mercoledì 4 aprile 2012

L'imperialismo e gli Stati nazionali: alcuni problemi di teoria marxista, di Stefano Zecchinelli

Articolo pubblicato su: Comunismo e Comunità

L'imperialismo e gli Stati nazionali: alcuni problemi di teoria marxista

''A chi si deve, se dura l'oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!'' Bertolt Brecht

1. I principali Stati imperialistici, con in testa gli Usa, hanno come primo bersaglio gli Stati nazionali, la democrazia e il diritto all’autodeterminazione dei popoli.
Gli ideologi del Pentagono, durante la guerra fredda, hanno strumentalizzato il concetto di democrazia per condurre la loro battaglia (non solo politica, ma anche ideologica) contro gli Stati dell’Est (a prescindere dal dibattito sulla natura sociale di quei Paesi). La democrazia, quindi, viene fatta coincidere con la libertà economica e il libero mercato; le, così dette, Repubbliche popolari, stando a questo discorso imprescindibile, non avevano altra soluzione che accettare le economie capitalistiche. I risultati del dopo 1989 sono sotto gli occhi di tutti e, sicuramente, le popolazioni che si sono beccate, circa un decennio di shock economy, hanno avuto ben poco di cui gioire.
In questo articolo mi propongo di rimettere in discussione il concetto di democrazia, strappandolo all’ideologia dominante neo-liberista, in questo modo traccerò
Fatta questa breve premessa passo ad esporre in modo argomentato le mie opinioni.

2. Non si può iniziare un discorso sulla democrazia e lo Stato nazionale senza mettere in chiaro qualche caratteristica del neo-imperialismo. Uno studio su che cosa è l’imperialismo oggi, è importantissimo proprio perché mette in risalto la incompatibilità fra le economie neo-liberiste, i grandi oligopoli industriali, la guerra contro i popoli del Sud, e, dall’altro lato, la democrazia (intesa come potere del popolo). Insomma, per dirla con Lenin, l’involucro del capitalismo (e Lenin si riferiva alla vecchia democrazia borghese) è incompatibile con il suo contenuto, quindi le economie capitalistiche necessitano di istituzioni (o meglio strumenti di dominio) profondamente anti-democratici.
Per avere una idea della portata del problema bisogna analizzare il folle progetto di militarizzazione del mondo da parte della potenza capitalistica più forte, gli Stati Uniti, e discutere le risposte, possibili ed auspicabili, da parte dei popolo del Terzo Mondo.

3. Il controllo militare del mondo serve agli Usa per garantire la sopravvivenza alle sue lobby finanziarie. Quando l’Unione Sovietica stava per essere smembrata 1, Washington ha pianificato interventi militari, con precise finalità geo-politiche, in Irak, Afghanistan, Jugoslavia, Asia centrale, ora Libia, per non parlare degli squadroni della morte in America Latina, del narco-traffico e del ruolo di Israele in Medio Oriente.
Da un lato, abbiamo un popolo prescelto (Usa o Israele) che ha (anzi, crede di avere) il diritto di conquistare lo spazio vitale, e dall’altro gli Stati canaglia con le loro resistenze nazionali ridotte, dai media di regime, a terrorismo.
Questo progetto è estremamente imperialistico e, ogni tentavo di decostruire questa categoria (di cui ricordo solo quello più in voga negli ambienti accademici: la teoria dell’Impero di Tony Negri) si scontra con l’attualità dei fatti. I motivi di ciò meritano una ulteriore riflessione.

4. Gli Stati Uniti possono essere definiti, prima di tutto, come una ideocrazia 2: il concetto di Stato nazionale si fonde con l’ideologia dominante creando una religione civile americana (del resto il gingoismo yankee è stato un nazionalismo tanto esasperato ed aggressivo quanto folcloristico).
La religione su cui si basa l’impero americano è assolutamente pragmatica, va a braccetto con l’economia capitalistica ed annulla il decisionismo politico.
Negli Usa, non sono mai esistiti Partiti di sinistra ed organizzazioni operaie che prospettavano il superamento del capitalismo. Samir Amin – inoltre – ha sottolineato che la cultura dominante yankee è caratterizzata da due elementi molto rilevanti: (1) la riduzione della filosofia ad empirismo; (2) la riduzione delle scienze umane all’economia (che non è mai economia politica). 3
In questo l’ideologia del dominio yankee va a braccetto con il nucleo metafisico del nazismo; il progetto di Hitler e l’imperialismo a stelle e strisce mettono insieme messianesimo e primato della razza, sciovinismo nazionalista e cosmopolitismo (che si ritrova nella teoria sullo scontro di civiltà di Samuel Huntigton).
L’adozione di questo modello capitalistico, per l’Europa, ha avuto effetti deleteri: si è trattato – ed è stata questa la cosa più grave – di rompere con le grandi correnti filosofiche – Illuminismo ed Idealismo in testa – che hanno fatto della filosofia (con un adeguato retroscena culturale) una prassi veritativa.
Insomma, i presupposti inalienabili, per arrivare a Marx e al marxismo rivoluzionario (Lenin, Gramsci, Korsch, ecc…).
E’ questo il motivo per cui negli Usa esistono due Partiti che rappresentano i medesimi interessi di classe; votare la sinistra (democratici) o la destra (repubblicani) non comporta nulla di concreto dato che entrambi i partiti seguono gli interessi delle lobby finanziarie. Se in Europa lo Stato ha mediato interessi fra classi antagoniste (borghesia, proletariato e ceti medi), negli Usa, questo (lo Stato), è interamente al servizio del Partito del Capitale.
L’imperialismo americano si basa sull’imposizione a livello pan-planetario di questo orrore; per chi non si adegua ci sono i colpi di Stato, le rivoluzioni colorate e, male che va, i bombardamenti al fosforo.
Chiariti (ovviamente ho generalizzato molto) alcuni fondamenti ideologici dell’Impero, passo a trattare il rapporto fra il centro capitalistico e le periferie. I due argomenti sono strettamente connessi fra di loro; senza popolo prescelto non c’è militarizzazione del mondo che tenga.

5. La globalizzazione è collegata alla necessità dell’imperialismo della Triade (Usa-Ue-Giappone) di espropriare i popoli coloniali delle loro risorse; quindi il dibattito sul rapporto Stato nazionale e socialismo è legato al conflitto del Nord del mondo con il Sud del mondo.
Nei capitalismi occidentali gli oligopoli regolano la produzione (illimitata) delle merci, le sorti delle piccole e medie imprese e hanno l’ultima parola sulle aggressioni neo-coloniali. Tutto ciò ha profondamente mutato la struttura della classe dominante: la borghesia storica (che in certi frangenti della sua storia si è data anche una cultura critica) è stata sostituita da una nuova global class che ha tolto (soprattutto in Europa) alla democrazia ogni significato (partecipazione, potere popolare, dialettica fra gruppi sociali contrapposti, ecc…). Il nuovo capitalismo manageriale – per tirare le somme – è impersonale e distrugge qualsiasi comunità sociale e nazionale.
Gli oligopoli esistono anche nelle periferie: alcuni sono pubblici altri privati. Come ben sappiamo, in Cina, al potere c’è – per l’appunto – uno Stato-Partito che tutto è tranne che socialista (almeno a mio avviso), mentre in Russia il capitalismo corporativo di Putin ha restituito alla Stato quel ruolo che era andato perso dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il governo (dittatoriale) del ‘’soldato americano’’ Elcin. Nonostante ciò, il ruolo dello Stato nelle periferie è molto diverso rispetto alla metropoli; se nella metropoli le oligarchie, come su ho ricordato, dettano legge, nelle periferie queste non godono di molti consensi (anche le borghesie nazionali – di cui non bisogna per nulla fidarsi – le guardano con diffidenza) e potrebbero subire durissimi colpi se si formassero (come già è avvenuto in Paesi come il Venezuela, la Bolivia, l’Ecuador o il Nepal) blocchi egemonici nazional-popolari.
I Paesi del Terzo Mondo sono chiamati ad una dura prova contro l’imperialismo occidentale e i loro fantocci (borghesie compradore, oligarchie anti-nazionali, ecc…); la loro vittoria potrebbe aprire un lungo processo di democraticizzazione anche nel Nord del mondo, cosa che un anticapitalista non può che auspicarsi.

6. Fino ad ora mi solo limitato a chiarire la matrice ideologica dell'imperialismo Usa e ad individuare nei popoli del Terzo Mondo un potenziale soggetto rivoluzionario. Tutto ciò implica la rottura del binomio liberismo/democrazia e, al contrario di quello che dice la vulgata dominante, mette la democrazia in relazione con il socialismo.
Chiarire il rapporto che c'è fra la migliore ideologia democratica e il socialismo non è certo facile.
Io inizierei con il fissare due (e solo due!) punti di indagine con cui, però, un marxista non può non confrontarsi: (1) delineerò le distinzioni fra il marxismo dei Paesi coloniali e il marxismo dei Paesi capitalistici; (2) spiegherò perchè, in questa fase, è possibile tracciare un filo rosso (ed è da lì che dobbiamo ripartire) fra nazione e socialismo.

7. Il pensiero di Marx – come è ben noto – nasce in Occidente e si confronta con le problematiche che riguardavano i capitalismi occidentali (polarizzazione della ricchezza, nascita del proletariato industriale, prime rivolte sociali, ecc...). Parlare di difesa della sovranità in occidente, dalla fine dell'ottocento in poi, è sempre stato un non senso perchè, nell'epoca dell'imperialismo, gli Stati grandi privano i piccoli Stati coloniali delle loro risorse. I movimenti separatisti - dall'altra parte - pongono solo problemi di confine e, il più delle volte, sono appoggiati dall'imperialismo egemone per spappolare Stati che perseguono una politica, interna ed estera, autonoma. Così è stato in Urss, in Jugoslavia e così gli Stati Uniti vorrebbero fare per la Cina dove la CIA sostiene economicamente, da anni, le mafie tibetane. Le cose cambiano radicalmente per i Paesi coloniali.
I movimenti anti-coloniali (che nascono fra la fine dell'ottocento e i primi del novecento) si scontrarono (e il conflitto è ancora oggi, più che mai, forte) reclamando l'indipendenza nazionale, direttamente con i peggiori Stati imperialistici (Francia ed Inghilterra prima e Stati Uniti dopo). Più i colonizzatori aumentavano la repressione (che non faceva distinzione fra comunisti e nazionalisti di sinistra), dimostrando la loro indisponibilità a fare concessioni politiche ed economiche, più i colonizzati diventavano battaglieri, ricorrendo alla lotta armata, formando movimenti di classe e, nel migliore dei casi, producendo una cultura alternativa per avviare una decolonizzazione culturale (su ciò ci sono delle bellissime pagine di Frantz Fanon, in I dannati della terra, dove descrive proprio la letteratura di battaglia).
Marx e Lenin parlarono in modo rigoroso di guerra di classe, ma nei Paesi Coloniali la produzione teorica ruotò attorno al concetto di guerra di popolo. L’imperialismo – del resto – non distrugge solo la classe operaia – che per i marxista classici è il soggetto rivoluzionario – ma schiaccia interi popoli, compresa una parte dei ceti medi. Non è casuale che movimenti come, ad esempio, il Movimento 26 luglio che fu in testa al trionfo della Rivoluzione cubana, si basavano un interclassismo rivoluzionario. Non solo Cuba, ma anche la Cina, il Vietnam, l’Algeria, arrivarono al socialismo partendo dalla irrisolta questione nazionale.
Che dire? Da oriente ad occidente cambia la composizione di classe e il marxismo ha bisogno di alcuni ripensamenti. Cose ovvie per un rivoluzionario non dogmatico che cerca in Marx un metodo e non un Vangelo.

8. L’imperialismo collettivo è tutto il contrario di ciò che aveva prospettato Tony Negri con il suo Impero.
Se l’economia mondiale tende a far sparire i confini nazionali, gli Stati dovrebbero, almeno partendo da una questione di principio, mettere dei freni ai mercati. Per questo, poco più su, ho ricordato come negli Usa è in vigore una, vera e propria, religione laica del profitto. L’economia sovrasta la politica e subordina i gruppi sociali alla produzione illimitata delle merci (in fondo il capitalismo funziona così).
In Europa delle grandi mobilitazioni di massa (scioperi, boicottaggi contro le multinazionali, solidarietà verso le resistenze antimperialiste) potrebbero rompere questa logica perversa imposta dalla global class al comando.
L’imperialismo americano ha sempre considerato l’Europa come un piccolo giardinetto di casa (qualcosa di simile all’America Latina) e l’Unione Europea rientra nel progetto yankee di imposizione, su scala mondiale, del neo-liberismo.
Quindi direi che il problema è duplice: (1) da un lato, bisogna isolare gli Usa, magari auspicando una cooperazione economica con Russia e Cina; (2) dall’altro, è vitale una ripresa della lotta di classe per restituire agli Stati un ruolo sociale. Tutto questo implica – e su ciò non è possibile essere incerti – una lotta senza esclusione di colpi contro gli esponenti della classe dominante, compresi gli scarti delle fracide borghesie nazionali (le borghesie nazionali italiane, poi, sono più che mai corrotte).
E’ necessario, oltretutto, capire che tutti i problemi che i dominati devono affrontare oggi (debito pubblico, Euro, lotta alle privatizzazioni, ecc…) si pongono al livello nazionale ma si risolvono solo attraverso una rete di movimenti anti-capitalistici che operano su scala internazionale.
In un articolo sulla questione monetaria in Europa (scritto un po’ meno di un anno fa), Samir Amin scriveva:

‘’ Ogni nazione europea, rimasta di fatto sovrana, avrebbe quindi gestito la sua economia e la sua moneta secondo le sue possibilità e i suoi bisogni, anche limitati dalla apertura commerciale (il mercato comune). L'interdipendenza sarebbe stata istituzionalizzata dal serpente monetario: le monete nazionali sarebbero state scambiate a tassi fissi (o relativamente fissi), rivisti di volta in volta attraverso aggiustamenti negoziati (svalutazioni o rivalutazioni).

Si sarebbe allora aperta una prospettiva - lunga – di un "indurimento del serpente” (che preparava forse l’adozione di una moneta comune). I progressi in questa direzione sarebbero stati misurati dalla convergenza - lenta, progressiva - dell'efficienza dei sistemi di produzione, dei salari reali e dei benefici sociali. In altri termini, il serpente avrebbe facilitato – e non ostacolato - un progresso possibile attraverso una convergenza verso l'alto. Questa avrebbe richiesto politiche nazionali differenziate che si ponevano questi obiettivi, e i mezzi per perseguire queste politiche, tra gli altri il controllo dei flussi finanziari, cosa che implica il rifiuto dell'assurda integrazione finanziaria deregolata e senza frontiere’’ (Samir Amin, L’impossibilità di gestire l’Euro, pubblicato su L’Ernesto il 31/05/2010)

In concreto, in questa situazione, è molto difficile che un Paese solo, anche a seguito di grandi lotte, possa abbandonare l’Unione Europea. L’imperialismo non tollera Stati canaglia e attraverso il boicottaggio o l’imposizione di forti dazi doganali lo manderebbe ben presto in rovina.
La cosa cambia se, in tutta Europa, si formassero dei movimenti popolari ed anti-capitalistici che rovesciassero (cosa, ora come ora, molto difficile) le varie elite nazionali. Allora ci sarebbero i presupposti per avere una giusta cooperazione fra gli Stati sovrani e, riprendendo il discorso del marxista egiziano ‘’ I progressi in questa direzione sarebbero stati misurati dalla convergenza - lenta, progressiva - dell'efficienza dei sistemi di produzione, dei salari reali e dei benefici sociali. In altri termini, il serpente avrebbe facilitato – e non ostacolato - un progresso possibile attraverso una convergenza verso l'alto’’.
Tutto il contrario di quello che stanno facendo i tecnocrati pazzi al governo, in Italia ed altrove.
L’ultima parte di questo articolo riguarderà il rapporto democrazia/liberismo e, per rompere questo binomio illogico, intendo proprio partire dall’analisi delle tecnocrazie. Come sempre cercherò di inquadrare il problema prima storicamente per poi vedere le attuali implicazioni nel rapporto (o meglio conflitto) fra dominanti e dominati.

9. Il problema delle tecnocrazie è stato preso in esame in modo eccellente da James Petras in un suo recentissimo saggio. Il testo di Petras, intitolato Il nuovo autoritarismo: dalle democrazie in decomposizione alle dittature tecnocratiche e oltre, ha il pregio di inquadrare i governi tecnici, non come un gioco interno alle democrazie borghesi classiche (quindi l’eccezione che conferma la regola), ma come il segno lampante di una transizione verso la dittatura coloniale tecnocratica (ed io aggiungerei mondiale).
La prima caratteristica dei governi tecnici che metto a fuoco è il loro autoritarismo (l’elemento dittatoriale).
Il sociologo americano, in un breve paragrafo di questo impegnativo saggio, fa un raffronto fra le tecnocrazie e i fascismi; sentiamo cosa dice:

‘’ Le precedenti dittature fasciste e militari hanno molto in comune con gli attuali despoti tecnocratici per quanto concerne gli interessi capitalistici che loro difendono e le classi sociali che loro opprimono. Ma ci sono differenze importanti che mascherano le continuità. La giunta militare in Grecia, e in Italia Mussolini, avevano preso il potere con la forza e la violenza, avevano messo al bando tutti i partiti dell’opposizione, avevano schiacciato i sindacati e chiuso i parlamenti eletti. Alla attuale dittatura “tecnocratica” viene consegnato il potere dalle élites politiche della democrazia oligarchica - una transizione “pacifica”, almeno nella sua fase iniziale. A differenza delle precedenti dittature, gli attuali regimi dispotici conservano le facciate elettorali, ma svuotate di contenuti e mutilate, come entità certificate senza obiezioni per offrire una sorta di “pseudo-legittimazione”, che seduce la stampa finanziaria, ma si fa beffe di solo pochi stolti cittadini. Infatti, dal primo giorno di governo tecnocratico gli slogan incisivi dei movimenti organizzati in Italia denunciavano: “No ad un governo di banchieri”, mentre in Grecia lo slogan che ha salutato il fantoccio pragmatista Papademos è stato “Unione Europea, Fondo Monetario, fuori dai piedi!” Le dittature in precedenza avevano iniziato il loro corso come stati di polizia del tutto vomitevoli, che arrestavano gli attivisti dei movimenti per la democrazia e i sindacalisti, prima di perseguire le loro politiche in favore del capitalismo. Gli attuali tecnocrati prima lanciano il loro malefico assalto a tutto campo contro le condizioni di vita e di lavoro, con il consenso parlamentare, e poi di fronte ad una resistenza intensa e determinata posta in essere dai “parlamenti della strada”, procedono per gradi ad aumentare la repressione caratteristica di uno stato di polizia... mettendo in pratica un governo da stato di polizia incrementale’’ (James Petras, Il nuovo autoritarismo: dalle democrazie in decomposizione alle dittature tecnocratiche ed oltre, pubblicato su Global Research)

Mussolini o Franco – come sottolinea Petras – avevano preso il potere con la forza, distruggendo le organizzazioni operaie (nell’analisi marxista il fascismo viene definito come una reazione della borghesia imperialista al pericolo della rivoluzione proletaria) mentre i governi dei tecnici sono stati nominati dalla global class per integrare singoli Paesi (l’ Italia o la Grecia) nel capitalismo finanziario globale. In questo Mario Monti è molto più vicino a Videla che a Mussolini. Le squadracce fasciste erano milizie piccolo-borghesi di cui la borghesia si servì per combattere il movimento comunista: in Italia dopo il biennio rosso, in Germania al crepuscolo di Weimar e in Spagna per porre fine alla Repubblica Popolare. Inutile sorvolare, su questo punto le distinzioni sono notevoli; i tecnici hanno il consenso delle istituzioni politiche (parlamento, magistratura, Capo dello Stato, ecc…) e solo davanti grandi resistenze di piazza procedono a chiudere gli spazi di agibilità politica. Questo lavoro sporco diventa più facile quando vengono preceduti da governi nettamente di destra, come il governo Berlusconi in Italia, coalizione governativa che ha sempre avuto al suo interno formazioni politiche post-fasciste.
Detto questo è bene riflettere su due esempi storici molto complessi i quali, con eloquenza, rendono visibile il filo nero che lega fascismo e tecnocrazie.

(1) Nel 1926, in Portogallo, una dittatura guidata dal generale Carmona mette fine alla Repubblica ed espone il Paese alla crisi economica. Il portafoglio delle Finanze viene offerto all’economista conservatore Antonio Salazar che lo lascia dopo tredici giorni. Nel 1928 Salazar concentra il potere nelle sue mani e le sue ricette economiche contengono la spesa e riportano il bilancio in attivo.
Nel 1932 A.S. viene nominato Presidente del Consiglio e promulga una nuova Costituzione in cui si teorizza uno Estado Novo (Stato nuovo). E’ l’inizio del fascismo portoghese ispirato, fra le altre cose, alla Dottrina sociale della Chiesa Cattolica.
Salazar resterà al potere fino al 1974 e finita la Seconda guerra mondiale, almeno da dopo il 1949, trasformò il Portogallo in uno Stato fantoccio degli Stati Uniti, unendo una economia corporativa interna alla subordinazione verso i piani egemonici dell’imperialismo americano per ciò che riguarda la politica estera.
In Portogallo, negli anni 1928-’32 dai successi di un governo tecnico si sono poste le basi per l’instaurazione di un regime fascista.

(2) Nel 1985, in Bolivia, Victor Paz, dopo aver vinto democraticamente le elezioni, fece proprio il programma di Banzer, il dittatore uscente, applicando le ricette neo-liberiste dell’economista americano (ex keynesiano e poi ammiratore del consulente di Pinochet, Milton Friedman) Jeffrey Sachs.
Le conseguenze furono disastrose: l’industria di Stato fu svenduta alle multinazionali straniere, i salari diminuirono vertiginosamente (scesero dal 40% al 70%), la disoccupazione aumentò e, tutto questo, fu accompagnato da norme liberticide che davano pieni poteri alle forze dell’ordine nel reprimere i movimenti sociali.
La Bolivia ebbe, con la benedizione di Washington, il suo Pinochet, questa volta a seguito di elezioni democratiche. Una doppia beffa per la classe operaia in lotta contro l’imperialismo.
In questo caso il ricorso all’autoritarismo è stato preceduto dalle elezioni democratiche; solo dopo le libertà civili sono state abolite. Che cosa dobbiamo dedurre? L’imperialismo non si affida più a squadracce nere o a colonnelli tipo quelli greci, ma trova nei tecnici i migliori interpreti delle sue esigenze (cosa sistematizzata nei documenti della Commissione Trilaterale, nata, in quegli anni, da poco).
La Bolivia fece da cavia per una nuova forma di autoritarismo, un autoritarismo morbido che può camminare di pari passo con la democrazia formale.

10. Nel febbraio 1982 Margaret Thatcher descrisse l’economia cilena, sotto Pinochet, come un ottimo risultato acquisito. L’economista Von Hayek consigliò al Primo Ministro britannico di applicare le shock economy anche in Inghilterra ma ebbe questa risposta su cui vale la pensa soffermarci:

‘’Sono certa che converrà con me che, in Gran Bretagna, con le nostre istituzioni democratiche e la necessità di un elevato margine di consenso, alcune misure adottate in Cile risulterebbero del tutto inaccessibili. La nostra riforma dovrà essere in linea con le nostre tradizioni e la nostra Costituzione. A volte il processo sembrerà dolorosamente lento’’ (la citazione è tratta da Shock economy di Naomi Klein a pag. 151)

La shockterapia non è applicabile in un Paese dove il popolo viene chiamato a pronunciarsi sul programma politico dei suoi governanti; nessuno, in effetti, voterebbe a favore della svendita dell’industria di Stato o, peggio ancora, per la privatizzazione di beni come l’acqua.
Le politiche imposte in America Latina erano impensabili in Europa almeno, restando, alle condizioni – o, e per un marxista questa è una grossa forzatura, alle garanzie – di una normale democrazia borghese. Quindi, gli economisti di Chicago, dovettero utilizzare, per i Paesi occidentali, una strategia diversa.

11. Nel 1982 l'Inghilterra della signora Thatcher entrò in guerra contro l'Argentina dei colonnelli per il controllo delle Isole Falkland. L'operazione prese il nome di Operation Corporate quasi come fosse un preludio di quello che, da lì a breve, Margaret Thatcher avrebbe fatto in patria.
Il conflitto armato con l'Argentina si concluse con la vittoria schiacciante dell'Inghilterra (una potenza imperialistica, quindi, che surclassa un Paese semi-coloniale) e questo diede alla, ribattezzata lady di ferro, i consensi sufficienti per vincere le elezioni politiche che si tennero in quello stesso anno.
Nel 1984 ci furono degli scioperi dei lavoratori delle miniere del carbone. La lady di ferro, sull'accaduto, lasciò queste dichiarazioni agghiaccianti:

''Nelle Falkland abbiamo dovuto combattere il nemico esterno, e ora dobbiamo affrontare il nemico interno, che è molto più difficile ma altrettanto pericoloso per la libertà''

I lavoratori britannici erano diventati nemici interni da sbaragliare a tutti i costi e in tutti i modi. Furono mandati ben 8.000 poliziotti in squadra antisommossa che provocarono oltre 700 feriti (numero che poi salì a diverse migliaia).
La Thatcher stava combattendo una guerra, una guerra di classe contro i lavoratori britannici, con l’obiettivo di imporre il neo-liberismo e, cosa che sembrerà assurda, per guadagnare, nel mentre, consenso elettorale.
In una uscita che poi divenne famosa Milton Friedman affermò che ''solo una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento. Quando quella crisi si manifesta, le azioni intraprese dipendono dalle idee che sono in circolo. Questa, io credo, è la nostra funzione basilare: sviluppare alternative a politiche esistenti, tenerle in vita e a disposizione finchè il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile''.
Incredibile, in questa frase c'è quella che per i nostri dominanti è la ragion d'essere delle tecnocrazie: il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile.
Quindi è necessario un governo che imponga l'austerità (austerità significa lacrime e sangue per i ceti subalterni) in nome del mercato che è al di sopra di ogni cosa a partire dalla politica (nel senso più nobile del termine, ovviamente). I tecnocrati non vanno oltre, questa è la loro etica.

12. Nel paragrafo 9 ho ricordato (da un lato) l'avvento del salazarismo in Portogallo e (dall'altro) il commissariamento della Bolivia, nel 1985, da parte della Scuola di Chicago.
Una sorta di doppio salto mortale da parte delle borghesie: (1) nel primo caso il governo tecnico è stato un governo di transizione verso il fascismo; (2) in Bolivia, al contrario, si è trattata di una condizione di lunga durata con finalità ben precise, sopra a mala pena accennate (uno studio sulle shock economy in America Latina meriterebbe un articolo a parte quindi è meglio, in questi casi, non puntare sulla sintesi).
Petras, nel suo lodevole saggio, sostiene che:

''Il compito storico della dittatura tecnocratica è quello di far arretrare le conquiste politiche, sociali ed economiche guadagnate dalla classe operaia, dai dipendenti pubblici e dai pensionati dopo la sconfitta del capitalismo fascista nel 1945''

Se dal dopoguerra in poi gli Stati Uniti hanno soffocato con dittature militari (e tecnocratiche) i governi antimperialisti che si ‘’imponevano’’ nei Paesi coloniali (Allende in Cile, il castrismo, il panarabismo laico, ecc...) adesso il bersaglio è di portata certamente maggiore: la distruzione dello Stato sociale in Europa ossia la completa americanizzazione del tessuto sociale (rapporti economici, egemonia informativa, imposizione del pensiero unico).
Resta aperta la domanda ''quanto tempo possono durare questi governi di transizione?''. Difficile dare, in questo momento, risposte certe. Mario Monti sarà cinico quanto si vuole ma non penso che possa trasformarsi in un nuovo Salazar (e del resto non arriva nemmeno ai lacci delle scarpe del fascista portoghese in questione); non credo nemmeno che – come incredibilmente minacciò Barroso – le borghesie imperialistiche possano ricorrere a dittature militari. Insomma, per l’Italia escluderei la duplice ipotesi: da Monti a Salazar e da Monti a Videla.
Con tutta probabilità i tecnici faranno, nel minor tempo possibile, la mattanza sociale che i partiti democraticamente eletti non possono fare – per non svuotare i loro bacini elettorali – dopo di che ripristineranno la situazione precedente. Le borghesie imperialiste sono consapevoli di aver svuotato di contenuto la democrazia (che non esiste più come democrazia partecipativa) quindi il loro unico problema è quello di tenere insieme l’autoritarismo e il gioco delle elezioni democratiche (cosa che si evince dalle frasi – su da me riportate – di Margaret Thatcher).
In questa fase è in atto anche lo scontro fra le oligarchie europee e gli ultimi residui delle borghesie nazionali che, utilizzando un linguaggio demagogico, cercano di ripristinare quella che Marx ha chiamato la vecchia merda dell’ordine precedente. Tutte cose molto disgustose, non c’è che dire.

13. In conclusione il quadro che delineerei è questo:

(1) Per la classe operaia (ed i ceti subalterni in genere) non è possibile nessun ritorno al passato. Quindi, da un lato, è necessario rompere con le corrotte borghesie nazionali mentre, dall’altro, è vitale l’abbandono di teorie economiche neo-keynesiane (Moderne Teorie Monetarie, ecc…). Il superamento del capitalismo ha bisogno di Marx e di Lenin.

(2) Il conflitto di classe si farà – inevitabilmente – sempre più acuto. I dominati (salariati e parte dei ceti medi) dovranno organizzarsi in movimenti anti-capitalistici, partendo da organizzazioni nazionali e arrivando a creare coordinamenti internazionali. Le parole d’ordine dietro cui dovranno unirsi saranno: socialismo, sovranità nazionale e solidarietà internazionalistica.

(3) Le potenze imperialistiche, a partire dagli Stati Uniti, faranno di tutto per impedire la formazione di blocchi egemonici alternativi. Gli anti-capitalisti non devono limitarsi ad appoggiare formalmente i movimenti di liberazione nazionale (resistenza irakena, palestinese, libica, ecc…) ma devono promuovere azioni concrete come decise campagne di boicottaggio verso i maggiori artefici del militarismo pan-planetario (prima di tutto gli Usa e Israele).
Non c’è altra alternativa: è necessaria una lotta senza quartiere contro la nuova global class, una lotta che, con tutta probabilità, andrà ben oltre gli scioperi e i boicottaggi. Solo allora potremo vedere – fra le tante cose – se il volto di Monti (o chi per lui) acquisterà le macabre sembianze di Salazar o di Videla togliendo definitivamente, al capitalismo criminale, quella maschera di decenza con cui si è abituato a nascondersi.

Note:

1) Il rapporto fra movimenti separatisti ed imperialismo è descritto molto bene nel saggio di James Petras, pubblicato su Global Research, intitolato Separatismo e costruzione dell’Impero nel XXI secolo.
2) Definizione utilizzata dal filosofo Costanzo Preve citato, in questo caso, da Miguel Martinez nel saggio Armageddon: L’impero americano e l’immaginario del dominio universale, reperibile nel sito Kelebek.
3) Segnalo, su questo argomento, il saggio di Samir Amin: L’ambizione criminale e fuor di misura degli Stati Uniti: controllare militarmente il pianeta, tranquillamente reperibile in rete.

Altri testi consultati:

1) Samir Amin, L'imperialismo contemporaneo, Ed. Punto Rosso
2) Samir Amin, Gli Stati nazionali. Quale margine di manovra?, pubblicato su Proteo
3) Naomi Klein, Shock economy, Ed. BUR

http://www.comunismoecomunita.org/?p=3082

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