giovedì 4 ottobre 2012

Una rivoluzione incompiuta, di Samir Amin


Afrique Asie 28 settembre 2007
Testimonianza. Spesso invitato da Thomas Sankara a dare il suo punto di vista sugli orientamenti della rivoluzione del paese degli uomini giusti (Il Burkina Faso), l’economista Samir Amin non gli ha mai nascosto le sue impressioni. Buone o tiepide.
“Colonia di colonie”, tale fu la realtà d’Alto-Volta. Questo paese ha fornito con l’emigrazione, la maggior parte dei lavoratori che hanno costruito l’economia coloniale della Costa d’Avorio, mentre i villaggi d’origine di questi costruttori di prosperità sono sopravvissuti soltanto con le molliche dei banchetti. In generale, l’emigrazione impoverisce le regioni di partenza che sopportano il costo della formazione dei lavoratori, dalla loro nascita alla loro partenza, e spesso quello della pensione dei vecchi quando tornano al paese. Arricchisce le classi dirigenti dei paesi ospiti beneficiari dei lavoratori immigrati, generalmente poco costosi. L’Alto-Volta non faceva eccezione. La Costa d’Avorio aveva ogni interesse che questo paese fosse, in queste condizioni, “indipendente”, in pratica era interessato a liberarsi degli oneri di sostentamento di quest’ultimo (la parte principale del territorio dell’Alto-Volta ha fatto parte della colonia della Costa d’Avorio fino al 1947). Se consideriamo lo sviluppo dei due paesi insieme, ciò che corrisponde strettamente alla realtà della loro ineguale associazione economica, le cifre “del miracolo” ivoriano devono essere divise per due.
Questa situazione è stata sempre conosciuta dal popolo e dagli intellettuali del Burkina Faso ed era motivo di spontanea rivolta. Nel corso di una conferenza all’Università di Ouagadougou, dove si discuteva di questo problema, ero invitato a rispondere ad una domanda maliziosa di uno studente. Dico schiettamente: prendete le vostre biciclette (i Burkinabesi sono i soli su tutto il continente a fare un impiego intensivo di questo strumento, e Ouagadougou somigliava pertanto a Beijing!) e scendete fino a Abidjan per proclamare l’unità dei due paesi. Due problemi saranno risolti in un solo colpo: quello economico dell’Alto-Volta, ed il problema politico della Costa d’Avorio! Fui applaudito come mai! Questo senso di rivolta è forse una delle ragioni per le quali l’intelligenzia del Burkina Faso era, e resta, dominata dalla sinistra. Tutti, o quasi, quelli che fanno politica, qui, appartengono o sono appartenuti ad una delle correnti del comunismo, del Partito Africano dell’Indipendenza (PAI) d’origine o dei movimenti maoisti (o il Partito comunista rivoluzionario dell’Alta Volta (PCRHV) o altre organizzazioni). Non è stupefacente che quest’influenza si sia estesa nell’esercito, e che un gruppo di ufficiali abbia anche osato prendere il nome di Raduno degli ufficiali comunisti (Roc).
Alter-mondialista
Il teatrino dell’amministrazione néocoloniale della RDA (Raduno democratico africano) di Maurizio Yaméogo, il primo presidente dell’Alto-Volta, non poteva dunque durare. Ma la radicalizzazione della risposta è stata tempestiva. L’agitazione urbana, animata da sindacati potenti che rifiutando di essere addomesticati dal potere del partito unico, tuttavia chiusi nei limiti delle loro clientele della piccola borghesia (insegnanti, funzionari), in mancanza di base industriale ed operaia, aveva, in un primo tempo, aperto le porte ad un regime militare morbido e velleitario, quello di Lamizana. Fino il giorno in cui il Roc, diretto da Thomas Sankara, prese il potere.
Si posero immediatamente i problemi classici di queste situazioni: che fare? Si tratterà si superare il populismo e di incoraggiare le masse contadine ed urbane povere ad organizzarsi liberamente, o si tenterà “di inquadrarle” al punto di annientare la resistenza potenziale? Quali relazioni il potere bisognerà stabilire con le organizzazioni rivoluzionarie marxiste? Bisognerà cercare di assorbirli in un nuovo partito unico o accettare una formula più democratica di fronte reale, tollerante verso i diversi punti di vista e capace di aprire un dibattito?
Tale fu l’oggetto di discussioni ripetute con Thomas Sankara che mi invitava ad esporre il mio punto di vista. Sankara, devo riconoscerlo, è una personalità che mi è apparsa immediatamente molto simpatica. Realmente semplice, diretto, aperto, che ascoltava ciò che gli si diceva e che rispondeva senza abusare della sua posizione di capo. Inoltre realmente femminista, convinto dell’importanza del cambiamento dei costumi a favore dell’uguaglianza dei sessi - e questo è molto raro “nei grandi uomini”. Anche colto, aveva letto “i classici” del marxismo con la stessa attenzione di un buon intellettuale civile. Mi sentivo dunque completamente a mio agio con lui e, se non fosse stato un capo di Stato, sarebbe diventato un amico senza problemi. Il suo assassinio mi ha sconvolto.
Sankara aveva, a mio avviso, visto giusto - almeno teoricamente – per quanto riguarda la “strategia di sviluppo economico e sociale”. Alter-mondialista di avanguardia, Sankara aveva promosso il consumo di prodotti locali a scapito delle importazioni, lanciando simbolicamente Faso Dan Fani, un modo di vestirsi che valorizzava il cotone prodotto localmente anziché esportarlo allo stato grezzo. Insomma pensava ad uno sviluppo soprattutto autarchico, endogeno.
In una prima tappa, bisognava pensare a dei “piccoli progetti”, in altre parole, ad azioni di miglioramento rapido delle condizioni di produzione delle Comunità rurali, meno costose possibili, e che i vantaggi di questi miglioramenti ritornassero completamente alle Comunità interessate. Scelta non motivata dalla filosofia incerta di “small is beautiful”, ma da realismo (cos’è possibile immediatamente?) e per senso politico (è attraverso questo tipo di operazioni che un’organizzazione ed una democratizzazione della vita rurale possono essere iniziate). Inoltre, Sankara aveva deciso - ispirato forse dal modello cinese - di inviare i funzionari ed i tecnici a fare tirocini alla base, nei villaggi.
Sperando che avrebbero “imparato dalle masse” (conoscendone i veri problemi) e “insegnato alle masse” (mettendo al loro servizio le loro conoscenze di agronomi, di veterinari, di medici, di insegnanti, di ragionieri). Non avevo certamente nulla da ridire, oppure aggiungere, ad un piano di questo tipo. Ho dunque detto a Sankara che desideravo soltanto vedere - almeno un po’- come questo programma funzionava sul campo. Ho avuto l’impressione che egli si aspettasse questa domanda. Ma, ancora di più, la sua risposta: non puoi vedere tutto (era passato rapidamente al tu dei compagni), ti occorrerebbe restare un anno per questo, ma allora, fai la tua scelta, vai a vedere i tuoi amici (tutti sapevano che io frequentavo tutta la sinistra di Burkina Fasso) e scegli in funzione di ciò che ti diranno (molti tra loro dubitavano e prevedevano il fallimento). Questo è ciò che feci.
Non ho l’audacia di sostenere che potrei presentare una relazione seria a partire dalle mie osservazioni, che non sono state altro che impressioni rapide. Dirò soltanto che le mie impressioni sono state piuttosto favorevoli. Forse per ignoranza delle vere difficoltà e realtà, che mi hanno fatto accettare troppo rapidamente ciò che due o tre persone di ogni luogo visitato erano in grado di dire e di analizzare. Ma il solo fatto che un terzo circa dei funzionari e tecnici incontrati sul campo erano felici della sorte che era riservata a loro (la vita materiale è più dura che ad Ouagadougou, ma quante cose si capiscono! E inoltre ci si sente così tanto utili!) mi sembrava un successo. Forse due terzi di questi “deportati” - silenziosi - non erano dello stesso parere. Ma la proporzione di un terzo era molto più di quanto avessi potuto immaginare. Ciò mi ricordava la frase di Amilcar Cabral sul suicidio della piccola borghesia come classe. In ogni caso, i risultati materiali dell’operazione – l’aumento reale della produzione, dell’auto-consumo e delle vendite - dimostrano un successo almeno parziale, che avrebbe potuto essere migliorato col tempo.
Thomas Sankara era realmente femminista, cio che è molto rara «nei grandi uomini»
Sull’aspetto delle relazioni con le organizzazioni rivoluzionarie, le cose erano più difficili. Sankara sapeva che avrei visto “i miei amici”. Lo desiderava anche, e credo che sperasse che svolgessi il ruolo di una specie di intermediario ufficioso. Io ci tenevo a restare al mio posto: quella di uno straniero troppo ignaro di molte realtà per dare lezioni. Certamente ho incontrato tutti, o quasi, ed ho ascoltato molto le loro analisi - diverse e spesso divergenti -: Basile Guissou e Joséphine Ouédraogo, Talata Kafando, Arba Diallo, Philippe Ouédraogo, Taladie Thiombiano e tanti altri, senza contare gli uomini politici moderati come Joseph Ki-Zerbo, Charles Kaboré, gli economisti come Pierre Damiba, e gli altri.
Futuro aperto
Il potere aveva messo in campo le proprie organizzazioni, in particolare i comitati di difesa della rivoluzione. I loro comportamenti, il grado della loro organizzazione e del loro controllo eventuale, le loro relazioni con i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie, nulla di ciò era sufficientemente chiaro perché si possano ricavarne (almeno da parte mia), delle conclusioni che riguardino sia la strategia politica che il potere delle organizzazioni rivoluzionarie. Le loro direzioni, che io incontravo normalmente e separatamente le une dalle altre, avevano dei punti di vista che io ascoltavo volentieri. Il mio solo intervento fu di dire a tutti – anche a Sankara: “ Tutelate le vostre differenze e rispettatevi reciprocamente, se è possibile, ma provate anche a lavorare insieme, su punti di convergenza. Che dopo tutto, ci sono”. Ed è quanto realmente penso. L’esperienza del Burkina Faso è stata affossata. Sankara è stato assassinato da persone a lui vicine, come si sa. Il paese non è più riuscito a scostarsi dai sentieri battuti dal neocolonialismo banale. Ma il futuro resta aperto, ed una ripresa a sinistra non è inimmaginabile se le condizioni interne ed esterne ne permetteranno lo sviluppo. Il Burkina Faso è, come il Mali e Ghana, in stato d’attesa.
Samir Amin

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