di più, è probabile che una parte del profitto ammassato nel Terzo Reich veniva trasferita in qualche modo direttamente negli USA, ad esempio, attraverso la Svizzera neutrale. Molte corporations USA mantenevano in Svizzera uffici che funzionavano da intermediari fra le case madri e le loro filiali nei paesi nemici od occupati, e quindi erano coinvolti nel “riciclaggio dei profitti”, come scrive Edwin Black a proposito della filiale Svizzera della IBM. (Black, 73) (49) Allora, allo scopo del ritorno dei profitti alle case madri, le corporations potevano far conto sui servizi sperimentati delle filiali Parigine di alcune banche Americane, come la Chase Manhattan e J.P. Morgan, e di un certo numero di banche Svizzere. La Chase Manhattan faceva parte dell’impero di Rockefeller, così come la Standard Oil, partner Americana della IG Farben; la sua filiale nella Parigi sotto occupazione Tedesca rimaneva aperta per tutto il corso della guerra e realizzava guadagni in modo considerevole grazie alla stretta collaborazione con le autorità Tedesche. Inoltre, da parte Svizzera, si dava il caso che alcune istituzioni finanziarie si impegnavano — senza porsi imbarazzanti domande — a prendersi cura dell’oro sottratto dai Nazisti alle loro vittime Ebree. A questo riguardo, giocava un importante ruolo la banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) di Basilea, una Banca internazionale che era stata fondata nel 1930 all’interno della struttura del Progetto Giovani, con l’obiettivo di agevolare i pagamenti delle riparazioni di guerra da parte Tedesca dopo la Prima Guerra Mondiale. I banchieri Americani e Tedeschi (come Schacht) dominavano la BIS fin dall’inizio e collaboravano con tutta comodità in tutte le sue speculazioni finanziarie. Durante la guerra, era un Tedesco, che era membro del Partito Nazista, Paul Hechler, ad occupare la funzione di direttore della BIS, mentre un Americano, Thomas H. McKittrick, ne era presidente. McKittrick era un buon amico dell’ambasciatore Americano a Berna e di un agente in Svizzera del servizio segreto Americano [l’OSS, antesignano della CIA], Allen Dulles. Prima della guerra, Allen Dulles e suo fratello John Foster Dulles erano stati partners nell’ufficio legale di New York Sullivan & Cromwell, ed erano specializzati nell’affare veramente redditizio di gestione di investimenti Americani nella Germania. Avevano eccellenti rapporti con i proprietari e dirigenti al vertice di imprese Americane, e in Germania con banchieri, uomini di affari e funzionari governativi, compresi alti papaveri Nazisti. Dopo lo scoppio della guerra, John Foster divenne il legale societario per la BIS a New York, mentre Allen veniva arruolato nell’OSS e prendeva servizio in Svizzera, dove si dimostrava amico di McKittrick. È ampiamente conosciuto che durante il conflitto la BIS maneggiava quantità enormi di denaro e di oro provenienti dalla Germania Nazista. (50) Non è irragionevole sospettare che tali trasferimenti potevano riguardare i proventi delle associate Americane destinati agli USA, in altre parole, denaro accumulato da clienti ed associati degli onnipresenti fratelli Dulles! Procurare il lavoro di schiavi! Prima della guerra, le imprese Tedesche si erano entusiasticamente avvantaggiate del grande favore loro concesso dai Nazisti, vale a dire dell’eliminazione dei sindacati dei lavoratori e della trasformazione risultante della classe lavoratrice Tedesca, nel passato militante e consapevole, in una mansueta “massa di servitori”. Quindi, non è sorprendente che nella Germania Nazista i salari reali diminuivano rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza si incrementavano. Durante la guerra, i prezzi continuavano a salire, mentre gli stipendi venivano gradualmente erosi e l’orario di lavoro veniva aumentato. (51) Questa era anche l’esperienza che dovevano subire le forze del lavoro delle sussidiarie Americane. Per contrastare la deficienza di lavoratori nelle industrie, i Nazisti facevano assegnamento in modo crescente su lavoratori stranieri che venivano deportati a lavorare in Germania sotto condizioni molto spesso disumane. Insieme a centinaia di migliaia di Sovietici e di altri prigionieri di guerra e di reclusi nei campi di concentramento, questi lavoratori stranieri (lavoratori forzati) costituivano una gigantesca massa di lavoratori che potevano essere sfruttati a volontà da chiunque li prendesse in carico, in cambio di una modesta remunerazione versata alle SS, la Schutzstaffel, la milizia di protezione nazista. Infatti, le SS mantenevano la disciplina e l’ordine d’obbligo con pugno di ferro. Allora, i costi del lavoro crollavano ad un livello tale per cui i programmatori di oggi possono solo sognare, e i profitti delle imprese aumentavano in proporzione. Anche le filiali Tedesche delle imprese Americane avevano fatto con bramosia uso del lavoro schiavile fornito dai Nazisti, non solo attraverso lavoratori stranieri, ma anche di prigionieri di guerra e di reclusi dei campi di concentramento. Ad esempio, la Yale & Towne Manufacturing Company con sede a Velbert in Renania, da quanto viene documentato, faceva affidamento sul “concorso di lavoratori provenienti dall’Europa Orientale” per realizzare “consistenti profitti”, (52) ed anche viene sottolineato che la Coca-Cola ha avuto vantaggi dall’utilizzo di lavoratori stranieri, e di prigionieri di guerra nei suoi impianti della Fanta. (53) Comunque, gli esempi maggiormente spettacolari dell’uso di lavoro forzato da parte di filiali Americane sono sicuramente forniti dalla Ford e dalla GM, due casi che di recente hanno costituito l’oggetto di un’approfondita inchiesta. Sulla Ford-Werke, è stato asserito che a partire dal 1942 questa fabbrica “sollecitamente, aggressivamente e con grande successo” aveva perseguito l’uso di lavoratori stranieri e di prigionieri di guerra dall’Unione Sovietica, dalla Francia e dal Belgio e da altri paesi occupati — chiaramente con la conoscenza della casa madre dell’impresa negli USA. (54) Karola Fings, una ricercatrice Tedesca che con molta attenzione ha studiato le attività in tempo di guerra della Ford-Werke, scrive: “[Ford] aveva fatto meravigliosi affari con i Nazisti, dato che l’accelerazione della produzione durante la guerra dava spazio totalmente a nuove opportunità, mantenendo basso il livello del costo del lavoro. In effetti era dal 1941 che alla Ford-Werke era in atto un generale congelamento dell’aumento dei salari. Comunque, i più alti margini di profitto potevano essere acquisiti per mezzo dell’uso dei cosiddetti Ostarbeiter [lavoratori forzati provenienti dall’Europa dell’Est]. (55) Le migliaia di lavoratori forzati stranieri portati a lavorare nella Ford-Werke venivano costretti come schiavi ogni giorno, eccettuata la domenica, per dodici ore al giorno, e per questo non ricevevano un qualsiasi salario. Presumibilmente anche peggiore era il trattamento riservato al relativamente piccolo numero di reclusi del campo di concentramento di Buchenwald, messo a disposizione della Ford-Werke nell’estate del 1944”. (Research Findings, 45–72) In contrasto con Ford-Werke, l’Opel non ha mai usato reclusi di campi di concentramento, almeno non nelle fabbriche principali di Rüsselsheim e nel Brandenburgo. La filiale Tedesca della GM, comunque, aveva avuto un insaziabile appetito per altri tipi di lavoratori forzati, per i prigionieri di guerra. “Tipico dell’uso schiavistico del lavoro nelle fabbriche Opel, particolarmente quando venivano utilizzati i Russi”, scrive la storica Anita Kugler, “era lo sfruttamento massimo, il trattamento peggiore possibile, e …la pena capitale anche nel caso di lievi violazioni.” La Gestapo aveva l’incarico di sorvegliare e sovrintendere ai lavoratori stranieri. (56) Un permesso di lavoro in collaborazione con il nemico Negli USA, le case madri delle imprese delle filiali Tedesche lavoravano veramente in modo intenso per convincere l’opinione pubblica Americana sul loro patriottismo, in modo che l’uomo della strada Americano non potesse pensare che la GM, ad esempio, che in patria finanziava manifesti anti-Tedeschi, fosse coinvolta in operazioni di banche lontane, sul Reno, in attività che erano equivalenti al tradimento. (57) Washington era molto meglio informata di “John Doe”, ma il governo Americano osservava la regola non scritta convenuta che “quello che va bene per la General Motors va bene per l’America”, ed evitava di prendere in considerazione il fatto che le imprese Americane accumulavano ricchezze tramite i loro investimenti o i loro affari in un paese con cui gli Stati Uniti erano in guerra. Questo aveva molto a che fare con il fatto che il sistema delle imprese Americano era diventato ancora più influente a Washington durante il conflitto di quanto lo era stato dapprima; infatti, dopo Pearl Harbor i rappresentanti dei “grandi affari” si erano accalcati nella capitale in modo da prendere il controllo su molti uffici governativi importanti. Stando alle apparenze, costoro erano motivati da un genuino patriottismo e offrivano il loro servizi per una elemosina, diventando noti per questo come “gli uomini un-dollaro-per-un-anno”. In verità, molti occupavano quei posti per garantire le loro strutture in Germania. L’ex presidente della GM, William S. Knudsen, un esplicito ammiratore di Hitler dal 1933 e amico di Göring, divenne direttore dell’Ufficio G
Importanti Riferimenti:
Vedi Edwin Black, “IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation” – (IBM e l’Olocausto: L’alleanza strategica tra la Germania Nazista e la più potente impresa Americana.) – (London: Crown Publishers, 2001)
Walter Hofer e Herbert R. Reginbogin, „Hitler, der Westen und die Schweiz 1936–1945“ – (Hitler, l’Occidente e la Svizzera 1936-1945), (Zürich: NZZ Publishing House, 2002)
Reinhold Billstein, Karola Fings, Anita Kugler, e Nicholas Levis, “Working for the Enemy: Ford, General Motors, and Forced Labor during the Second World War” – (Lavorare per il nemico: Ford, General Motors e il lavoro forzato durante la Seconda Guerra Mondiale) – ( New York: Berghahn, 2000); Risultati di una ricerca su la Ford-Werke sotto il regime Nazista (Dearborn, MI: Ford Motor Company, 2001)
Note
1 Michael Dobbs, “US Automakers Fight Claims of Aiding Nazis- I produttori di automobili USA contrastano le affermazioni di aver aiutato i Nazisti ” The International Herald Tribune, 3 dicembre 1998.
2 David F. Schmitz, “‘A Fine Young Revolution': The United States and the Fascist Revolution in Italy, 1919–1925, – ‘Una meravigliosa giovane rivoluzione’: gli Stati Uniti e la Rivoluzione Fascista in Italia, 1919-1925,” Radical History Review, 33 (settembre1985), 117–38; e John P. Diggins, “Mussolini and Fascism: The View from America – Mussolini e il Fascismo: Uno sguardo dall’America” (Princeton 1972).
3 Gabriel Kolko, “American Business and Germany, 1930–1941, – Affari Americani e la Germania, 1930-1941″. “The Western Political Quarterly, 25 (dicembre1962), 714”, fa riferimento allo scetticismo che si era diffuso nella stampa economica Americana nei confronti di Hitler, dato che veniva considerato “un non conformista dal punto di vista economico e politico”.
4 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio” (New York 2001), in modo particolare: 172–91.
5 Charles Higham, “Trading with the Enemy: An Exposé of The Nazi-American Money Plot 1933–1949 – Fare affari col nemico: un resoconto dell’intreccio di denaro fra Nazisti e Americani 1933-1949” (New York 1983), 162.
6 Webster G. Tarpley e Anton Chaitkin, “The Hitler Project, – Il piano di Hitler” capitolo 2 in “George Bush: The Unauthorized Biography – George Bush: La biografia non autorizzata” (Washington 1991). Disponibile online ahttp://www.tarpley.net/bush2.htm .
7 Mark Pendergrast, “For God, Country, and Coca-Cola: The Unauthorized History of the Great American Soft Drink and the Company that Makes It – Per Dio, Patria e Coca-Cola: La storia non autorizzata della grande bibita analcolica Americana e della Compagnia che la produce.” (New York 1993), 221.
8 Citazione da Manfred Overesch, “Machtergreifung von links: Thüringen 1945/46 – La presa del potere da sinistra: Turingia 1945/46 „ (Hildesheim Germany 1993), 64.
9 Knudsen descriveva la Germania Nazista, dopo una sua visita nel 1933, come “il miracolo del ventesimo secolo.” Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 163.
10 Stephan H. Lindner, “Das Reichskommissariat für die Behandlung feindliches Vermögens im Zweiten Weltkrieg: Eine Studie zur Verwaltungs-, Rechts- and Wirtschaftsgeschichte des nationalsozialistischen Deutschlands – Il Commissariato del Reich per la gestione del patrimonio nemico durante la Seconda Guerra Mondiale: uno studio sulle questioni di tipo amministrativo, giuridico ed economico nella Germania Nazionalsocialista“ (Stuttgart 1991), 121; Simon Reich, „The Fruits of Fascism: Postwar Prosperity in Historical Perspective – I frutti del Fascismo: prosperità postbellica in una prospettiva storica“ (Ithaca, NY and London 1990), 109, 117, 247; e Ken Silverstein, “Ford and the Führer, – Ford e il Führer ” The Nation, 24 gennaio 2000, 11–6.
11 Citazione da Michael Dobbs, “Ford and GM Scrutinized for Alleged Nazi Collaboration, – Ford e la GM sotto inchiesta per una presunta collaborazione con il Nazismo” The Washington Post, 12 dicembre 1998.
12 Tobias Jersak, “Öl für den Führer, – Petrolio per il Führer ” Frankfurter Allgemeine Zeitung, 11 febbraio 1999.
13 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico” xvi.
14 Gli autori di un recente libro sull’Olocausto mettono anche in evidenza che “nel 1930, l’antiSemitismo era molto più visibile e impudente negli Stati Uniti piuttosto che in Germania.” Vedi l’intervista di Suzy Hansen con Deborah Dwork e Robert Jan Van Pelt, autori di “Olocausto: una storia”, a http:/salon.com/books/int/2002/10/02/dwork/index.html.
15 Henry Ford, “The International Jew: The World’s Foremost Problem – Il Giudaismo Internazionale: il principale problema mondiale.” (Dearborn, MI n.d.); e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico” 162.
16 Aino J. Mayer, “Why Did the Heavens not Darken? The Final Solution in History – Perché il Cielo non si è oscurato? La soluzione finale nella Storia.” (New York 1988).
17 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio”, 279; e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 161.
18 Upton Sinclair, “The Flivver King: A Story of Ford-America – Il re dei macinini: la storia di Ford-America” (Pasadena, CA 1937), 236.
19 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 162–4.
20 Vedi Bernd Martin, “Friedensinitiativen und Machtpolitik im Zweiten Weltkrieg 1939–1942 – Iniziative di pace e politica di potere nella Seconda Guerra Mondiale 1939-1942” (Düsseldorf 1974); e Richard Overy, “Russia’s War – la Guerra di Russia” (London 1998), 34–5.
21 Vedi Clement Leibovitz e Alvin Finkel, “In Our Time: The Chamberlain-Hitler Collusion – Nella nostra epoca: la collusione Chamberlain-Hitler” (New York 1998).
22 John H. Backer, “From Morgenthau Plan to Marshall Plan – Dal Piano Morgenthau al Piano Marshall,” in Robert Wolfe, ed., “Americans as Proconsuls: United States Military Governments in Germany and Japan, 1944–1952 – Americani come proconsoli: I governi militari degli Stati Uniti in Germania e in Giappone, 1944-1952” (Carbondale and Edwardsville, IL 1984), 162.
23 Mooney viene citato in Andreas Hillgruber, “Staatsmänner und Diplomaten bei Hitler. Vertrauliche Aufzeichnungen über Unterredungen mit Vertretern des Auslandes 1939–1941- Uomini di Stato e Diplomatici di Hitler. Appunti riservati sui colloqui con i rappresentanti esteri 1939-1941“ (Frankfurt am Main 1967), 85.
24 Anita Kugler, “Das Opel-Management während des Zweiten Weltkrieges. Die Behandlung ‘feindlichen Vermögens’ und die ‘Selbstverantwortung’ der Rüstungsindustrie, – La dirigenza Opel durante la Seconda Guerra Mondiale. La gestione del „patrimonio straniero“ e la „responsabilità“ dell’industria degli armamenti” in Bernd Heyl e Andrea Neugebauer, ed., „…ohne Rücksicht auf die Verhältnisse: Opel zwischen Weltwirtschaftskrise and Wiederaufbau – …al di sopra delle situazioni: l’Opel fra crisi economica mondiale e ricostruzione,“ (Frankfurt am Main 1997), 35–68, e 40–1; “Flugzeuge für den Führer. Deutsche ‘Gefolgschaftsmitglieder’ und ausländische Zwangsarbeiter im Opel-Werk in Rüsselsheim 1940 bis 1945, – Aerei per il Führer. I „membri al seguito“ tedeschi e i lavoratori forzati stranieri alla Opel-Werk in Rüsselsheim 1940 bis 1945″ in Heyl e Neugebauer, “… ohne Rücksicht auf die Verhältnisse – …al di sopra delle situazioni,” 69–92; e Hans G. Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” in Komila Felinska, ed., „Zwangsarbeit bei Ford – Il lavoro forzato“ (Cologne 1996), 113.
25 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 93, e 95.
26 Jersak, “Öl für den Führer – Petrolio per il Führer “; Bernd Martin, “Friedens-Planungen der multinationalen Grossindustrie (1932–1940) als politische Krisenstrategie – Progetti di pace delle grandi industrie multinazionali (1932-1940) come strategia politica per la crisi,” Geschichte und Gesellschaft, 2 (1976), 82.
27 Citato in Dobbs, “U.S. Automakers.- Produttori di auto USA”
28 Jamie Lincoln Kitman, “The Secret History of Lead – La storia segreta del piombo-tetraetile,” The Nation, 20 marzo 2002.
29 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 97; Ed Cray, “Chrome Colossus: General Motors and its Times – Il colosso del cromo: la General Motors e la sua epoca” (New York 1980), 315; e Anthony Sampson, “The Seven Sisters: The Great Oil Companies and the World They Made – le Sette Sorelle: le grandi compagnie petrolifere e il mondo da loro costruito” (New York 1975), 82.
30 David Lanier Lewis, “The Public Image of Henry Ford: an American Folk Hero and His Company – L’immagine pubblica di Henry Ford: un eroe popolare Americano e la sua impresa” (Detroit 1976), 222, and 270.
31 Ralph B. Levering, “American Opinion and the Russian Alliance, 1939-1945 – L’opinione pubblica Americana e l’alleanza con la Russia 1939-1945” (Chapel Hill, NC 1976), 46; e Wayne S. Cole, “Roosevelt and the Isolationists, 1932–45 – Roosevelt e gli isolazionisti, 1932-1945” (Lincoln, NE 1983), 433–34.
32 La speranza per un conflitto, che si protraesse a lungo, fra Berlino e Mosca poteva essere riscontrata in molti articoli di giornale e nel commento, che vedeva una larga diffusione, espresso dal Senatore Harry S. Truman il 24 giugno 1941, solo due giorni dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’attacco Nazista contro l’Unione Sovietica: “Se noi vediamo la Germania sul punto di vincere, noi dovremo aiutare la Russia, e se la Russia sta vincendo, dovremo aiutare la Germania, in modo tale da realizzare la distruzione di entrambi i contendenti…” Levering, American Opinion, 46–7.
33 Anche il 5 dicembre 1941, proprio due giorni prima dell’attacco Giapponese contro Pearl Harbor, una caricatura sul Hearst’s Chicago Tribune suggeriva che l’ideale per la “civilizzazione” sarebbe stato se queste “pericolose bestie”, i Nazisti e i Sovietici, “si distruggevano le une con le altre”. La caricatura sul Chicago Tribune viene riprodotta in Roy Douglas, “The World War 1939–1943: The Cartoonists’ Vision – La Guerra Mondiale 1939-1943: il punto di vista dei vignettisti” (London e New York 1990), 86.
34 Clive Ponting, “Armageddon: The Second World War – Armageddon: la Seconda Guerra Mondiale” (London 1995), 106; e Stephen E. Ambrose, “Americans at War – Americani in Guerra” (New York 1998), 76–77.
35 Jersak, “Öl für den Führer – Petrolio per il Führer”: Jersak ha usato un documento “top secret” prodotto dalla Divisione Statale della Wehrmacht per il Petrolio, ora nella sezione militare dell’archivio di Stato tedesco (Archivi Federali), File RW 19/2694. Vedi anche Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 59–61.
36 James V. Compton, “The Swastika and the Eagle – La Svastica e l’Aquila,” in Arnold A. Offner, ed., “America and the Origins of World War II, 1933–1941 – America e le origini della Seconda Guerra Mondiale 1933-1941 (New York 1971), 179–83; Melvin Small, “The ‘Lessons’ of the Past: Second Thoughts about World War II – Le “lezioni” del passato: riflessioni sulla Seconda Guerra Mondiale,” in Norman K. Risjord , ed., “Insights on American History. – Intuizioni sulla Storia Americana, Volume II” (San Diego 1988), 20; e Andreas Hillgruber, ed., “Der Zweite Weltkrieg 1939–1945: Kriegsziele und Strategie der Grossen Mächte – La Seconda Guerra Mondiale 1939-1945: obiettivi bellici e strategia dei poteri forti”, 5th ed., (Stuttgart 1989), 83–4.
37 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 114.
38 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,”14–5; e Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 104–5.
39 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 15–6.
40 Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 52, 61 e seguenti, e 67; e Kugler, “Flugzeuge- Aerei,” 85.
41 Snell, “GM and the Nazis – La GM e i Nazisti,” Ramparts, 12 (giugno1974), 14–15; Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 53, e 67; e Kugler, “Flugzeuge- Aerei,” 89.
42 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 112.
43 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 99.
44 Lindner, “Das Reichskommissariet- il Commissariato di Stato”, 104.
45 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 12, e 14; Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115; e Reich, “The Fruits of Fascism – I frutti del Fascismo”, 121, e123.
46 Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 15–16.
47 Kugler, “Das Opel-Management – La dirigenza della Opel,” 55, e 67; e Kugler, “Flugzeuge – Aerei,” 85.
48 Comunicazione di A. Neugebauer, dell’archivio cittadino a Rüsselsheim, all’autore, 4 febbraio 2000; e Lindner, “Das Reichskommissariet- il Commissariato di Stato”, 126–27.
49 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115.
50 Gian Trepp, “Kapital über alles: Zentralbankenkooperation bei der Bank für Internationalen Zahlungsausgleich im Zweiten Weltkrieg – Il capitale soprattutto: la cooperazione delle Banche Centrali con la Banca per il Risarcimento Internazionale nella Seconda Guerra Mondiale ,” in Philipp Sarasin e Regina Wecker, eds., “Raubgold, Reduit, Flüchtlinge: Zur Geschichte der Schweiz im Zweiten Weltkrieg – Oro rapinato, imprigionati, profughi: dalla storia della Svizzera nella Seconda Guerra Mondiale” (Zürich 1998), 71–80; Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 1–19 e 175; Anthony Sampson, “The Sovereign State of ITT – Lo Stato Sovrano dell’ITT” (New York 1973), 47; “VS-Banken collaboreerden met nazi’s – Le Banche Centrali che hanno collaborato con il Nazismo,” Het Nieuwsblad, Brussels, 26 dicembre 1998; e William Clarke, “Nazi Gold: The Role of the Central Banks — Where Does the Blame Lie? – L’oro dei Nazisti: il ruolo delle Banche Centrali – Dove sta la responsabilità?,” Central Banking, 8, (estate 1997), a http://www.centralbanking.co.uk/cbv8n11.html.
51 Bernt Engelmann, “Einig and gegen Recht und Freiheit: Ein deutsches Anti-Geschichtsbuch – D’accordo e contro il diritto e la libertà: un libro di storia tedesco” (München 1975), 263–4; Marie-Luise Recker, “Zwischen sozialer Befriedung und materieller Ausbeutung: Lohn- und Arbeitsbedingungen im Zweiten Weltkrieg – Fra la pacificazione sociale e lo sfruttamento materiale: condizioni dei salari e del lavoro nella Seconda Guerra Mondiale ,” in Wolfgang Michalka, ed., “Der Zweite Weltkrieg. Analysen, Grundzüge, Forschungsbilanz – La Seconda Guerra Mondiale. Analisi, tratti fondamentali, bilancio di una ricerca” (Monaco e Zurigo 1989), 430–44, in particolare 436.
52 Lindner, “Das Reichkommissariat – Il Commissariato di Stato”, 118.
53 Pendergrast “For God, Country, and Coca-Cola – Per Dio, la Patria, e la Coca-Cola” 228.
54 “Ford-Konzern wegen Zwangsarbeit verklagt – Il gruppo industriale Ford citato in giudizio a causa del lavoro forzato,” Kölner Stadt-Anzeiger, 6 marzo 1998, come citato in “Antifaschistische Nachrichten – Notizie Antifasciste”, 6 (1998), a http://www.antifaschistischenachricten.de/1998/06/010.htm.
55 Karola Fings, “Zwangsarbeit bei den Kölner Ford-Werken – Lavoro forzato alla Ford-Werken di Colonia,” in Felinska, “Zwangsarbeit bei Ford – Lavoro forzato da Ford,” (Colonia 1996), 108. Vedi anche Silverstein, “Ford and the Führer – Ford e il Führer,” 14; e Billstein et al., 53–5, 135–56.
56 Kugler, “Das Opel-Management – La Dirigenza Opel,” 57; Kugler, “Flugzeuge – Aerei,” 72–6, citazione da 76; e Billstein et al., 53–5.
57 “GM-financed patriotic posters – I manifesti patriottici finanziati dalla GM” può essere trovato nella sezione “Still Pictures” dell’Archivio Nazionale a Washington, DC.
58 Michael S. Sherry, “In the Shadow of War: The United States Since the 1930s – All’ombra della guerra: gli Stati Uniti, a partire dagli anni Trenta(New Haven and London 1995), 172.
59 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, xv, e xxi.
60 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 44–6.
61 Helms, “Ford und die Nazis – Ford e i Nazisti,” 115–6; Reich, “The Fruits of Fascism – I frutti del Fascismo, 124–5; e Mira Wilkins e Frank Ernest Hill, “American Business Abroad: Ford on Six Continents – Affari Americani all’estero: Ford sui sei Continenti” (Detroit 1964), 344–6.
62 Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 212–23; Carolyn Woods Eisenberg, “U.S. Policy in Post-war Germany: The Conservative Restoration, – La politica USA nella Germania post-bellica: la restaurazione della conservazione,” Science and Society, 46 (Spring 1982), 29; Carolyn Woods Eisenberg, “The Limits of Democracy: US Policy and the Rights of German Labor, 1945–1949 – I limiti della democrazia: la politica USA e i diritti del lavoro in Germania 1945-1949,” in Michael Ermarth, ed., “America and the Shaping of German Society, 1945-1955 – America e la formazione dellaa società Tedesca 1945-1955” (Providence, RI and Oxford 1993), 63–4; Billstein et al., 96–97; e Werner Link, “Deutsche und amerikanische Gewerkschaften und Geschäftsleute 1945–1975: Eine Studie über transnationale Beziehungen – Sindacati e uomini d’affari tedeschi e americani 1945-1975: uno studio sui rapporti transnazionali” (Düsseldorf 1978), 100–06, e 88.
63 Gabriel Kolko, “The Politics of War: The World and United States Foreign Policy, 1943–1945 – Le politiche di guerra: il mondo e la politica estera degli Stati Uniti 1943-1945” (New York 1968), 331, e 348–9; Wilfried Loth, “Stalins ungeliebtes Kind: Warum Moskau die DDR nicht wollte – La creatura non amata di Stalin: perché Mosca non voleva la DDR” (Berlino 1994), 18; Wolfgang Krieger, “Die American Deutschlandplanung, Hypotheken und Chancen für einen Neuanfang – Il piano Americano per la Germania, ipoteche e occasioni per un nuovo inizio,” in Hans-Erich Volkmann, ed., “Ende des Dritten Reiches — Ende des Zweiten Weltkriegs: Eine perspektivische Rückschau – Fine del Terzo Reich – Fine della Seconda Guerra Mondiale: un punto di vista retrospettivo” (Monaco e Zurigo 1995), 36, e 40–1; e Lloyd C. Gardner, “Architects of Illusion: Men and Ideas in American Foreign Policy 1941–1949 – Architetti di illusioni: uomini ed idee nella politica estera Americana 1941-1949” (Chicago 1970), 250–1.
64 Kolko, “The Politics of War – Le politiche di guerra,” 507–11; Rolf Steininger, “Deutsche Geschichte 1945–1961: Darstellung und Dokumente in zwei Bänden. Band 1 – Storia Tedesca 1945-1961: Compendio e documenti in due volumi. Volume I ” (Frankfurt am Main 1983), 117–8; Joyce e Gabriel Kolko, “The Limits of Power: The World and United States Foreign Policy, 1945–1954 – I confini del potere: Il mondo e la politica estera degli Stati Uniti, 1945–1954” (New York 1972), 125–6; Reinhard Kühnl, “Formen bürgerlicher Herrschaft: Liberalismus — Faschismus – La conformazione del dominio borghese. Liberalismo-Fascismo” (Reinbek bei Hamburg 1971), 71; Reinhard Kühnl, ed., “Geschichte und Ideologie: Kritische Analyse bundesdeutscher Geschichtsbücher, second edition – Storia e Ideologia: analisi critica dei libri di storia dello stato federale tedesco ” (Reinbek bei Hamburg 1973), 138–9; Peter Altmann, ed., “Hauptsache Frieden. Kriegsende-Befreiung-Neubeginn 1945–1949: Vom antifaschistischen Konsens zum Grundgesetz – La pace, questione fondamentale. La fine della guerra-la liberazione-un nuovo inizio1945–1949: dal consenso antifascista alla Costituzione” (Frankfurt-am-Main, 1985), 58 ff.; e Gerhard Stuby, “Die Verhinderung der antifascistisch-demokratischen Umwälzung und die Restauration in der BRD von 1945–1961, Gli ostacoli alla rivoluzione antifascista-democratica e la restaurazione nella Repubblica Federale di Germania 1945–1961” in Reinhard Kühnl, ed., “Der bürgerliche Staat der Gegenwart: Formen bürgerlicher Herrschaft II – Lo stato borghese del presente: la conformazione del dominio borghese II” (Reinbek bei Hamburg 1972), 91–101.
65 Silverstein, “Ford and the Führer,” 15–6; and Lindner, Das Reichskommissariat, 121.
https://miccolismauro.wordpress.com/2015/05/09/il-profitto-uber-alles-il-profitto-innanzitutto-le-corporations-americane-ed-hitler-di-jacques-r-pauwels/
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