Il testo che viene presentato in questa pagina è stato pubblicato nel 1970 dalla rivista francese Temps Modernes. E' un commento a caldo del filosofo francese André Gorz a un progetto di riforma dell'università presentato dall'Eliseo dopo il Maggio francese. Questa 'pubblicazione' non deve essere letta come un'apologia, come l'elogio di una certa corrente ideologica. Semplicemente, si vuole segnalare ciò che in questo testo non risulta invecchiato, logoro, ancora utile per interpretare il presente: viene denunciata la falsa retorica del potere borghese in merito al diritto allo studio e alla valorizzazione del merito.
L'Università non può funzionare: impediamole dunque di funzionare perché l'impossibilità diventi manifesta. Nessuna riforma, di nessun tipo, può rendere questa istituzione di nuovo vitale; combattiamo dunque le riforme, nei risultati e nella ispirazione, non perché siano pericolose, ma perché sono illusorie.
La crisi dell'istituzione universitaria va oltre, come vedremo, l'orizzonte universitario, investendo la divisione tecnica e sociale del lavoro. È bene che questa crisi esploda. Occasioni e modi - più o meno buoni - possono essere discussi. Ma possono essere legittimamente criticati soltanto da coloro che concordano sulla necessità di rifiutare il riformismo, e sul fatto che questa necessità implica una posta di natura globale.(...)
L'ideologia borghese della scuola è quella della uguaglianza delle probabilità di promozione sociale attraverso lo studio. Si è sempre trattato, in realtà, di una uguaglianza solo apparente. Tuttavia nel passato meccanismi e criteri di selezione erano sufficientemente «obiettivi» perché il carattere arbitrario della selezione di classe risultasse mascherato: si era eliminati o selezionati, sulla base di un sistema di attitudini e competenze definito una volta per tutte. Tradizionalmente la sinistra si batteva non contro i criteri di classe della selezione - il che l'avrebbe obbligata a battersi contro la selezione in sé e quindi contro il complesso del sistema scolastico - ma perché tutti avessero diritto di entrare nella macchina selezionatrice. Il carattere contraddittorio di questa rivendicazione restò nascosto fin tanto che teoricamente il diritto era riconosciuto a tutti, ma praticamente la possibilità di usarlo era negata alla grande maggioranza. Nel momento in cui, estendendosi la diffusione della cultura, la maggioranza tende ad ottenere in concreto la possibilità di accedere agli studi superiori, questi perdono il carattere selettivo. Diritto allo studio e diritto a una promozione sociale non possono procedere insieme: se, al limite, tutti possono effettivamente studiare, non tutti possono essere effettivamente promossi a posti di privilegio. Il meccanismo di selezione scolastica essendo dunque battuto, la società cercherà o di sostituirlo con meccanismi complementari, oppure di restringere i diritto allo studio ricorrendo a limitazioni di natura amministrativa.
Queste limitazioni amministrative - numerus clausus, concorso per l'accesso alle facoltà - sono così difficili da mettere in atto che tutti i governi che si sono susseguiti (...) hanno rinunciato ad applicarli. Infatti limitare ex ante il numero degli studenti significa negare apertamente, brutalmente, un principio giuridico e una finzione sociale attraverso gli studi sono uguali per tutti e la possibilità di studiare non è condizionata che dalle attitudini personali. Distruggere questa finzione giuridica significa metterne a nudo il carattere illusorio delle libertà borghesi e, soprattutto, scontrarsi frontalmente, in nome d'una razionalità tecnocratica - gli studi costano cari e non sono redditizi se non implicano per i diplomati una promozione effettiva - con gli strati intermedi o pretesi tali, dei quali il regime non può conservarsi il consenso se non facendo balenare loro la possibilità d'una «elevazione sociale» condizionata esclusivamente dal merito. (...).
Politicamente la borghesia deve dunque conservare la finzione che a tutti è aperto l'accesso, attraverso lo studio, ad una promozione sociale. Senonché la realtà demistifica questa finzione: l'accesso agli studi resta libero, ma gli studi non approdano più a nulla. Il numero dei diplomati o laureati slavorizza lauree e diplomi. Molti sono gli eletti ma pochi i chiamati: i posti sono scarsi. La riduzione numerica che la selezione scolastica non è stata in grado di operare sarà operata dalla selezione al momento dell'impiego. (...)
Queste contraddizioni dell'università borghese rimandano a contraddizioni di fondo:
- il valore di mercato fin qui riconosciuto alle lauree si fondava sulla loro scarsità e sulla scarsità dell'attitudine allo studio. Quando questa diventa generale, il privilegio del diploma logicamente scompare, e con questo la divisione gerarchica dei compiti;
- se l'attitudine agli studi - sancita o meno da una laurea - tende a generalizzarsi, cessa di funzionare da criterio di selezione; la stratificazione sociale non può più fingere di fondarsi sulla competenza e sul merito. Diritto allo studio e diritto alla promozione non vanno più di pari passo;
- se gli studi non garantiscono più la promozione, delle due l'una: o saranno considerati una perdita di tempo e un carico sociale superfluo, visto che non sono redditizi né per coloro che li fanno né per la società capitalistica; o assumeranno la natura di una formazione generica, non funzionale, che la società può anche permettersi come un lusso. (...).
Ma è improbabile fermarsi qui: giacché una volta accettato che gli studi non sbocchino più su una carriera, va ridefinita la natura degli studi, il loro contenuto e senso: giacché non conferiscono più una cultura «utile», bisogna che conferiscano una cultura «ribelle»; giacché non corrispondono a una domanda della società, bisogna che corrispondano alla domanda di coloro che intendono distruggere questa società, abolendo questa divisione del lavoro.
Ora l'Università è per sua natura incapace di rispondere a questa domanda: non è funzionale né ai bisogni dell'economia capitalistica, né ai bisogni di chi vuole abolire il capitalismo; non elargisce né una cultura «utile» né una cultura «ribelle» (che, per definizione, non può essere elargita), elargisce una cultura universitaria, cioè un sapere separato sia dalla pratica produttiva che dalla pratica militante. Insomma, è un luogo in cui non si può impiegare i tempo né in maniera utile né in maniera interessante. E non c'è riforma che possa modificare questa situazione. Non si tratta dunque di riformare l'università, ma di distruggerla per distruggere insieme la cultura separata dal popolo che essa rappresenta (la cultura dei mandarini) e la stratificazione sociale di cui essa resta, malgrado tutto, lo strumento.
Questa è la realtà che la guerriglia universitaria mette in luce, abbreviando l'agonia d'una istituzione moribonda e rivelando l'ipocrisia delle corporazioni che la difendono. Qualcuno dirà che gli studenti estremisti non sanno sostituirla con nient'altro, né sanno cambiare la società perché questo «altro» diventi vitale. Ma gli studenti non possono da soli né produrre un'altra cultura né fare la rivoluzione. Quel che possono fare è di impedire che la crisi acuta degli istituti borghesi della divisione del lavoro e della selezione delle «elites» resti mascherata. È quello che fanno, ed è ciò che tutti i difensori dell'ordine - questo o qualsiasi altro ordine autoritario e gerarchizzato - non perdonano.
Da soli gli studenti non possono andare oltre; la distruzione e anche la contestazione effettiva (e non solo ideologica) della divisione del lavoro non può esser compiuta nell'università; non può esser compiuto che nelle fabbriche e nelle aziende: essa suppone l'analisi critica d'una organizzazione produttiva la cui apparente razionalità tecnica è insieme l'oggettivazione e la maschera d'una razionalità politica: d'una tecnica di dominio. Essa suppone una conoscenza pratica del processo di produzione e una pratica attiva per modificarlo, per sottometterlo ai «produttori» associati in modo da sostituire la divisione gerarchica con la divisione volontaria del lavoro.
Soltanto, partendo da una critica effettiva della divisione del lavoro può, a sua volta, diventare effettiva la critica di un insegnamento che direttamente (nelle scuole tecniche e professionali) o indirettamente, forma i quadri, gli esecutori e gli scarti della produzione capitalistica. La distruzione dell'università e dell'insegnamento di classe non riguarda cioè soltanto coloro che subiscono l'insegnamento: riguarda la classe operaia, se la divisione capitalistica del lavoro - di cui la scuola è la matrice - dev'essere superata. (...)
Se la necessaria violenza della lotta degli studenti tende allora a logorarsi in simboliche rivolte sul piano universitario non è per il gusto perverso d'una violenza fine a se stessa; è perché la violenza è la sola capace di spezzare, sia pur temporaneamente, l'accerchiamento del ghetto universitario e porre un problema del quale i riformisti d'ogni tipo preferiscono ignorare l'esistenza. Questo problema - la crisi delle istituzioni e dell'ideologia borghese e della divisione del lavoro - è per eccellenza un problema politico. Non basta che i partiti politici rifiutino di dare significato alla violenza studentesca e tradurla in politica perché questa sia assimilabile al vandalismo: si tratta d'una violenza politica, e politicamente necessaria, se non sufficiente.
L'ideologia borghese della scuola è quella della uguaglianza delle probabilità di promozione sociale attraverso lo studio. Si è sempre trattato, in realtà, di una uguaglianza solo apparente. Tuttavia nel passato meccanismi e criteri di selezione erano sufficientemente «obiettivi» perché il carattere arbitrario della selezione di classe risultasse mascherato: si era eliminati o selezionati, sulla base di un sistema di attitudini e competenze definito una volta per tutte. Tradizionalmente la sinistra si batteva non contro i criteri di classe della selezione - il che l'avrebbe obbligata a battersi contro la selezione in sé e quindi contro il complesso del sistema scolastico - ma perché tutti avessero diritto di entrare nella macchina selezionatrice. Il carattere contraddittorio di questa rivendicazione restò nascosto fin tanto che teoricamente il diritto era riconosciuto a tutti, ma praticamente la possibilità di usarlo era negata alla grande maggioranza. Nel momento in cui, estendendosi la diffusione della cultura, la maggioranza tende ad ottenere in concreto la possibilità di accedere agli studi superiori, questi perdono il carattere selettivo. Diritto allo studio e diritto a una promozione sociale non possono procedere insieme: se, al limite, tutti possono effettivamente studiare, non tutti possono essere effettivamente promossi a posti di privilegio. Il meccanismo di selezione scolastica essendo dunque battuto, la società cercherà o di sostituirlo con meccanismi complementari, oppure di restringere i diritto allo studio ricorrendo a limitazioni di natura amministrativa.
Queste limitazioni amministrative - numerus clausus, concorso per l'accesso alle facoltà - sono così difficili da mettere in atto che tutti i governi che si sono susseguiti (...) hanno rinunciato ad applicarli. Infatti limitare ex ante il numero degli studenti significa negare apertamente, brutalmente, un principio giuridico e una finzione sociale attraverso gli studi sono uguali per tutti e la possibilità di studiare non è condizionata che dalle attitudini personali. Distruggere questa finzione giuridica significa metterne a nudo il carattere illusorio delle libertà borghesi e, soprattutto, scontrarsi frontalmente, in nome d'una razionalità tecnocratica - gli studi costano cari e non sono redditizi se non implicano per i diplomati una promozione effettiva - con gli strati intermedi o pretesi tali, dei quali il regime non può conservarsi il consenso se non facendo balenare loro la possibilità d'una «elevazione sociale» condizionata esclusivamente dal merito. (...).
Politicamente la borghesia deve dunque conservare la finzione che a tutti è aperto l'accesso, attraverso lo studio, ad una promozione sociale. Senonché la realtà demistifica questa finzione: l'accesso agli studi resta libero, ma gli studi non approdano più a nulla. Il numero dei diplomati o laureati slavorizza lauree e diplomi. Molti sono gli eletti ma pochi i chiamati: i posti sono scarsi. La riduzione numerica che la selezione scolastica non è stata in grado di operare sarà operata dalla selezione al momento dell'impiego. (...)
Queste contraddizioni dell'università borghese rimandano a contraddizioni di fondo:
- il valore di mercato fin qui riconosciuto alle lauree si fondava sulla loro scarsità e sulla scarsità dell'attitudine allo studio. Quando questa diventa generale, il privilegio del diploma logicamente scompare, e con questo la divisione gerarchica dei compiti;
- se l'attitudine agli studi - sancita o meno da una laurea - tende a generalizzarsi, cessa di funzionare da criterio di selezione; la stratificazione sociale non può più fingere di fondarsi sulla competenza e sul merito. Diritto allo studio e diritto alla promozione non vanno più di pari passo;
- se gli studi non garantiscono più la promozione, delle due l'una: o saranno considerati una perdita di tempo e un carico sociale superfluo, visto che non sono redditizi né per coloro che li fanno né per la società capitalistica; o assumeranno la natura di una formazione generica, non funzionale, che la società può anche permettersi come un lusso. (...).
Ma è improbabile fermarsi qui: giacché una volta accettato che gli studi non sbocchino più su una carriera, va ridefinita la natura degli studi, il loro contenuto e senso: giacché non conferiscono più una cultura «utile», bisogna che conferiscano una cultura «ribelle»; giacché non corrispondono a una domanda della società, bisogna che corrispondano alla domanda di coloro che intendono distruggere questa società, abolendo questa divisione del lavoro.
Ora l'Università è per sua natura incapace di rispondere a questa domanda: non è funzionale né ai bisogni dell'economia capitalistica, né ai bisogni di chi vuole abolire il capitalismo; non elargisce né una cultura «utile» né una cultura «ribelle» (che, per definizione, non può essere elargita), elargisce una cultura universitaria, cioè un sapere separato sia dalla pratica produttiva che dalla pratica militante. Insomma, è un luogo in cui non si può impiegare i tempo né in maniera utile né in maniera interessante. E non c'è riforma che possa modificare questa situazione. Non si tratta dunque di riformare l'università, ma di distruggerla per distruggere insieme la cultura separata dal popolo che essa rappresenta (la cultura dei mandarini) e la stratificazione sociale di cui essa resta, malgrado tutto, lo strumento.
Questa è la realtà che la guerriglia universitaria mette in luce, abbreviando l'agonia d'una istituzione moribonda e rivelando l'ipocrisia delle corporazioni che la difendono. Qualcuno dirà che gli studenti estremisti non sanno sostituirla con nient'altro, né sanno cambiare la società perché questo «altro» diventi vitale. Ma gli studenti non possono da soli né produrre un'altra cultura né fare la rivoluzione. Quel che possono fare è di impedire che la crisi acuta degli istituti borghesi della divisione del lavoro e della selezione delle «elites» resti mascherata. È quello che fanno, ed è ciò che tutti i difensori dell'ordine - questo o qualsiasi altro ordine autoritario e gerarchizzato - non perdonano.
Da soli gli studenti non possono andare oltre; la distruzione e anche la contestazione effettiva (e non solo ideologica) della divisione del lavoro non può esser compiuta nell'università; non può esser compiuto che nelle fabbriche e nelle aziende: essa suppone l'analisi critica d'una organizzazione produttiva la cui apparente razionalità tecnica è insieme l'oggettivazione e la maschera d'una razionalità politica: d'una tecnica di dominio. Essa suppone una conoscenza pratica del processo di produzione e una pratica attiva per modificarlo, per sottometterlo ai «produttori» associati in modo da sostituire la divisione gerarchica con la divisione volontaria del lavoro.
Soltanto, partendo da una critica effettiva della divisione del lavoro può, a sua volta, diventare effettiva la critica di un insegnamento che direttamente (nelle scuole tecniche e professionali) o indirettamente, forma i quadri, gli esecutori e gli scarti della produzione capitalistica. La distruzione dell'università e dell'insegnamento di classe non riguarda cioè soltanto coloro che subiscono l'insegnamento: riguarda la classe operaia, se la divisione capitalistica del lavoro - di cui la scuola è la matrice - dev'essere superata. (...)
Se la necessaria violenza della lotta degli studenti tende allora a logorarsi in simboliche rivolte sul piano universitario non è per il gusto perverso d'una violenza fine a se stessa; è perché la violenza è la sola capace di spezzare, sia pur temporaneamente, l'accerchiamento del ghetto universitario e porre un problema del quale i riformisti d'ogni tipo preferiscono ignorare l'esistenza. Questo problema - la crisi delle istituzioni e dell'ideologia borghese e della divisione del lavoro - è per eccellenza un problema politico. Non basta che i partiti politici rifiutino di dare significato alla violenza studentesca e tradurla in politica perché questa sia assimilabile al vandalismo: si tratta d'una violenza politica, e politicamente necessaria, se non sufficiente.
Nessun commento:
Posta un commento