domenica 25 marzo 2012

Cuba: Cinquecento anni di storia, di Antonio Moscato

CINQUECENTO ANNI DI STORIA…


Questo è un estratto della parte storica della Guida storico politica di Cuba pubblicata da Data News, Roma 1998


La conquista e la prima dominazione spagnola

Le eredità del passato recente (di cui si parla molto e spesso a sproposito) e di quello remoto (di cui si parla pochissimo) pesano entrambe molto, sia pure in forma diversa.
I cubani fanno riferimento spesso alla brutalità della conquista spagnola (Castro lo ha fatto anche nel discorso di benvenuto a Giovanni Paolo II, ricordando le responsabilità della Chiesa), ma le tracce visibili di quel periodo si manifestano quasi esclusivamente nella composizione etnica della popolazione attuale. La distruzione degli indigeni è stata quasi totale e rapidissima: meno di cinquanta anni dopo la conquista, dei centomila abitanti taínos, siboneyes, guanajatabeyes, nel 1550 non rimanevano che cinquemila persone.
Cuba fu una delle prime terre “scoperte” da Cristoforo Colombo nelle “Indie”. Pur essendo in altri casi un acuto osservatore, Colombo rimase convinto che Cuba fosse un continente e non un isola, come gli dicevano gli indigeni. La ragione principale è stata colta lucidamente da Bartolomé de Las Casas: “quando un uomo desidera fortemente una cosa e vi si attacca saldamente con l'immaginazione, ad ogni istante ha l'impressione che tutto quel che vede e sente parli in favore di quella cosa”. Colombo pensa che Cariba (il nome con cui gli “indiani” definivano gli abitanti antropofagi delle isole vicine) sia una deformazione di Caniba, e confermi che ci siano a breve distanza i “sudditi del Gran Can” che egli ricerca. Così, confondendo i suoi desideri con la realtà, rifiuta l'informazione geografica che contraddice il suo sogno di avere raggiunto il continente asiatico, e mette in dubbio l'attendibilità dei suoi informatori, che gli sembrano “uomini bestiali, i quali pensano che il mondo intero è un'isola”. Egli è convinto che essi non possano neppure sapere cos'è la terraferma, perché “sono senza lettere e senza memorie del passato, e non trovano altro piacere che nel mangiare e nello star con le donne [...]”. Comunque, verificato che c’era poco oro, Colombo salpò presto per altri lidi, senza completare l’esplorazione. Ci penserà, alla fine del 1509, Diego Velázquez, che comincerà la conquista con trecento uomini bene armati. Mezzo secolo dopo, i circa cen-tomila abitanti di Cuba erano praticamente estinti. I bianchi liberi erano ancora soltanto settecento.
I primi decenni dopo la conquista non avevano visto una vera colonizzazione. Rapinate le poche ricchezze trovate, gli spagnoli avevano usato l’isola solo come scalo.
I pochi superstiti della popolazione originaria si rifugiarono nelle zone più impervie delle montagne dell’Oriente, dove nei secoli successivi si mescolarono con i cimarrones, gli schiavi neri fuggiti dalle piantagioni. Il saccheggio e lo sterminio erano stati deliberati e spietati. Ne ha lasciato memoria monsignor Bartolomé de las Casas, che a Cuba si recò al seguito delle truppe di Narváez. Non furono quindi solo le malattie importate dall’Europa (che comunque fecero strage di una popolazione sprovvista di anticorpi nei confronti di esse), ma il ferro e la forca a completare l’opera. Stupri e violenze di ogni genere (ad esempio: il taglio delle mani, lasciate poi appese agli alberi) servirono da deterrente, sospingendo sui monti i pochi sopravvissuti, e consentendo a poche centinaia di spagnoli di dominare il paese.
La resistenza eroica di alcuni gruppi capeggiati da Hatuey (che proveniva dalla vicina isola di Hispaniola, l’odierna Haiti) e dal cacique Guamá fu facilmente stroncata, grazie all’enorme superiorità tecnologica dei conquistatori, che avevano non solo armi da fuoco e spade d’acciaio e corazze (contro archi rudimentali e asce di pietra), ma anche cavalli e feroci cani da guerra, del tutto sconosciuti sull’isola.

La tratta degli schiavi

Proprio Bartolomé de Las Casas, che ci ha lasciato pagine sconvolgenti sulla conquista, fu uno dei responsabili della proposta “umanitaria” di importare dall’Africa schiavi neri, più resistenti alla fatica e alle malattie, e soprattutto spaesati nel nuovo ambiente, sicché avevano maggiori difficoltà a tentare la fuga. Per due secoli, comunque, a Cuba di schiavi neri ne arrivarono pochi, dato che l’isola serviva soprattutto da base di appoggio per la flotta che portava in Europa le immense ricchezze razziate sul continente.
Anche se fin dal 1590 erano apparse le prime rudimentali fabbriche che estraevano lo zucchero dalla canna, fino alla metà del Settecento le esportazioni di zucchero rimasero modestissime, destinate quasi esclusivamente all'approvvigionamento di un alimento energetico per le navi che si apprestavano alla lunga e insicura traversata dell’Atlantico.
Alla fine del primo secolo di dominazione spagnola gli schiavi neri erano poche migliaia, poco più dei tremila spagnoli ed europei liberi. Una parte dei contadini liberi o semiliberi provenivano dalle isole Canarie, e avevano introdotto la coltivazione del tabacco, che nel clima delle regioni occidentali produceva foglie profumate e sottili, con cui fin da allora venivano prodotti i migliori sigari del mondo.


Compaiono nuovi dominatori

Agli inizi del Settecento la popolazione raggiunge appena le cinquantamila unità, per la metà neri e mulatti. Ma le trasformazioni erano cominciate, anche grazie a una presenza crescente di interessi di altri paesi europei: dapprima, attraverso il contrabbando, nelle due direzioni – immettendo nell'isola prodotti industriali d'oltreoceano e comprando a prezzi convenienti carne secca, tabacco, zucchero, caffè, rame e legname; poi, nel 1762, con la conquista dell'Avana da parte di truppe inglesi, nel quadro della guerra dei Sette anni.
L'anno successivo la Pace di Parigi determinava il ritiro da Cuba dell'Inghilterra, che otteneva tuttavia dalla Spagna la Florida e dalla Francia il Canada e la Louisiana. Anche se vent'anni dopo la Gran Bretagna – sconfitta dalla coalizione di Stati uniti, Francia e Spagna – dovrà restituire la Florida, la potenza coloniale della Spagna era ormai spezzata. In meno di un anno di occupazione erano sbarcate a Cuba oltre mille navi inglesi, portandovi circa cinquemila schiavi africani: più di quanti ne aveva introdotti la Real Compañia de Comercio nei due decenni precedenti.
Anche dopo la firma del trattato di pace, alcune compagnie britanniche ottennero permessi per massicce importazioni di schiavi e di altre mercanzie, che andavano ben oltre le concessioni strappate dall'Inghilterra cinquant'anni prima con la Pace di Utrecht, al termine della guerra di Successione spagnola. I quantitativi permessi venivano poi superati largamente, grazie alla complicità dei doganieri spagnoli. Lo stesso effetto ebbe la contemporanea conquista inglese di Manila, che durò meno di due anni, ma provocò modificazioni nell’economia delle Filippine, scosse duramente il prestigio della Spagna e avviò una duratura penetrazione della Gran Bretagna, ereditata poi dagli Stati uniti.
Sono questi avvenimenti che sconvolgono l'economia cubana, il cui inserimento in quella mondiale è decisamente accresciuto, ma dipende sempre meno dalla potenza coloniale. La partecipazione della Spagna, a partire dal 1778, alla guerra di Indipendenza americana, facilitò al massimo l'intercambio con i nascenti Stati uniti, che avevano uno sviluppo economico già nettamente superiore a quello dell'isola e della stessa Spagna, rimaste al margine della rivoluzione industriale. La guerra tra Francia e Spagna, nel 1793-1795, offriva nuove possibilità di inserimento di merci inglesi e statunitensi nei mercati cubani. E al termine delle guerre napoleoniche, che avevano avuto come conseguenza indiretta per la Spagna la perdita delle colonie del Centro e Sud America, non rimase al governo di Madrid che riconoscere a Cuba una piena libertà commerciale, che già esisteva di fatto, con la complicità degli stessi governatori spagnoli.
L'intercambio tra Cuba e gli Stati uniti superava ormai quello con la Spagna, e sarebbe cresciuto ininterrottamente: alla metà dell'Ottocento le esportazioni di Cuba verso la Spagna – basate prevalentemente sullo zucchero, dato che si era rapidamente sviluppata la monocoltura a canna – erano circa un quarto rispetto a quelle dirette negli Stati uniti e nettamente inferiori anche a quelle verso l'Inghilterra. Dal 1823 la “dottrina Monroe” avrebbe creato la premessa politica per la totale estromissione della Spagna da Cuba.
Se per due secoli il carattere artificiale dello Stato e dei rapporti di produzione trapiantati nell'isola aveva spinto le classi possidenti a dipendere in modo strettissimo dall'apparato repressivo spagnolo, dalla fine del XVIII secolo i proprietari terrieri e la nascente borghesia locale guarderanno sempre più al potente vicino del Nord, e si rafforzeranno sempre più al loro interno le tendenze “annessioniste”, che si collegheranno ai gruppi espansionisti degli Stati uniti.

Le rivolte sociali

Ma sono anni che vedono anche comparire i primi conflitti sociali, che si intrecciano alle aspirazioni a un'indipendenza totale. Le lotte dei vegueros, oppressi da tasse e balzelli insopportabili, contro il monopolio spagnolo del tabacco ricordano la “rivolta del tè” di Boston, preambolo della rivoluzione americana. E si moltiplicano soprattutto le insurrezioni degli schiavi negri.
Finché l'isola era praticamente disabitata, l'obiettivo delle sommosse era quasi esclusivamente l'evasione: dopo avere ucciso i guardiani, i cimarrones cercavano la libertà sui monti, dove si organizzavano in comunità libere (palenques). Dovevano fare i conti con uno spietato apparato di repressione, che utilizzava cani feroci specialmente addestrati e infliggeva dopo la cattura fustigazioni e mutilazioni (in genere il taglio di un orecchio), che rendevano visibile il carattere ribelle dello schiavo, rendendone più difficile una nuova evasione; in caso di recidiva, si procedeva all'impiccagione pubblica. A ogni sconfitta si rafforzava la tendenza dei negri a rifugiarsi nella religione, che non poteva però essere quella dei dominanti. Si consolidò così una forma originale di sincretismo, che dietro una sottile patina cattolica riproponeva le divinità africane yoruba, o kongo, o carabalí. Ancora oggi a Cuba moltissimi negri, ma anche molti bianchi o mulatti, venerano Changó identificato con Santa Barbara, Yemayá con la Virgen del Cobre, Babalú-Ayé con San Lázaro, ecc.
All'inizio dell'Ottocento tuttavia, anche per l'effetto contagioso della vittoriosa rivoluzione degli schiavi negri della vicina Haiti, le cospirazioni negli ingenios zuccherieri – che si sviluppavano con capitali spagnoli e soprattutto stranieri e in cui comparivano le prime macchine, importate quasi sempre dagli Stati uniti – assunsero un nuovo carattere, a volte collegandosi a negri liberi che predicavano l'abolizione della schiavitù, l'uguaglianza tra bianchi e negri e la ripartizione delle terre tra i contadini. Nel 1843 un'insurrezione ben pre-parata dilagò per mesi nella provincia di Matanzas, provocando il panico dei latifondisti e del governo, che dovette inviare rinforzi per averne ragione al prezzo di migliaia di vittime, spesso atrocemente torturate prima dell'esecuzione.
Il panico era suscitato soprattutto dal timore di una ripetizione dell'esperienza di Haiti. Decine di migliaia di possidenti francesi, fuggiti da quel paese dopo la vittoria dell'insurrezione degli schiavi, erano arrivati a Cuba, dove spesso svolsero un ruolo importante e indubbiamente contribuirono all'ostilità dei benestanti nei confronti del primo Stato negro della storia moderna e contemporanea.

La modernizzazione indotta dall’esterno

Nel corso dei centosei anni intercorsi tra la conquista britannica dell’Avana e l’inizio della rivoluzione antispagnola, Cuba si è trasformata profondamente.
Il sistema di produzione basato sulla schiavitù si è rafforzato ed è divenuto predominante. Lo schiavismo a Cuba non è un residuato di un passato lontano, ma è stato portato dal capitalismo, insieme alle macchine moderne che trasformano la canna raccolta dalle braccia dei neri in prezioso zucchero destinato all’esportazione. Al tempo stesso, il capitalismo ha generalizzato la monocoltura a canna, basata su aziende di dimensioni gigantesche, sempre più di proprietà nordamericana, soprattutto per la disponibilità degli ingenti capitali ne-cessari per i macchinari.
Nel corso del secolo XIX il costo degli schiavi, per l’acquisto e lo stesso mantenimento, è aumentato notevolmente. Fanno eccezione alcune zone, soprattutto della punta occidentale di Pinar del Río, dove è più conveniente mantenere la piccola proprietà per la produzione del tabacco, che richiede cura e attenzioni impossibili da ottenere con la forza. Anche sulle montagne della zona orientale del paese la produzione del caffè si basa su aziende di dimensioni più ridotte e, in genere, di proprietà cubana.

I danni irreparabili della monocoltura

La monocoltura modifica profondamente l’economia e l’ambiente, distruggendo definitivamente l’economia tradizionale di sussistenza basata su un’agricoltura differenziata. La dipendenza dal mercato mondiale si sviluppa provocando molti squilibri: da un lato, una flessione del prezzo del prodotto da esportare può provocare la rovina dell’intero paese; dall’altro, la riduzione drastica delle altre attività agricole determina una dipendenza alimentare dall’estero. La popolazione muta gradatamente le abitudini alimentari, ad esempio con l’introduzione del pane, per il quale è necessario importare frumento, che cresce bene solo in zone temperate o fredde.
Per tutte queste ragioni, quando la monocoltura si è consolidata da secoli è difficile da sradicare, anche se c’è una volontà forte da parte del gruppo dirigente, come nella prima fase della rivoluzione cubana. Durante l’ultima fase della lotta contro Batista, nel 1958, ad esempio, i barbudos incendiarono molte piantagioni di canna: non era solo una pressione sul dittatore e sui suoi sostenitori nordamericani, ma anche il riflesso di un atteggiamento popolare di rifiuto della dipendenza dallo zucchero, condiviso in parte dallo stesso gruppo dirigente della rivoluzione. La stessa volontà di farla finita con la monocoltura si è manifestata dopo l’indipendenza in altri paesi ex coloniali, senza successo.
I tentativi di introdurre altre attività agricole si scontrano con fattori climatici, ma anche con la distruzione della stessa cultura e tradizione contadina: la canna richiedeva solo poche cure (e una grande fatica nel taglio, almeno fino a quando, fin dai primi anni dopo la rivoluzione, la raccolta non è stata meccanizzata). Eppure, in molti casi, la mancanza di un’agricoltura articolata e ricca colpisce il turista, che spesso pensa sia una specificità cubana dovuta a una scelta politica di Fidel Castro, ignorando che proprio il líder máximo, insieme a Guevara, è stato, nei primi anni dopo il 1959, il massimo fautore della diversificazione produttiva!
Le carenze alimentari, la dipendenza dalle importazioni non sono un’esclusiva di Cuba, ma un eredità lasciata dalla dominazione coloniale a gran parte del mondo.


Tre rivoluzioni… prima di Castro

Quanto alla “rivoluzione di Fidel Castro”, i luoghi comuni ripetuti incessantemente dai mass media da anni e rilanciati con gran forza al momento della visita del papa, la presentano come frutto di importazione forzata di idee comuniste dall’esterno. Nulla di meno vero.
Tra i centosettanta giovani che diedero inizio alla rivoluzione assaltando la caserma Moncada a Santiago, il 26 luglio del 1953, non c’era un solo comunista, a meno che non si voglia considerare tale Raúl Castro solo perché da ragazzo aveva partecipato a un Festival della gioventù a Praga. Lo stesso si può dire per gli ottantadue che sbarcarono a Cuba il 2 dicembre 1956, dopo l’avventurosa traversata sul minuscolo yacht “Granma”: a parte Raúl, veniva considerato comunista il solo Guevara, che aveva letto qualche scritto di Marx e di Lenin, ma era stato respinto dopo ogni contatto con i comunisti prosovietici, sia nella nativa Argentina, sia in Guatemala.
Il fatto che Castro, in alcune interviste degli ultimi anni abbia detto di essere stato “da sempre” marxista-leninista, corrisponde solo a una formula retorica, paragonabile a quella di Guevara, che si diceva “naturalmente marxista, come in fisica si è naturalmente newtoniani”…
In realtà, anche senza leggere i discorsi e le dichiarazioni dei primi anni di attività politica di Castro (tutte inequivocabili), c’è una riprova ben più concreta: la rivoluzione iniziata il 26 luglio 1953 arriva al potere nei primi giorni del gennaio 1959, ma le relazioni diplomatiche con l’Urss, interrotte da Batista anni prima, vengono ristabilite solo nel maggio 1960 quando, in seguito alle pesanti ritorsioni statunitensi alla riforma agraria, viene accolta la proposta di una visita all’Avana di Anastas Mikoyan, vice Primo ministro sovietico, di ritorno dall’inaugurazione di una mostra di prodotti industriali a Città del Messico. Se il regime cubano fosse stato “manovrato dai sovietici”, come insinuò allora e ha ripetuto per quasi quaranta anni la stampa influenzata dagli Stati uniti, come minimo non avrebbe aspettato quasi un anno e mezzo per fare riaprire una ambasciata sovietica!

Una rivoluzione non importata

Questo dato è essenziale, in primo luogo per capire la reale successione cronologica – e quindi il rapporto di causa ed effetto – delle vicende che hanno portato gli Stati uniti alla rottura con Cuba.
È stata la riforma agraria, che inevitabilmente colpiva le grandi proprietà statunitensi (ma anche quelle cubane, a partire da quelle della famiglia Castro), a determinare la prima misura ostile e potenzialmente scardinante per l’economia cubana: il blocco degli acquisti dello zucchero – e quindi delle conseguenti forniture, dal petrolio al grano – stabiliti con un accordo, più volte rinnovato, che impegnava Cuba a vendere il suo zucchero agli Stati uniti a un prezzo apparentemente favorevole, ma controbilanciato dall’obbligo di acquistare tutto il resto dal potentissimo vicino.
È stata questa misura a spingere Cuba a cercare altri acquirenti e quindi altri fornitori. In quel periodo, prima di ogni relazione anche solo diplomatica con l’Urss, Cuba comincia a venire accusata di essere caduta in mano al “comunismo internazionale”, come era stato accusato grottescamente ogni governo dell’America latina appena tentava la più modesta riforma agraria: ad esmpio, quello di Jacobo Arbenz in Guatemala, nel 1954.
L’ esperienza riformista guatemalteca fu stroncata con un’invasione di mercenari armati dalla Cia e appoggiati da aerei statunitensi. Guevara era presente in quel paese durante l’aggressione, e ne fu drammaticamente segnato. Per questo Cuba si preparò a fronteggiare un’analoga invasione, che avvenne puntualmente nell’aprile 1961, dopo vari bombardamenti da parte di aerei pirata, ma che fu respinta grazie all’armamento popolare. I mercenari furono fermati per qualche ora dai fucili dei boscaioli e dei pescatori della Ciénaga de Zapata, nella Bahía de los cochinos (“Baia dei porci”), a Playa Girón, con perdite altissime dei locali, che tuttavia riuscirono a dare il tempo ai rinforzi guidati dallo stesso Fidel Castro di arrivare dall’Avana.
Fu quello sbarco a spingere Cuba a cercare un rapporto più stretto con l’Urss, da cui ottenne armi. Senza conoscere queste esperienze è impossibile capire la forza del regime, che non è stato installato dalle armi altrui – come quelli della Polonia, dell’Ungheria, della Romania, ecc. – ma è il frutto di una vera e difficile rivoluzione condotta sfidando forze preponderanti, quelle sì sostenute dall’esterno.
La “rivoluzione di Castro”, al contrario, è stata – ed è stata percepita così dalla maggioranza dei Cubani – il completamento di altre tre rivoluzioni precedenti, tutte sconfitte o private con l’inganno dei frutti di una vittoria già ottenuta. Tutte avevano lo stesso segno: lotte per l’indipendenza nazionale intrecciate a una forte componente sociale egualitaria.
Già la prima proclamazione di indipendenza del 1868 da parte di Carlos Manuel De Céspedes ebbe come caratteristica saliente la liberazione immediata (e l’arruolamento nell’esercito liberatore) degli schiavi nella sua acienda della Demajagua. A pochi chilometri da Manzanillo, sulla strada per Niquero, dove avvenne lo sbarco del Granma, è possibile visitare i resti dell’ingenio zuccheriero dove è conservata la campana che diede il segnale della libertà.

Il grande precursore: Josè Martí

Ma più che a quel primo padre della patria, è al protagonista della seconda rivoluzione, José Martí, che Castro fece sempre riferimento, fin dal primo momento. Davanti a ogni scuola cubana, a ogni edificio pubblico, c’è un busto di Martí, non di Marx.
Richiamarsi a Martí non è stato un espediente tattico. José Martí era veramente un precursore e un anticipatore dell’ultima rivoluzione.
Aveva partecipato giovanissimo alla rivoluzione del 1868-1878. Deportato in Spagna, aveva poi vissuto a lungo negli Stati uniti, dove aveva fondato il Partito rivoluzionario cubano, a cui spesso si fa riferimento a Cuba. Non era marxista, ma aveva lucidamente analizzato la situazione di Cuba, che alla fine del secolo scorso era ormai pronta per una rapida trasformazione sociale in senso capitalistico, di cui sarebbero stati presumibilmente beneficiari gli Stati uniti.
La scomparsa o il ridimensionamento della maggior parte dei grandi proprietari zuccherieri fu facilitata dallo sviluppo di grandi aziente (i centrales) molto costose, quasi sempre in mano a stranieri o a quei pochi latifondisti che avevano saputo trasformarsi in tempo in capitalisti. Quelli che non erano stati in grado di operare la riconversione persero i loro modesti ingenios basati sul lavoro manuale degli schiavi, rimanendo solo come proprietari terrieri dediti alla coltivazione, ma subordinati all'industria di trasformazione, che a volte affittava loro una parte delle proprie terre. Le classi e i gruppi sociali si semplificarono e furono polarizzati dai due principali raggruppamenti tipici dell'economia capitalista: borghesia e proletariato.

Un pensatore moderno e attualissimo

Martí aveva intuito possibilità e pericoli di questa trasformazione, e anche il ruolo che avrebbe avuto la nuova classe operaia, in cui le differenze di colore e di provenienza che avevano pesato nell'epoca schiavistica non avrebbero più avuto significato.
È interessante notare che Martí, negli anni di preparazione della “seconda rivoluzione”, ha sottolineato l’importanza di rimuovere ogni divisione legata all’origine. Più volte egli ha insistito sulla possibilità di una fraterna collaborazione tra cubani nativi (criollos) e spagnoli, naturalmente dopo avere abbattuto la dominazione coloniale, e ha condannato duramente ogni forma di razzismo; oltre a quello dei bianchi, egli criticava quello di riflesso dei negri, che si manifestava in varie forme, comprese quelle delle sette religiose e delle società segrete, e che rischiava di spezzare l'unità degli oppressi.
Mentre aumentava sempre più l’influenza economica degli Stati uniti a Cuba, soprattutto grazie alla penetrazione di capitali e alla fornitura di nuove macchine per la trasformazione della canna, che creavano anche uno strato di cubani cointeressati e quindi disponibili a rilanciare le tendenze “annessioniste”, Martí denunciava il pericolo che gli Stati uniti si impossessassero dell'isola e di altre terre latinoamericane. “Ho vissuto nel mostro e ne conosco le viscere”, scriveva nel suo inconfondibile stile poetico, mentre segnalava puntualmente i conflitti razziali e sociali che scuotevano il grande paese nordamericano, verso cui aveva un atteggiamento ambivalente: intrecciato di ammirazione per il suo sviluppo tecnologico e culturale e di ripulsa per l'aggressività imperialistica e la durezza dello sfruttamento della forza lavoro all'interno. Le sue parole divennero un punto di riferimento permanente per molte generazioni di rivoluzionari (oggi a Cuba c’è una nuova fase di ripresa degli studi martiani).
José Martí, inoltre, ebbe la sorte di morire in prima linea in una delle prime battaglie della rivoluzione del 1895. Accanto alle sue idee, ne fu venerata la coerenza e la generosità dell’impegno, ed egli fu un modello costante per la generazione a cui apparteneva Fidel Castro.
Chi considera Castro un “Ceausescu dei Caraibi”, dimentica che egli ebbe il coraggio di tentare quello che sembrava impossibile, sfidando una feroce dittatura, con pochi uomini e pochissimi mezzi, ed esponendosi in prima persona molte volte, dall’attacco alla caserma Moncada alle battaglie della Sierra, da Playa Girón alla coraggiosa scelta di andare a discutere, senza scorta armata, con il sottoproletariato che nel 1994 manifestava rumorosamente e violentemente nelle strade dell’Avana, al momento della crisi dei balseros.
Lo stesso Guevara, che certo aveva solo sommariamente conosciuto Martí prima di incontrare gli esuli cubani nel Messico, lo amò moltissimo e fece spesso riferimento ai suoi principi etici. Perfino nella lettera di addio ai figli, partendo per la difficile spedizione in Congo del 1965, ne citò una frase, che raccomandava di sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualsiasi uomo in ogni parte del mondo.

La rivoluzione interrotta

Il riferimento a quel grande precursore aveva anche un altro significato: la rivoluzione che questi aveva pazientemente preparato, e in cui si era lanciato generosamente, dandovi la vita, era arrivata vicina al successo nel 1898, quando gli Stati uniti, col pretesto di una misteriosa esplosione che aveva distrutto nel porto dell’Avana la nave da battaglia Maine (inviatavi ufficialmente per proteggere gli interessi dei propri cittadini, senza molto entusiasmo da parte della Spagna), intervennero strappando la vittoria dalle mani dell’esercito ribelle.
Per alcuni anni vi fu un vero e proprio tentativo di annessione, analogo a quello realizzato per Portorico e Guam e tentato con le Filippine (che rimasero un protettorato statunitense fino alla Seconda guerra mondiale, quando la conquista giapponese facilitò indirettamente le guerriglie indipendentiste). Nelle scuole cubane furono introdotti libri di testo tradotti da quelli in uso negli Stati uniti, fu vietato l’uso della bandiera nazionale, le merci nordamericane penetrarono con facilitazioni doganali fortissime, senza contropartite paragonabili per lo zucchero, che tuttavia doveva essere venduto praticamente in esclusiva agli Stati uniti, determinando di conseguenza un obbligo di acquistare dal potente vicine del Nord tutto quello di cui Cuba aveva bisogno, escludendo di fatto le merci europee. L’amministrazione civile fu costruita utilizzando ventiquattromila militari nordamericani e recuperando gran parte dei funzionari spagnoli.
Gli ufficiali statunitensi guardavano con diffidenza l’esercito ribelle cubano, e anche se il pretesto per intervenire era stato come al solito “umanitario” e la grande stampa (dominata dai gruppi di Hearst e Pulitzer) aveva denunciato più volte i crimini (veri) delle truppe coloniali contro la popolazione locale, appena sbarcati fraternizzarono proprio con gli altezzosi ufficiali di carriera spagnoli. Il generale Young definì invece l’esercito mambí guidato da Calixto García, senza il quale non sarebbe neppure riuscito a sbarcare a Santiago e che aveva già praticamente liberato l’isola, “un mucchio di degenerati, assolutamente sprovvisti del senso dell’onore e della gratitudine, certamente non più capaci dei selvaggi di autogovernarsi”. Era particolarmente sconvolto da quello che gli sembrava la prova della barbarie: era in larga misura composto da negri, anche a livello di comandanti, mentre nell’esercito statunitense all’epoca i negri al massimo potevano lustrare le scarpe ai bianchi.
Ma i governatori nordamericani, Brooke prima e poi Wood, si convinsero presto che i cubani non volevano essere annessi, e puntarono sulla soluzione di un’indipendenza fittizia. Una clausola inserita dal senatore Orville Platt in una legge statunitense sugli stanziamenti divenne parte della Costituzione cubana, assicurando formalmente agli Stati uniti il diritto di intervenire nella vita politica interna e di mantenere truppe all’interno dell’isola: l’ultima di queste basi, nella baia di Guantanamo, continua ancora oggi a rappresentare, nonostante le ovvie proteste del governo cubano, un’inquietante minaccia permanente per la sicurezza e un oltraggio alla dignità di Cuba. I marines intervennero comunque in altre parti dell’isola in molte occasioni: nel 1906-1909, nel 1912, nel 1917-1920. I primi decenni dopo l’indipendenza formale furono dunque non a torto definiti a Cuba quelli della “Repubblica dipendente”.

La crisi degli anni Venti

Forse non tutti i mali di Cuba, prima della rivoluzione del 1953-1959, vanno attribuiti agli Stati uniti, ma questa era comunque l’opinione diffusa tra tutti coloro che non si erano integrati nel nuovo assetto del paese. La classe dirigente era molto corrotta, su tutte le attività economiche venivano prelevate tangenti, col risultato di scoraggiare le più corrette e facilitare lo sviluppo di quelle illegali. Cuba divenne più che mai un’appendice degli Stati uniti, con grandi case da gioco e una prostituzione diffusissima. Durante il proibizionismo ogni giorno molti traghetti scaricavano all’Avana, dopo poche ore di traversata, migliaia di turisti che partivano da Miami per beneficiare del clima tropicale e soprattutto dell’ambiente permissivo dell’isola.
Il turismo – con tutti i suoi “accessori” – stava diventando, almeno all’Avana, l’attività economica più redditizia, anche perché le fluttuazioni continue del prezzo dello zucchero sul mercato mondiale un giorno arricchivano e il giorno dopo mandavano in rovina i produttori più deboli. Ad esempio, nel 1920, lo zucchero era passato in pochi mesi da 6,65 cents per libbra (prezzo medio dell’anno precedente), a 9,5 nel febbraio, 18 a metà aprile, per arrivare a 22,5 cents alla fine di maggio. Quando tutti i produttori avevano già pagato la canna ai coltivatosi indipendenti e ordinato merci e macchinari, il prezzo aveva cominciato a scendere a 8 cents in set-tembre per arrivare a 3,75 a fine d’anno. Una catastrofe, e un’occasione per nuove concentrazioni in poche mani. Tutte le banche, che avevano concesso prestiti ancorati ai prezzi vertiginosi della primavera, chiusero gli sportelli una dopo l’altra, con l’unica eccezione della National City Bank e della Royal Bank of Canada, che erano poderosamente sostenute e che divennero quindi proprietarie di un gran numero di zuccherifici.
La crisi sociale facilitò un nuovo intervento degli Stati uniti, che installarono al posto del ministro del Tesoro cubano un comitato di banchieri di New York, garanti del prestito “generosamente concesso” per arginare la frana. Il vero padrone di Cuba divenne il generale Enoch Crowder, che la governò per molti mesi, senza alcun incarico formale, da una nave da guerra ancorata nel porto dell’Avana, prima ancora di essere nominato ambasciatore. I “Presidenti” cubani si preoccupavano in quel periodo solo di piazzare parenti in cariche ben retribuite dalle banche nordamericane, o di ottenere appalti per lavori inesistenti.
La crisi dello zucchero proseguì per tutti gli anni Venti. Il prezzo continuò a scendere: nel 1932 per qualche tempo arrivò 0,71 cent!. Dal 1926 non si costruì più un solo zuccherificio e molti vennero chiusi definitivamente. La crisi sociale era spaventosa, e anche se centinaia di migliaia di immigrati fatti affluire durante il boom della guerra furono costretti a tornare in Europa, altri – soprattutto giamaicani e haitiani – rimasero nel paese, ingrossando le file dei disoccupati.
In quegli anni si moltiplicano le organizzazioni sindacali, che nel 1925 riescono a unificarsi in una grande Confederación Nacional Obrera Cubana, di cui divenne segretario il tipografo Alfredo López, che appena un anno dopo veniva rapito e gettato in pasto ai pescecani. Questa era la tanto decantata “democrazia” di Cuba, che secondo i mass media sarebbe stata distrutta dalla “dittatura” di Fidel Castro (sotto il cui governo non c’è stato un solo desaparecido).
Anche tra gli intellettuali si sviluppa un dibattito profondo e originale, che analizza la realtà del paese e della sua dipendenza. Un gruppo dei più eminenti si organizza a partire dalla denuncia della corruzione, in particolare contestando nel 1923 il ministro della Giustizia che aveva firmato uno scandaloso contratto di acquisto del Convento di Santa Clara, un bell’edificio che è stato oggi restaurato dopo decenni di incuria e trasformato in un Centro nazionale per il recupero dei beni ambientali (vale la pena di visitarlo, nel cuore dell’Avana vecchia – cfr. oltre, cap. Turismo e cultura).
Molti di questi intellettuali, come Rubén Martínez Villena e Juan Marinello, e diversi dirigenti della Federación Estudiantil Universitaria, che avrà un ruolo decisivo nella rivoluzione del 1933 e poi in quella castrista, confluiscono negli anni successivi nel Partito comunista, fondato nel 1925. Tra essi spicca Julio Antonio Mella.

Il “Mussolini cubano”: Gerardo Machado

In questo clima si era tentato un cambio radicale di governo, e il generale Gerardo Machado era stato eletto in elezioni paradossalmente meno truccate di quelle precedenti. Il suo programma appariva decentemente “progressista”: fine dell’odiato “emendamento Platt”, no alla rielezione del Presidente, rispetto dell’autonomia universitaria, soppressione della lotteria (principale fonte di arricchimenti illeciti di amici e parenti di ogni Presidente), riforma scolastica e giudiziaria.
Pochi mesi dopo l’assunzione del potere erano però cominciati gli assassinii di avversari politici e di sindacalisti. Machado era stato definito da Martínez Villena “un asino con gli artigli” e li aveva appunto tirati fuori subito. Invece di trasformare Cuba nella “Svizzera dei Caraibi”, come aveva promesso, aveva cominciato a proclamare la sua ammirazione per Mussolini. Due anni dopo, quando secondo un’inchiesta nordamericana aveva assassinato già almeno centoquarantasette persone, Machado aveva cominciato a parlare della necessità della sue rielezione, e il banchiere Guggenheim, che aveva preso il posto di Crowder come ambasciatore degli Stati uniti, lo appoggiò decisamente. Nel 1928 si fece prorogare la carica di sei anni, senza neppure perdere tempo a farsi rieleggere. Questa era la “democrazia” cubana che gli Stati uniti vorrebbero ripristinare…

La fine di Machado e la rivoluzione del 1933

La dittatura di Machado entra in crisi al momento del grande crollo del capitalismo mondiale. Tuttavia resiste ancora per qualche anno. Il suo declino è dovuto alla crescita del movimento di opposizione, sicché non garantisce più stabilità e sicurezza per gli interessi statunitensi. È soprattutto in contraddizione col New Deal: quando nel marzo 1933 Franklin Delano Roosevelt assume la presidenza degli Stati uniti, con un progetto che punta a limitare i danni provocati dal capitalismo selvaggio che aveva portato alla crisi del 1929, per prima cosa sostituisce l'ambasciatore a Cuba, nominando al posto di Guggenheim il suo vecchio amico personale Benjamin Sumner Welles, dotato di notevoli capacità politiche e diplomatiche.
Dal 1929 le proteste studentesche e operaie erano state represse sempre più brutalmente, anche inseguendo all'estero gli oppositori costretti all'esilio, come Mella, assassinato il 10 gennaio di quell'anno in Messico, dove era stato deportato dopo un lungo sciopero della fame. Sulla sua morte sono stati intessuti, anche in Italia, fantasiosi romanzi basati sul fatto che la sua compagna, la grande fotografa friulana Tina Modotti, divenne poi la donna di Vittorio Vidali, a cui fu attribuito quindi senza alcuna prova convincente l’assassinio.
Nel 1931 e 1932 si infittiscono tentativi insurrezionali, attentati terroristici e assassinii a sangue freddo da parte della polizia e dell'esercito, mentre molti settori della popolazione iniziano uno sciopero delle imposte. Negli Stati uniti si comincia a pensare che Machado stia mettendo in pericolo gli interessi americani nell'isola. Machado fiuta l’aria e, quando arriva il nuovo ambasciatore, assume un atteggiamento “antimperialista”, che gli permette di ingannare una parte dell'opposizione, compreso il Partito comunista, che è anche diffidente verso il principale esponente del movimento di opposizione alla dittatura, Antonio Guiteras, il cui radicalismo anticipava molte delle caratteristiche del castrismo: tra l'altro, tentò nel 1932 un assalto alla caserma Moncada di Santiago.
La caduta di Machado fu provocata da una combinazione tra le manifestazioni studentesche, la radicalizzazione di soldati e sottufficiali, gli scioperi operai e l’attivizzazione di tutte le vecchie forze politiche, incoraggiate dalla chiara disponibilità del nuovo rappresentante degli Stati uniti a un ricambio che li liberasse da uno scomodo alleato.
L'ampiezza e la profondità delle mobilitazioni era tale che il superamento dell’“emendamento Platt” fu in quell'anno ventilato per demagogia dallo stesso Machado, rivendicato dall'opposizione e offerto infine dagli stessi Stati uniti. Ai primi di agosto, l'unico potere sembrava risiedere nell'Ambasciata americana, di cui tutti ricercavano i buoni uffici. Roosevelt, che per ragioni di politica latinoamericana non voleva effettivamente un nuovo intervento a Cuba, esercitò forti pressioni sull'ambasciatore cubano per indurre Machado a dimettersi, mentre Welles trattava con Herrera, l'alto ufficiale più vicino a Machado, perché lo sostituisse per assicurare una transizione pacifica.
Era tuttavia tardi. Quando la notte tra il 12 e il 13 agosto Machado fuggì a Nassau con un aereo carico dell'oro rubato, la situazione era ormai incontrollabile. In una notte, almeno mille persone vennero assassinate all'Avana e trecento case invase e distrutte, in un moltiplicarsi di vendette politiche e di saccheggi in cui si sfogava la rabbia confusa del sottoproletariato urbano, alimentata anche dall'alcool trovato nelle cantine dei possidenti (compresi alcuni di coloro che avevano tramato contro Machado). In quella stessa notte Herrera, appena insediatosi nel Palazzo presidenziale, dovette dimettersi a favore di Carlos Miguel de Céspedes, un mediocre diplomatico che aveva come unico pregio il cognome del padre della patria, di cui era discendente. Sumner Welles doveva prendere atto che la situazione non era così calma come aveva scritto nei rapporti alla capitale e che ogni giorno poliziotti e ufficiali machadisti venivano scovati e linciati dalla folla. Ancora più gravi, dal suo punto di vista, le notizie di centinaia di scioperi negli zuccherifici, dove a volte operai licenziati anni prima sequestravano e sostituivano l'amministratore statunitense.

Entra in scena Fulgencio Batista

Welles aveva chiesto di essere sostituito dal 1° settembre, ma gli era stato chiesto di soprassedere, quando sopraggiunse un'imprevista svolta nella situazione. Un gruppo di sottufficiali – tra cui emergerà rapidamente il sergente Fulgencio Batista, autoproclamatosi colonnello e capo di Stato Maggiore – il 4 settembre prendeva il potere, spinto in primo luogo dalla preoccupazione di non pagare per le colpe di Machado. Ricercò però, ed ottenne, l'appoggio del Directorio Estudiantil, la forza più dinamica e al tempo stesso più confusa. Nacque dunque una “pentarchia”, che sarà presto rimaneggiata, ma da cui uscirà comunque un nuovo Presidente provvisorio, il preside della Facoltà di medicina, Ramón Grau San Martín. Dopo una settimana Grau, che non controlla la situazione, tenta di ritirarsi, ma gli studenti che occupano il Palazzo presidenziale non glielo consentono.
Pur non facendo parte della pentarchia, si vedrà comunque presto che era Batista a contare più di tutti. Welles impara rapidamente a trattare direttamente con lui, superando i pregiudizi di classe e razziali (Batista è mulatto e figlio di un operaio).
Il 29 settembre Batista dà subito prova di quel che sa e vuole fare, attaccando un grande corteo studentesco che accompagna le ceneri di Julio Antonio Mella appena rientrate dal Messico e che viene disperso, provocando morti e feriti. Pochi giorni dopo, il piccolo Bonaparte cubano sferra un colpo dall'altra parte, attaccando l'Hotel Nacional, dove si sono riuniti gli ufficiali machadisti che non hanno accettato la destituzione e la sostituzione da parte dei sottufficiali che si sono autopromossi e vorrebbero fare ritornare il Presidente de Céspedes. L'Hotel viene conquistato a cannonate e molti ufficiali vengono uccisi dopo essersi arresi.

Il “modello” di Castro: Antonio Guiteras

All'interno del governo di Grau c'è come ministro degli Interni Antonio Guiteras, che ne rappresenta l'ala radicale e, ovviamente, non condivide e sconfessa gli attacchi di Batista ai movimenti.
Una delle realizzazioni più importanti di quel periodo è legata alla Segreteria del Lavoro da lui creata, che mette sotto controllo governativo (intervención) il più odiato monopolio statunitense, la Compañia de Electricidad. E-gli si appoggia largamente sugli elementi più combattivi dei sindacati e del movimento studentesco, anche se viene osteggiato dai comunisti, che continuano la vecchia tattica settaria di bollare come “fascista” l'uomo più vicino alle loro posizioni ma che aveva la colpa di essere indipendente (lo stesso atteggiamento, in quegli anni, si riscontra in Nicaragua nei confronti di Sandino).
Nel gennaio 1934 Grau viene sostituito da un uomo di paglia, Carlos Hevia, che avrebbe poi lasciato la presidenza già il giorno dopo al vero candidato di Batista, il colonnello Carlos Mendieta. In meno di un anno si susseguono altri tre Presidenti, ma in realtà, da allora sarà Batista il vero padrone di Cuba, per vent'anni.
Lo sarà quando assumerà direttamente la presidenza (nel 1940 e nel 1952), ma grazie al controllo dell'Esercito e ai suoi rapporti con gli Stati uniti, dove si trasferirà per qualche anno; rimarrà molto influente anche quando Ramón Grau San Martín e Carlos Prío Socarrás si susseguiranno alla presidenza, tra il 1944 e il 1952.
Le ragioni di un consenso

Le rivoluzioni del 1895-1898 e del 1933 sono essenziali per capire le ragioni della forza e del prestigio che Fidel Castro ha mantenuto nel corso di molti anni, nonostante gli errori e gli insuccessi: egli si considera – ed è considerato – il continuatore dell’opera di Martí, interrotta dalla morte e cancellata poi dall’intervento statunitense, e soprattutto di quella di Antonio Guiteras.
Sulle orme di Antonio Guiteras era stata concepita l’impresa del Cuartel Moncada, e in qualche modo anche lo sbarco del Granma. Guiteras era stato infatti ucciso l’8 maggio 1935 mentre tentava di imbarcarsi dal fortino di El Morrillo, per andare a riprendere la lotta contro Batista. (El Morrillo si trova a pochi chilometri da Matanzas, sulla strada per Varadero; può valere la pena di visitare il piccolo museo, in un luogo altamente suggestivo – cfr. cap. Turismo e cultura).
Il nome di Guiteras fu dato, subito dopo la vittoria della rivoluzione, alla compagnia elettrica che egli aveva tentato di porre sotto controllo statale ed era stata finalmente nazionalizzata dai barbudos. E a Guiteras rese omaggio subito lo stesso Guevara, che aveva imparato a conoscerlo attraverso Castro, con un bellissimo discorso non retorico, in cui ne esaltava lo spirito ma ne riconosceva gli errori di sottovalutazione dei rapporti di forza. Paradossalmente, le stesse parole potrebbero essere usate per l’ultima impresa del Che in Bolivia.
Per tutte queste ragioni a Cuba si sottolinea orgogliosamente che la rivoluzione del 1953-1959 non si rifaceva a modelli esterni, ma era assolutamente originale: era il completamento delle rivoluzioni precedenti, a cui si richiamava perfino nella scelta degli obiettivi simbolici. È quello che non hanno capito la maggior parte dei commentatori al momento della visita del papa, come non hanno capito che sulla Chiesa cu-bana pesa ancora, non tanto e non solo il fatto di essersi nel suo complesso schierata con Batista contro la rivoluzione, ma di avere fatto la stessa cosa da sempre: era contro l’esercito mambí nel 1868 e nel 1895 con la Spagna, nel 1898 con gli Stati uniti, .ed era dalla parte di Machado mentre commetteva i suoi crimini.
Una campagna incessante ha presentato per decenni Fidel Castro come un dittatore sorretto dalle armi russe e fondamentalmente estraneo a un paese profondamente cattolico e democratico. Abbiamo già visto che tipo di democrazia ci fosse a Cuba sotto l’egida statunitense; ma quanto alla Chiesa cattolica, basti segnalare che quando nel 1960 si schierò in gran parte con i controrivoluzionari che si opponevano con le armi alla riforma agraria, il governo poté espellere senza difficoltà dal paese alcune centinaia di sacerdoti: erano tutti spagnoli e falangisti, giacché da decenni le vocazioni dei giovani cubani si erano ridotte quasi a zero.


L’ultima rivoluzione

La storia complessa dei precedenti della rivoluzione del 1953-1959, anche se ricostruita sommariamente, è sufficiente a capire le radici profonde di un tentativo originale.
La rivoluzione cubana si sviluppò del tutto “controcorrente”: da decenni i comunisti filosovietici dell’America latina erano diventati velleitariamente riformisti, in un continente dove non c’era nessuno spazio per il riformismo. Anche quelli cubani, organizzati in un Partido socialista popular (PSP) che aveva collaborato più volte con Batista fornendogli per-fino due ministri (l’argomento, nella Cuba di oggi, è praticamente tabu e sconosciuto alla maggior parte dei giovani), manifestarono stupore e freddezza, se non aperta dissociazione, nei confronti della lotta armata fino a pochi mesi prima della vittoria. Castro veniva tacciato di avventurismo, e l’assalto alla caserma Moncada venne presentato in termini denigratori sui giornali comunisti di tutto il mondo, che si basavano sulle informazioni del PSP.
Le polemiche ingenerose del 1953 nei confronti del movimento che da allora si chiamò del 26 di luglio (abbreviato spesso in M26) lasciarono tracce e risentimenti. Ma il movimento, sconfitto nell’assalto effettivamente non ben preparato a quella caserma simbolica, crebbe invece in popolarità, soprattutto grazie all’efficace e coraggiosa autodifesa di Fidel Castro nel processo ai superstiti.
Va detto che ben pochi erano sopravvissuti all’impresa, perché per alcuni giorni le forze batistiane avevano ucciso con atroci sevizie ogni rivoluzionario che cadeva nelle loro mani, anche disarmato, fino a quando l’opinione pubblica e lo stesso arcivescovo di Santiago, amico personale della famiglia Castro, fecero cessare il massacro. L’autodifesa di Fidel Castro – che era avvocato – fu poi innumerevoli volte ristampata a Cuba e in tutto il mondo con il titolo: La storia mi assolverà (in Italia, anche presso questa stessa casa editrice).
A chi criticava il ricorso alle armi, peraltro frequentissimo nei primi decenni della Repubblica, Castro poteva obiettare che, prima di considerarlo inevitabile, aveva denunciato Batista alla Corte suprema di Cuba, chiedendone la condanna per la sospensione della Costituzione e per numerose gravi violazioni delle leggi esistenti; ma aveva ricevuto la risposta che la denuncia era improponibile, perché l’operato del ditta-tore era legittimato dalla “rivoluzione”. Batista, come Mussolini e tanti altri dittatori reazionari, si autodefiniva infatti “rivoluzionario”. Una bella lezione, di cui Castro tenne conto.

La spedizione del Granma

Dopo un paio d’anni, pensando di avere consolidato il suo potere e desiderando venire incontro all’opinione pubblica, Batista aveva liberato i superstiti del Moncada e li aveva lasciati partire per il Messico, ritenendoli ormai bruciati. Ma Castro e i suoi compagni non si erano dati per vinti e avevano cominciato a preparare febbrilmente il loro ritorno a Cuba.
Anche nel 1956 la spedizione del “Granma” era stata caratterizzata da una notevole improvvisazione, che fece rischiare una catastrofe definitiva.
Batista aveva infatti continuato a seguire le mosse degli esuli attraverso numerosi agenti e la stessa polizia messicana, che arrestò Castro, Guevara e molti altri. Quando furono rilasciati, in seguito a una forte campagna di solidarietà che vide in prima linea l’ex Presidente del Messico Lázaro Cárdenas, avevano perso tempo prezioso e quasi tutte le armi. Ma avevano annunciato pubblicamente che sarebbero partiti entro quell’anno, e lo fecero, anche se non c’erano ancora le condizioni adeguate.
L’imbarcazione che avevano potuto comprare con le loro modeste risorse, il “Granma” appunto, era troppo piccola per portare in condizioni di sicurezza ottantadue persone, sicché arrivò con due giorni di ritardo all’appuntamento. Il mare era in tempesta, e per non affondare erano state gettate a mare tutte le armi pesanti.
La piccola insurrezione di Santiago che doveva distogliere le forze repressive era stata schiacciata rapidamente, e i camion che dovevano raccogliere i guerriglieri, trasportandoli nelle zone più sicure della Sierra Maestra, dopo due giorni di attesa sulla spiaggia di Niquero, se ne erano andati credendo che essi fossero affondati o ritornati indietro. Lo sbarco avvenne inoltre a oltre venti chilometri di distanza dal luogo prescelto, in una palude ricoperta di mangrovie e arbusti spinosi quasi impenetrabili, dove alcuni dovettero abbandonare provviste e parte delle armi.
Le truppe di Batista erano in stato d’allerta e colpirono duramente i futuri guerriglieri, disperdendoli e assassinando a sangue freddo chiunque si arrendesse.
Dopo i primi giorni di sbandamento e di fuga affannosa sotto i colpi dei mitragliamenti aerei, i compagni di Castro si erano ritrovati in meno di venti. La cifra riportata in tutte le storie ufficiali è di dodici, ma per alcuni giorni erano stati anche meno, poi un po’ di più; tuttavia, l’incontro con i contadini della zona già organizzati dal “26 luglio” aveva consentito di recuperare parte dei dispersi e assicurato loro cibo e protezione, dopo i primi terribili momenti.

Le premesse di un successo “impossibile”

Eppure, quello sbarco quasi catastrofico si era presto rivelato una forzatura necessaria: suscitò entusiasmo nelle città, disorientamento nelle forze batistiane, che avevano dato per morti Fidel Castro e “il medico comunista” Ernesto Guevara, di cui i servizi segreti avevano scoperto il ruolo crescente durante la preparazione della spedizione nel Messico.
La rete di sostegno urbano a Santiago e Manzanillo organizzò presto un’intervista di Castro con un giornalista del New York Times, Edward Mattews, che fece conoscere le rivendicazioni dei guerriglieri e dimostrò che erano vivi e vegeti e anche molto forti. In realtà, quando Mattews fu accompagnato all’accampamento non c’erano neppure venti guerriglieri, ma un’accurata messa in scena gli fece intravedere a una certa distanza continui arrivi e partenze di messaggeri e di nuove “colonne”, senza che si rendesse conto che erano sempre gli stessi uomini. Tuttavia, il giornalista fu colpito soprattutto da un dato reale: la forza della rete di sostegno, che lo aveva condotto sulla Sierra aggirando tutti i controlli, riportandolo poi in salvo con tutto il suo materiale, compresi i rollini fotografici che provavano che Fidel non era morto, come diceva Batista.
I “dodici” sopravvivono a quella terribile fase perché, se la preparazione tecnica era del tutto inadeguata, quella politica si basava su un’analisi corretta delle contraddizioni del paese e su un minimo di organizzazione della popolazione della zona, ad opera soprattutto di Celia Sánchez, figlia di un medico condotto molto conosciuto e amato in tutto il litorale tra Manzanillo e Niquero. Per questo hanno potuto reggere ad attacchi condotti da forze militari enormemente superiori, dotate di aerei e mezzi pesanti – peraltro poco utili nelle zone più impervie della Sierra dove i guerriglieri si erano arroccati.
Non tutti i contadini sono entusiasti; alcuni anzi, preoccupati per le ritorsioni dell’esercito e allettati dalle laute ricompense offerte dai militari, collaborano con le forze repressive. Ma il lavoro paziente di quelli organizzati da tempo, e che avevano ammirato l’atteggiamento di Fidel Castro durante il processo trasmesso in diretta televisiva, consente di neutralizzare l’azione repressiva e corruttrice dell’esercito.
I guerriglieri ebbero poi l’aiuto involontario di alcuni ferocissimi sbirri di Batista, come il famigerato tenente (poi salito per i suoi efferati crimini fino al grado di colonnello) Angel Sánchez Mosquera: invece di attaccare direttamente i guerriglieri (poteva essere rischioso...), l’ufficiale preferiva massacrare contadini indifesi. Per mesi il comando del Che rimase a meno di due chilometri in linea d’aria dal suo, con duecento metri di dislivello, senza che Sánchez Mosquera avesse mai tentato un attacco diretto. Ma le vessazioni, le razzie e le uccisioni di contadini presunti sostenitori della guerriglia spinsero anche gli indecisi a sostenerla veramente, per avere un’arma e potersi difendere.

Dalla resistenza all’offensiva rivoluzionaria

Inoltre, nelle piccole “zone liberate” i guerriglieri costruivano scuole e ambulatori, pubblicavano un giornale ciclostilato, e presto ebbero anche una radio, che col sostegno della rete urbana fu gradatamente potenziata, cosicché nella fase finale della lotta poteva essere ascoltata in tutta l’isola.
L’appoggio delle città, soprattutto nell’Oriente, è stato in genere sottovalutato, ma in realtà fu essenziale, assicurando l’afflusso continuo di nuove reclute, di armi e di vettovaglie. Non era tuttavia sufficiente a garantire la vittoria, come emerse dopo il fallimento dello sciopero generale del 9 aprile 1958, a cui seguì un offensiva dell’esercito, che tentò – per settantasei giorni e con oltre diecimila soldati – di accerchiare e stanare i guerriglieri, che erano allora solo centoventuno. Il fallimento della massiccia operazione repressiva fece tuttavia crescere rapidamente il reclutamento.
L’elemento determinante per la vittoria fu l’appoggio contadino, divenuto ormai massiccio: la popolazione della Sierra avvertiva i guerriglieri e mandava fuori strada i militari. Ma ci volle anche un pizzico di follia: due “colonne”, che insieme non raggiungevano i duecentocinquanta uomini (quella del Che era di centoquarantotto e quella di Camilo Cienfuegos di ottantaquattro!), il 21 agosto 1958 partirono all’attacco dei centri del potere batistiano, ripetendo “l’invasione” realizzata nella guerra del 1895-1898 da Antonio Maceo. Guevara arrivò alla prima tappa, il massiccio montuoso dell’Escambray al centro dell’isola, in una marcia forzata di quarantasei giorni, senza la possibilità di utilizzare come previsto camion, sia per i continui mitragliamenti aerei, sia per piogge incessanti che trasformavano i campi in paludi e rendevano impraticabili le strade di terra.
Il primo compito fu la riorganizzazione delle forze, unifi-cando con un paziente lavoro politico i diversi gruppi guerriglieri che si erano installati nella zona dell’Escambray ed erano in polemica l’uno con l’altro. Facevano capo rispettivamente al “26 luglio”, al PSP, e al Direttorio rivoluzionario, un nucleo di estrazione studentesca, che aveva tentato invano di assaltare il Palazzo presidenziale all’Avana proprio per sottrarre a Castro l’egemonia nella lotta contro Batista. Subito dopo, Guevara si lanciò con meno di trecento uomini all’attacco di Santa Clara, una città di centocinquantamila abitanti, presidiata da quattromila soldati acquartierati in diverse caserme, a cui stava giungendo di rinforzo un moderno treno blindato con quattordici mitragliatrici e quattrocento soldati bene armati.

Santa Clara: la porta dell’Avana

Non è possibile capire il successo di simili imprese, la lunga marcia in condizioni climatiche terribili e quasi sempre senza cibo sufficiente, e poi l’attacco vittorioso a forze preponderanti a Santa Clara, con gli schemi che presentano la guerriglia come un’azione “minoritaria” basata sulla pura violenza.
Il merito della vittoria va al coraggio dei combattenti – c’è perfino un piccolo nucleo di giovanissimi che, per la loro temerarietà, viene chiamato il “plotone suicida” – ma va anche agli studenti e ai lavoratori che hanno divelto i binari davanti al treno, e alle donne di casa che hanno fatto entrare i guerriglieri nelle loro abitazioni, aiutandoli a sfondare i muri che dividono una casa dall’altra, consentendo così di avvicinarsi alle caserme senza essere visti.
La vittoria è possibile – con un numero ridottissimo di vittime – anche per la demoralizzazione delle truppe di Batista, che sentono il clima di una profonda crisi rivoluzionaria e hanno paura. Qualche ufficiale scappa nella notte travestito, e in pratica resistono solo gli elementi più conosciuti per i loro crimini, che vendono cara la pelle.
Lo stesso avviene ad opera di Camilo Cienfuegos in altre città minori della stessa provincia di Las Villas (non la cercate oggi sulle carte, è stata suddivisa in tre: Cienfuegos, Sancti Spiritus e Villa Clara), mentre Castro, contemporaneamente, assedia e poi conquista Santiago.
Dovunque i combattenti sono una minoranza, ma dalla loro parte c’è un’immensa maggioranza della popolazione: sono gli ingredienti che si riscontrano in ogni vera rivoluzione, a partire da quella russa del 1917. Il dittatore invita alla resistenza, ma fugge nella notte dell’ultimo dell’anno con un aereo carico di oro e preziosi. Il 2 gennaio Guevara e Cienfuegos entrano all’Avana, sventando un tentativo di ufficiali batistiani di costituire un governo di transizione. Il 9 gennaio arriva anche Fidel Castro, dopo una traversata dell’isola che è stata lentissima, perché è stato costretto a fermarsi in ogni città e villaggio per rispondere alle acclamazioni della folla.


Le ragioni della vittoria

Questa sintetica ricostruzione ha smontato già di per sé le leggende denigratorie che hanno ridotto la rivoluzione a un colpo di mano di pochi facinorosi. Ma ce n’è un'altra, alimentata dagli stessi possidenti cubani che si erano schierati contro Batista ma che fuggirono poi negli Stati uniti, dopo la riforma agraria. Secondo loro, Fidel Castro avrebbe ingannato tutti, nascondendo il suo vero programma.
In realtà, quando ha iniziato la lotta, Castro non aveva formulato un progetto di riforma agraria. Era un intellettuale urbano, figlio di un latifondista e di formazione cattolica, avendo studiato nel migliore collegio dei Gesuiti. Ma, come ha detto di sé il subcomandante Marcos nel Chiapas, “era andato per educare i contadini e ne è stato educato”. Dai contadini, che gli hanno fornito la maggior parte dei combattenti, ha capito che il loro problema di fondo è la riforma agraria. E l’ha messa in atto, cominciando dalle terre di famiglia, con grande scandalo di una sorella e della stessa madre.
La sua origine borghese aveva fatto pensare alla sua classe e agli stessi governanti degli Stati uniti che tutto si sarebbe risolto in un ricambio di personale politico, come era accaduto infinite volte in America latina. Perfino Guevara, per qualche momento, aveva temuto che fosse così; ma Castro è stato coerente con la rivoluzione che aveva saputo interpretare e guidare. Ha dimostrato una straordinaria capacità di rifiutare mediazioni e lusinghe, impedendo che ancora una volta l’attesa del cambia-mento radicale fosse frustrata. Fidel Castro non è un grande teorico, ma ha studiato le rivoluzioni precedenti sconfitte o derubate della vittoria, a Cuba e altrove. Per questo ha acquisito un prestigio che è tuttora grandissimo.
Per capire che cosa è stata realmente la rivoluzione cubana e perché ha retto a un assedio così prolungato, al crollo dei paesi con cui nell’ultima fase si realizzava quasi il 90% dell’intercambio commerciale, bisogna staccarsi comunque dalle interpretazioni, demonizzanti o apologetiche, che la identificano col ruolo del solo Fidel Castro. La storia di una vera rivoluzione non può essere ridotta alle iniziative di un uomo, per grande che sia, e neppure a quello delle poche centinaia di barbudos che ne hanno creato le premesse, sfidando e abbattendo la dittatura di Batista: al momento della vittoria, sono entrate in scena grandi masse, con le loro aspirazioni, con le loro “idiosincrasie”, come amano dire i cubani.
Al momento della caduta di Batista, non c’erano state violenze come alla caduta di Machado, se non sui simboli della dipendenza e della corruzione del vecchio regime: la popolazione dell’Avana aveva distrutto le case da gioco, chiuso i bordelli, invaso i grandi alberghi di lusso costruiti spesso dalla mafia italo-americana. Le roulette erano state trascinate in strada e spezzate, il sottoproletariato dell’Avana era entrato per la prima volta nelle spiagge e nelle piscine riservate ai turisti.

La rivoluzione “ci ha preso la mano”

Fidel Castro, in un colloquio di pochi anni fa con Lee Jacocca, il noto manager italo-americano della Chrysler, ha detto: “nel 1959 la rivoluzione ci ha preso la mano”. In effetti, molte decisioni sono state prese sotto la diretta pressione delle masse radicalizzate. Una di queste riguardò la punizione dei criminali torturatori del vecchio regime.
L’esercito ribelle aveva vietato ogni vendetta personale, ma alle masse che reclamavano giustizia fu assicurato che questa sarebbe stata celere e rigorosa. E il primo scontro con gli Stati uniti avvenne proprio sulle forme della giustizia rivoluzionaria. Grandi masse si riunivano negli stadi dove avvenivano i processi pubblici, esercitando spesso una pressione sui giudici popolari al grido di paredón (al muro!). Gli Stati uniti, che non avevano mai detto una parola contro le torture e gli assassinii degli sgherri di Batista (e prima ancora di Machado), lo ritennero inammissibile.
La vera escalation imprevista della tensione tra i due paesi non avvenne tuttavia su questo terreno, ma sulla riforma agraria. Il progetto elaborato da una commissione di giuristi moderati, tra cui un vecchio amico di Castro, Sori Marín, fu reso più incisivo sotto la pressione delle masse contadine, e per intervento diretto dello stesso Fidel Castro. E quando gli Stati uniti, per ritorsione alle prime nazionalizzazioni di aziende saccarifere di proprietà di suoi cittadini, e per protesta per l’indennizzo previsto – ritenuto insufficiente e troppo dilazionato – cominciarono a ridurre la quota di zucchero acquistato e a ritardare le forniture di petrolio, Cuba decise di rivolgersi ad altri fornitori. E quando le raffinerie di proprietà statunitense – e quelle europee che le seguirono – rifiutarono di raffinare il petrolio proveniente da altri paesi, furono anch’esse nazionalizzate.

Rispondere colpo su colpo

Rispondere colpo su colpo è la logica praticamente inevitabile di ogni vera rivoluzione. Che ciò non fosse nei programmi originari di Castro è confermato dal fatto che i suoi primi viaggi all’estero furono proprio negli Stati uniti, dove sperava di trovare comprensione, e se possibile crediti. Non fu nemmeno ricevuto dal Presidente Eisenhower e, nel secondo viaggio a New York per una sessione dell’Assemblea delle Nazioni unite, la delegazione cubana, in cui erano presenti diversi negri, di fronte a tentativi di discriminazione negli alberghi prenotati, si trasferì in massa in un albergo popolare del quartiere negro di Harlem. Un gesto che suscitò entusiasmo in chi lottava contro la segregazione razziale, ma apparve scandaloso all’establishment bianco e razzista.
Da varie parti, a questo proposito, si è rilanciata la leggenda di una doppiezza di Castro, insinuando che la rivoluzione fosse stata appoggiata e perfino finanziata dalla Cia, che sarebbe stata ingannata sui suoi veri obiettivi. Nulla di più ridicolo. Gli Stati uniti non erano intervenuti nel 1958 perché sapevano che Batista ormai creava più problemi di quanti non ne risolvesse (era accaduto in precedenza anche con Machado), ma non ci fu alcun inganno. Semplicemente credevano che Castro potesse essere “addomesticato”, come Batista e altri caudillos latinoamericani che avevano esordito come “rivoluzionari”. Non prevedevano che Castro, alla luce delle esperienze precedenti, rifiutasse di fermarsi a metà strada e di staccarsi dalle masse che avevano consentito la vittoria.
La rottura con gli Stati uniti, comunque, provocò una crisi nel “26 luglio”, perché gli elementi più moderati, che si erano uniti ad esso solo perché antibatistiani ma erano filocapitalisti, passarono all’opposizione, spesso anche violenta. Molti diplomatici chiesero asilo nei paesi in cui si trovavano, molti funzionari governativi, industriali, ma anche tecnici e impiegati cubani di società nordamericane, partirono per gli Stati uniti. Lo fecero anche metà dei seimila medici, che erano inorriditi dal progetto di un sistema sanitario gratuito per tutti. Oggi i medici a Cuba sono più di cinquantamila, con un rapporto rispetto alla popolazione che è certamente tra i più alti nel mondo.
In questa crisi aumentò il peso specifico dei quadri provenienti dal vecchio partito comunista, il PSP, che non avevano appoggiato inizialmente il movimento perché profondamente imbevuti di riformismo (pensavano che la rivoluzione fosse impossibile), ma che poi si schierarono con esso in grande maggioranza, trascinati anch’essi dall’entusiasmo generale. Parecchi di loro assunsero ruoli importanti, riempiendo i vuoti lasciati da chi se ne andava.

La campagna di alfabetizzazione

Tra le realizzazioni iniziali, di cui ovviamente non parlano i denigratori di professione, ci fu una straordinaria campagna di alfabetizzazione, realizzata facendo appello agli studenti universitari e medi, che vennero preparati rapidamente per il difficile compito di insegnare agli adulti in località sperdute nei campi e sulle montagne. La controrivoluzione finanziata dagli Stati uniti si accanì contro di loro, uccidendone alcuni; ma quell’esperienza rimase indimenticabile, sia per i vecchi guajiros che avevano imparato a leggere, sia per i giovanissimi che avevano imparato a conoscere il mondo contadino e avevano esercitato un ruolo che intuivano fondamentale per il futuro dell’isola.
Vi furono certo, come in ogni rivoluzione, anche forzature estremiste, ingenuità, confusione (“spirito guerrigliero” applicato all’amministrazione, diceva Guevara: noi in Italia parlavamo, subito dopo il Risorgimento, di “spirito garibaldino” per alludere alla stessa cosa). Va segnalato che nel primo anno ci fu una totale libertà di stampa per tutti i giornali. Solo nel gennaio del 1960 la maggior parte degli editori conservatori se ne andranno, indignati dal controllo dal basso effettuato dai tipografi, che non censuravano, ma aggiungevano una coletilla (letteralmente: una “codina”, cioè una postilla) con l’espressione del loro dissenso rispetto agli editoriali. Che orrore!, pensavano i conservatori di tutto il mondo: non si rispettano più i ruoli!
In ogni caso, chiusi o trasformati i giornali filoamericani, per molti anni dopo la vittoria della rivoluzione rimase ugualmente un certo pluralismo informativo. La polemica del 1963-1964 tra Guevara e i fautori del modello sovietico avvenne pubblicamente, su giornali e riviste a larga tiratura. E la cultura fu stimolata dalla pubblicazione di molti libri, distribuiti gratuitamente, con una noterella che ricordava che quel che si offriva aveva un valore troppo grande per essere calcolato in moneta, e raccomandava di conservarlo bene e di farlo leggere ad altri. Il primo ad essere distribuito fu il Don Chisciotte, in duecentocinquantamila copie! Per la maggior parte dei contadini dell’isola il primo libro della loro vita fu dunque il capolavoro di Cervantes.
Dopo la prima alfabetizzazione, lo sforzo educativo fu esteso ai livelli superiori, consentendo a centinaia di migliaia di giovani e di adulti di prendere un diploma. Le università erano solo tre, e furono invece costruite in ognuna delle quindici provincie dell’isola, alloggiandovi gratuitamente tutti gli studenti, a cui venivano – e vengono – forniti libri, attrezzature sportive, svaghi. Anche le scuole secondarie nelle campagne prevedono vitto e alloggio per tutti. Scuole speciali furono organizzate nelle ville abbandonate dai ricchi per le decine di migliaia di ex prostitute, offrendo loro la possibilità di una riqualificazione come sarte o infermiere.
Ecco perché tutti gli sforzi per abbattere il nuovo potere sono falliti. Tutti i Presidenti degli Stati uniti – da Eisenhower e Kennedy a Clinton – hanno messo nel loro programma “l’abbattimento del regime di Castro”. Tutti hanno fallito, e Fidel Castro è ancora lì.
Cuba cerca alleati


Abbiamo già anticipato che Cuba fu sospinta a legarsi all’Urss, dapprima economicamente e poi politicamente, proprio dal blocco statunitense. Era in qualche modo una scelta obbligata, e soprattutto non corrispondeva al progetto originario; ma comunque fu fatta. A chi obietta che Cuba “non doveva legarsi all’Urss”, si può domandare quale paese avrebbe potuto assicurarle l’acquisto del suo zucchero e soprattutto le forniture di tutto quello che fino al 1958 aveva acquistato, volente o nolente, dagli Stati uniti.
Nel 1959 Guevara fu inviato come una specie di “ambasciatore itinerante” a compiere un viaggio di esplorazione nei paesi che si erano da poco liberati dal colonialismo (Marocco, Egitto, Indonesia, India, Pakistan, Ceylon), ma che prevedeva anche una sosta abbastanza prolungata in Giappone. Nei primi paesi visitati incontrò folle che manifestavano grande simpatia per la prima esperienza rivoluzionaria vittoriosa in America latina, ma non c’era alcuna base materiale per instaurare scambi proficui: quegli Stati subivano come Cuba le conseguenze dello scambio ineguale tra i loro prodotti agricoli o minerari e quelli industriali che acquistavano a caro prezzo dei paesi capitalistici industrializzati. Avevano bisogno anch’essi di tecnologia, macchinari, capitali. Potevano offrire solo appoggio morale.
Quanto al Giappone, che in passato aveva acquistato un po’ di zucchero dalla Cuba di Batista, e che interessava moltissimo a Guevara perché era un paese quasi sprovvisto di risorse naturali ma che era ugualmente riuscito a creare una forte industria di trasformazione (era il primo “modello” che il Che pensava degno di essere studiato e se possibile imitato) era comunque, da un lato un paese, imperialista, dall’altro ancora strettamente legato agli Stati uniti: due buone ragioni per non aiutare Cuba. E infatti non l’aiutò.
Poteva esserci, invece che con l’Urss, un rapporto con la Cina? Al di là del fatto che nei decenni successivi si verificherà che il suo comportamento verso altri paesi in via di sviluppo non era molto dissimile da quello dell’Urss, negli anni Sessanta aveva ancora gravissimi problemi di arretratezza; il basso livello tecnologico la rendeva non molto dissimile dagli altri paesi ex coloniali visitati da Guevara nel 1959. Quando, l’anno successivo, vi si recò, il Che rimase affascinato da alcune soluzioni politiche e sociali e, successivamente, quando vennero esplicitate, anche dalle critiche mosse all’Urss. Ma proprio il conflitto cino-sovietico, con il brusco ritiro dei tecnici russi e l’interruzione delle forniture di macchinari e perfino di pezzi di ricambio, rendeva la Cina ancora meno in grado di aiutare Cuba, anche volendo. Inoltre, proprio negli anni in cui Guevara aveva maturato il giudizio più severo sulla politica sovietica, la Cina colpì Cuba – che aveva la “colpa” di non volersi schierare contro l’Urss nella polemica e tentava una “terza via” insieme al Vietnam e alla Corea del Nord – sospendendo gli acquisti di zucchero e le forniture di riso.
Poteva essere forse la Jugoslavia? Guevara la visitò al termine del suo primo viaggio, ma al di là delle perplessità sulle soluzioni adottate, non ebbe dubbi che neanche quel paese era in grado di risolvere i problemi creati dal blocco statunitense.
Ancora meno poteva essere, come è stato detto, “l’Europa”. Per qualche tempo alcuni paesi, compresa la Spagna franchista, aggirarono parzialmente il blocco; ma certo nessuno di essi era in grado, e aveva soprattutto la volontà politica, di contrapporsi frontalmente agli Stati uniti. E, quando vendevano qualcosa a Cuba, la facevano pagare assai cara, per rifarsi di eventuali ritorsioni statunitensi: come avviene, ancora oggi, con Cuba e con tutti i paesi sottoposti a embargo.


L’inevitabile rapporto con l’Urss

Altra questione è se era indispensabile legarsi così stretta-mente all’Urss anche sul terreno politico e ideologico, come avvenne a partire dal 1971-1972, aprendo un periodo di circa quindici anni in cui Cuba sembrava diventata una “democrazia popolare”, come la Bulgaria o la RDT. In quegli anni la partecipazione al Comecon, il mercato comune dei paesi “socialisti”, impose la rinuncia alla maggior parte dei tentativi di differenziazione produttiva, confinando Cuba nuovamente nel ruolo di produttore pressoché esclusivo di zucchero (a parte il nichel, e un po’ di agrumi destinati soprattutto all’esportazione, come le aragoste e i sigari).
Quello che era più fastidioso in quegli anni era il progressivo adattamento al gergo burocratico e agli elogi inverosimili al “grande marxista-leninista Leonid Breznev”. Moltissimi giovani, d’altra parte, mentre veniva riorganizzato il sistema scolastico, compirono i loro studi in Urss e in altri paesi del sistema sovietico. Più di cinquantamila cubani si laurearono a Mosca, ricevendo inevitabilmente, oltre a una preziosa formazione tecnica, anche un’educazione politica e ideologica di cui ancora oggi si sente l’effetto in alcuni comportamenti, e soprattutto nel gergo acquisito negli anni di studio.
Quel legame con il “blocco socialista” non era indissolubile, e si allentò fortemente almeno cinque anni prima del crollo dell’Urss. C’erano già stati momenti importanti di differenziazione significativa: ad esempio, in Etiopia le truppe cubane, giunte insieme a quelle sovietiche per aiutare il regime di Menghistu a difendersi dagli attacchi esterni, rifiutarono poi di partecipare ai combattimenti sul fronte orientale, riconoscendo la legittimità della lotta degli eritrei. Ma, agli inizi degli anni Settanta, il rapporto con l’Urss era ormai diventato praticamente indispensabile, dopo una serie di errori eco-nomici fatti autonomamente dalla direzione cubana, che avevano creato molti problemi.
Castro, in un discorso del 26 luglio 1972, aveva fornito senza ambiguità una spiegazione della svolta effettuata, dopo la sconfitta di Guevara e di altri movimenti rivoluzionari nel continente e il fallimento della “grande zafra” del 1970-1971, con cui si era tentato di raggiungere i dieci milioni di tonnellate di zucchero, per poterlo vendere anche sul mercato capitalistico proprio allo scopo di acquistarvi in cambio tecnologia più avanzata di quella sovietica.
“Dovremo integrarci ai lavoratori, agli operai e contadini, ai rivoluzionari, quando giungerà l’ora inesorabile della rivoluzione in America latina”, aveva detto Fidel Castro, aggiungendo subito dopo: “Ma questa ritarda. Non possiamo fare piani in vista di un’integrazione che può tardare dieci, quindici, venti, venticinque, trent’anni, secondo i più pessimisti. Nel frattempo, che cosa facciamo? Piccolo paese accerchiato dai capitalisti, bloccato dagli imperialisti yankees, ci integreremo economicamente nel campo socialista”.
Il legame con l’Unione sovietica, frutto della necessità e non di una scelta ideologica, in ogni caso non fu senza costi. Da questo discende che, per capire la Cuba di oggi, è necessario distinguere tra le caratteristiche originarie della rivoluzione, mai del tutto cancellate ma certo modificate e intaccate, e l’eredità del “socialismo reale”, che influenzò profondamente il regime a partire dai primi anni Settanta.

Un’amicizia non facile

Il rapporto con l’Urss era stato fin dall’inizio molto contraddittorio: c’erano stati grandi entusiasmi iniziali, poi l’evidente arretratezza tecnologica dei prodotti forniti e i comportamenti di una parte dei tecnici, dei consiglieri e degli stessi diplomatici, stimolarono una riflessione, che soprattutto Che Guevara sviluppò lucidamente negli ultimi tre anni della sua permanenza a Cuba (purtroppo i suoi scritti di quel periodo sono rimasti in gran parte inediti).
Due crisi molto acute si svilupparono già nel corso del 1962. In marzo Castro e Guevara attaccarono Aníbal Escalante e altri dirigenti provenienti dal PSP, che stavano tentando di trasformare in un partito comunista rigido e burocratizzato l’organizzazione che unificava i quadri provenienti dal PSP, dal “26 luglio” e dal Direttorio rivoluzionario. Già in quell’occasione ci furono tensioni con i diplomatici sovietici e di altri paesi “socialisti”, che avevano appoggiato quel tentativo. Nell’ottobre dello stesso anno ci fu poi la traumatica “crisi dei missili”, che l’Urss aveva fornito per proteggere Cuba da nuove aggressioni, ma che ritirò senza consultarla quando Kennedy ricorse al ricatto atomico.
Anche negli anni successivi ci furono altre tensioni, soprattutto sulla politica in America latina dove, in base a una realpolitik considerata inammissibile da Cuba, l’Urss stabiliva rapporti economici anche con paesi retti da feroci dittature, giungendo a fornire loro crediti. Anche in Africa, dove Cuba appoggiò vari movimenti di liberazione, ci furono in diverse occasioni differenziazioni dalla politica sovietica.
Lo stesso Che Guevara nel 1965 lasciò ogni carica recandosi nel Congo, e l’anno successivo in Bolivia, proprio per tentare di appoggiare altre rivoluzioni che rompessero l’isolamento di Cuba, ma anche per evitare che la sua permanenza nel governo facesse irrigidire l’Urss e la spingesse a ritorsioni, come il rallentamento delle forniture di petrolio. Egli era infatti malvisto dai dirigenti sovietici per le sue critiche sempre più nette al sistema che si diceva “socialista”, e soprattutto ai primi tentativi di “riformarlo” introducendovi elementi di capitalismo.
Anche dopo la partenza di Guevara, d’altra parte, i rapporti tra Cuba e l’Urss non migliorarono subito. Anzi, pochi mesi dopo la morte del Che (gennaio del 1968) vi fu un secondo “caso Escalante”. Il dirigente filosovietico era ritornato dopo un breve esilio nell’isola e, avendo ricominciato a complottare contro lo stesso Castro, fu condannato a una forte pena detentiva. È significativo che in quell’occasione alcuni diplomatici di paesi “socialisti” furono costretti a lasciare l’isola.
Anche l’appoggio dato nell’agosto dello stesso anno all’invasione sovietica della Cecoslovacchia fu accompagnato da tali argomenti critici che il discorso di Castro non fu mai pubblicato in Urss e negli altri paesi del Patto di Varsavia. Quella scelta, tuttavia, creò paradossalmente le condizioni per il successivo avvicinamento, dato che determinò una brusca caduta del prestigio di Cuba tra le giovani generazioni rivoluzionarie che stavano emergendo in tutto il mondo, e rese più difficile il progetto di costruire una nuova Internazionale dei movimenti di liberazione sganciata dall’Urss.
Cuba resiste: la prova dell’originalità
della rivoluzione

Quando, soprattutto a partire dal 1971, i legami prima economici e poi politici divennero sempre più stretti per le ragioni oggettive che abbiamo ricordato, la maggior parte dei commentatori ritennero che l’assimilazione all’Urss fosse ormai completata.
In realtà, essa non è mai divenuta totale, soprattutto perché non c’era molta affinità tra un gruppo dirigente che aveva fatto una rivoluzione vera e profonda e gli sclerotizzati burocrati sovietici, che si coprivano col riferimento alla Rivoluzione d’Ottobre, ma erano gli eredi dei suoi affossatori. Questo ha permesso a Cuba di sganciarsi progressivamente, nel corso degli anni Ottanta (in particolare con il processo di rectificación del 1986), evitando di essere travolta dal grande “crollo”.
La campagna di rectificación – che vuol dire “rettifica di errori” – fu un tentativo di sradicare dal paese i metodi mutuati dalla burocrazia sovietica. Tuttavia il crollo dell’Urss e del sistema sorto intorno ad essa, con le conseguenze che esponiamo più dettagliatamente nel capitolo sull’Economia, provocò tensioni sociali tali che la campagna fu gradatamente accantonata, per evitare uno scontro troppo duro con la burocrazia locale, che aveva organizzato fin dal primo momento una resistenza sorda alla svolta. Tra i cubani, sempre dotati di un notevole umorismo, circolò una battuta basata su un trasparente gioco di parole: la “rectificación de errores” si era trasformata in una “ratificación de horrores”...
Tuttavia, come vedremo affrontando di seguito i problemi dell’economia e della società nel “periodo speciale” e nella fase attuale, ancora una volta si trattava di una scelta quasi obbligata, nel contesto terribile di un’interruzione quasi completa dell’interscambio commerciale che nel corso di molti decenni si era sviluppato – senza alternative – con i paesi “socialisti”, e che veniva interrotto di colpo proprio mentre si inaspriva l’embargo da parte degli Stati uniti.
Ma giustamente è stato osservato che la sopravvivenza del regime cubano a una prova così dura come la perdita brusca del 90% degli approvvigionamenti di petrolio, di mangimi per l’allevamento, di grano, di pezzi di ricambio, dimostra la profondità delle sue radici.
Quale altro paese ha mai potuto affrontare una situazione paragonabile senza una grave crisi sociale e politica?

Scheda
DATE E LUOGHI DELLA RIVOLUZIONE

26-7-1953. Ogni anno, l’assalto al Cuartel Moncada viene ri-cordato con grandi feste in tutta l’isola e con un tradizionale di-scorso di Fidel Castro sui problemi del momento. A Santiago de Cuba è possibile visitare la Caserma Moncada, trasformata subito dopo la rivoluzione in scuola, con una parte destinata a museo. Per vedere la spiaggia de Las Coloradas, dove sbarcò il “Granma” (e c’è una copia fedelissima dell’imbarcazione) la base può essere Niquero; per le più importanti località della Sierra Maestra, Pilón oppure Bayamo, capitale della provincia. Per Playa Girón e la Bahía de los cochinos, conviene alloggiare a Playa Larga, una spiaggia a prima vista non eccezionale, ma con coralli già a poche decine di metri e più vicina a Guamá, altra meta quasi obbligata nella zona.
Di Guevara ci sono tracce e testimonianze ovunque, ma la città più legata al suo nome è Santa Clara, dove sono conservati i suoi resti. Più complesso ricercarne le tracce nella provincia di Pinar del Rìo, dove diresse le truppe preparate per affrontare uno sbarco durante la “crisi dei missili” del 1962, e dove addestrò gli uomini che lo seguirono in Bolivia. La casa dove visse nell’ultimo periodo all’Avana si trova in Calle 47, n. 772 (tra calle Conill e calle Tulipán), nel Nuevo Vedado, non lontano da Plaza de la Revolución. Vi si trovano parte delle sue carte e vari cimeli, ma non è stata attrezzata ancora a Museo, per cui limitatevi a guardarla da fuori senza molestare la vedova e gli altri addetti, già subissati da richieste di studiosi e che non possono ricevere anche i turisti.

Fonte: Movimento Operaio

Nessun commento:

Posta un commento