lunedì 28 maggio 2012

Corruzione e costituzione, di Michele Basso


La trasmissione delle esperienze politiche alle nuove generazioni è assai  complicata e difficoltosa; innanzitutto, per la consapevole mistificazione della borghesia,  proprietaria di giornali e televisioni,  che influenza la scuola, i partiti, le associazioni, e ha l’appoggio della chiesa. Quasi tutti i giornali e le TV private fanno capo a grandi complessi industriali o bancari (non c’è solo Berlusconi), e quindi, più che strumenti d’informazione, sono dispositivi di pressione politica in difesa di precisi interessi.
Internet, mezzo potente di espressione, deve essere utilizzato dai lavoratori per la loro lotta e le denunce politiche, ma è anche uno strumento attraverso cui la polizia, i servizi segreti, il padronato possono controllare tutto ciò che ciascuno di noi dice, con uno spionaggio universale. Inoltre, accanto a cose vere, circolano un’infinità di notizie approssimative o intenzionalmente false, o semplicemente bufale non sempre innocue.
Soprattutto, la borghesia è detentrice del potere politico, mascherato da parvenze democratiche.  La classe dominante distorce i fatti, presentando le peggiori limitazioni dei diritti come riforme, le guerre come spedizioni umanitarie, la spietata tassazione dei ceti meno abbienti come giusta severità tendente a rendere possibile un miglioramento dei servizi pubblici e il funzionamento corretto dell’amministrazione. Molti se ne rendono conto soltanto ora perché perdono il lavoro, la casa, l’assistenza sociale, mentre in periodi precedenti potevano vivere modestamente, e persino sperare di salvare i risparmi con titoli “sicuri” (Parmalat, Bond Argentini, Cirio, Lehman…). Potevano fare un mutuo che li incatenava per decenni, dando loro la “certezza” della proprietà. Poi venne Equitalia, con i pignoramenti.
L’inganno cosciente della borghesia è possibile perché gran parte della popolazione non vede nel nostro sistema economico–sociale una perpetuazione dello sfruttamento, ma pensa che la corruzione sia dovuta alla malvagità di singoli o all’interesse dei partiti, e che, con un’azione di risanamento morale, sia possibile raddrizzare questa società. Si aggiunge, poi, l’inerzia della consuetudine. L’ideologia dominante è l’ideologia della classe al potere, che assume forme relativamente diverse, adattandosi alle condizioni specifiche degli strati sociali a cui si rivolge. Per esempio, il laburismo propone riforme apparentemente molto importanti per le masse operaie, -  e anche qualche miglioramento, pagato con una reale sudditanza alla borghesia - e non pone in dubbio il sistema capitalistico.
L’odierna sfacciata corruzione della classe dominante non è casuale, non va interpretata sulla base di pretesi principi morali o giuridici eterni e invariabili. Ogni sistema politico sociale, ogni classe, ogni religione ha una sua morale. Per un aristocratico era un’onta lasciare invendicata ogni offesa, a costo di uccidere l’avversario. Per il capitalista dell’ottocento – e ancor oggi in gran parte del mondo – non è disonesto sfruttare i bambini in fabbrica fino alla consunzione, mentre è considerata immorale e sovversiva ogni azione ispirata alla lotta contro il capitale. Fanatici islamici considerano un obbligo religioso imporre alle donne il burka e lapidare le adultere o presunte tali, settari cristiani si sentono in dovere di bruciare in pubblico il Corano, pur sapendo che tale azione avrà come effetto  rappresaglie contro gli occidentali, morti e distruzioni.
La corruzione  di cui parliamo non è quella personale, presente persino nelle epoche più severe, ma quella derivante dalla senescenza del capitalismo. Una struttura solida,  ad esempio l’impero romano del I secolo, poteva avere al vertice un Caligola o un Nerone – ammesso che sia vero quello che ci dicono gli storici dell’epoca – e risolvere il problema eliminando fisicamente un individuo. In epoche successive, neppure moralissimi imperatori educati alla filosofia stoica riuscirono ad  allontanare la crisi. L’impero raggiunse una sorta di globalizzazione ante litteram – Caracalla concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti del’impero. Rutilio Namaziano celebrò tardivamente e con nostalgia l’unificazione compiuta da Roma, mentre passava tra città abbandonate o attaccate dai Visigoti. Non poteva accettare che il mondo in cui aveva sempre creduto non avesse futuro. Chiamava i  monaci cristiani “uomini che fuggono la luce”, ma saranno proprio i loro successori, non più dediti alla vita solitaria (anacoreti), ma riuniti in comunità (cenobiti) a salvare, non solo le opere della cultura antica, ma anche e soprattutto forme di agricoltura relativamente avanzata.
Ci sono analogie tra le modalità di decadenza dei diversi sistemi sociali, ma ogni ciclo storico ha proprie peculiarità, e richiede un’analisi specifica.
Il capitalismo è in crisi, ma non ancora in piena disgregazione. La sua sopravvivenza è un tossico che avvelena la società e l’ambiente, e una perenne fonte di guerre. La cosiddetta civiltà occidentale sopravvive solo predando altri popoli, alla ricerca di petrolio e di materie prime, e di mercati su cui riversare la propria sovrapproduzione.
In Italia, il malessere sempre più evidente porta a una protesta contro la cosiddetta casta, in particolare verso deputati, senatori e amministratori. Non sono la classe dominante, ma i suoi servi privilegiati, un po’ come i liberti della corte imperiale romana o gli eunuchi del celeste impero. Da qualche tempo, la rabbia si rivolge anche verso settori ben più potenti della classe dirigente, i banchieri, anche se contraddittoriamente se ne accettano i rappresentanti al vertice del governo, credendoli migliori dei politicanti soliti.
Molti, pur impegnati nella lotta, pensano che il risanamento possa avvenire con la restaurazione della costituzione repubblicana. Ma la carta costituzionale è solo il riflesso idealizzato della costituzione reale dello stato e della società capitalistica italiana. E’ idealismo pensare che un’insieme di norme possa determinare la struttura della società, e non viceversa. “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”;  queste parole, di una assoluta banalità, sono pronunciate con tono solenne da autorità e gente comune. Quale società umana non è fondata sul lavoro? A cominciare da quella dei cacciatori – raccoglitori, in cui le donne, iniziavano a sperimentare su scala ridotta la possibilità di coltivare piante, aprendo la via a una grande rivoluzione economica, la nascita dell’agricoltura.
Su quale lavoro si fonda la nostra società? Sullo sfruttamento del lavoro salariato, come il feudo si basava sulla servitù della gleba e Roma antica su quello degli schiavi. Eppure, moltissimi, anche militanti che si credono comunisti, recitano l’articolo 1 con un rispetto religioso, dimenticandosi, inoltre, che l’art. 42  garantisce per legge la proprietà privata.
Ma la costituzione è solo la facciata elegante dell’intero sistema.
Bisogna distinguere tra fasi storiche diverse: finché un sistema economico–sociale permette lo sviluppo delle forze produttive, neppure l’iniquità della distribuzione della ricchezza, il barbaro sfruttamento, la repressione possono creare gravi motivi d’instabilità duratura. Le inevitabili ribellioni, o sono schiacciate, oppure non riescono a cambiare fino in fondo il sistema. In questo periodo, però, possono esserci miglioramenti, riforme sociali e giuridiche. Il codice penale Zanardelli, ispirato a principi liberali, ne fu un esempio. I legislatori del II dopoguerra non lo ripristinarono, ma gli preferirono il codice del fascista Rocco, sia pur con qualche modifica, a dimostrazione che  non avevano alcuna intenzioni di privarsi degli strumenti di repressione creati dal fascismo. Mascherarono questa sostanziale continuità col fascismo con numerose celebrazioni della resistenza, proprio come oggi a commemorare Falcone e Borsellino vediamo anche politici collusi con le mafie.
Solo quando ogni ulteriore sviluppo delle forze produttive è impedito – per sovrapproduzione, ma anche per gli effetti di una guerra, può svilupparsi una rivoluzione radicale: “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso;  nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.”(1)
Ma questa società nuova non può rimanere legata all’involucro della vecchia, così come la società capitalistica non poté rimanere nei margini degli Stati generali e del diritto feudale.
E’ vero che nel passato le rivoluzioni hanno assunto l’aspetto di restaurazioni di regole di età precedenti. La rivoluzione inglese trasse la sua retorica dalla Bibbia, quella francese da Roma repubblicana, e poi, con Napoleone, da Roma imperiale ma, come osserva Marx, “Una volta instaurata la nuova formazione sociale disparvero i mostri antidiluviani; e con essi disparve la romanità resuscitata: i Bruti, i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo stesso Cesare”. E oltre Manica, “condotta a termine la trasformazione borghese della società inglese, Locke dette lo sfratto ad Abacuc”. Nelle rivoluzioni borghesi era necessario tale travestimento e tali illusioni, perché, se i rivoluzionari avessero avuto sentore del vero carattere della società a cui aprivano il varco, forse si sarebbero tratti indietro. Oggi, tutto ciò non avrebbe senso.  Chi spera di restaurare lo spirito della costituzione repubblicana, è vittima di un’illusione. Non è possibile fare pulizia della corruzione finché si resta nel capitalismo, una società dove il mercato decide tutto, quali guerre cominciare,  quali opere inutili costruire, quali deputati comprare, quali oppositori scomodi eliminare (con l’isolamento e la calunnia o con la lupara). La pulizia ormai si può fare solo con una rivoluzione, che è naturalmente la fine del vecchio ordine costituzionale.
I fenomeni economici ai quali assistiamo, che i più ritengono nuovi, sono familiari per chi legge “Il Capitale”: il debito pubblico come alienazione dello stato, e sua subordinazione al capitale finanziario, il collegamento di tutti i popoli nel mercato mondiale. “Ogni capitalista ne ammazza molti altri”, ossia la centralizzazione, con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi. Il massacro sociale delle classi medie e la loro caduta nel proletariato, la pauperizzazione crescente di vastissimi strati con la crescita “della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento”. La soluzione non è l’impossibile ritorno all’indietro, come sognano certi fautori della decrescita, ma l’espropriazione degli espropriatori, che solo i lavoratori, cioè la stragrande maggioranza della popolazione, purché organizzati e determinati, possono realizzare.
Michele Basso
25 maggio 2012

NOTE
1) Karl Marx, “Per la critica dell’economia politica. Prefazione”.
                                 

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