mercoledì 7 dicembre 2011

Genocidio e vita quotidiana negli Stati Uniti, di James Petras

Questo articolo è apparso sul sito internet latinoamericano "Resumen" (http:///www.nodo50.org/resumen/home.htm).
Pubblicato in Adista 26, 2003 con il titolo "Pubblicità al massacro".
Il Pentagono ha annunciato che è stata testata la bomba non nucleare più grande della storia, con un peso di nove tonnellate e mezzo, in vista del suo possibile uso in Iraq. Due settimane prima il generale Richard Meyers, presidente del comando congiunto dello stato maggiore, ha affermato che la politica statunitense era quella di provocare uno shock all’Iraq per obbligarlo ad arrendersi, sganciando su Baghdad 3mila bombe e missili durante le prime 48 ore della campagna bellica. Funzionari militari statunitensi calcolano che 300mila soldati e civili iracheni moriranno. Le Nazioni Unite stimano che vi saranno almeno 10 milioni di iracheni morti, feriti, profughi e traumatizzati.
A differenza delle politiche genocide tedesche contro gli slavi, i gitani, gli ebrei e gli omosessuali, il genocidio statunitense è di dominio pubblico, viene discusso apertamente e consapevolmente sui mezzi di comunicazione di massa con le stesse voci senza inflessione e le stesse immagini che ci si aspetta accompagnino le previsioni del tempo. I più grandi tra i quotidiani rispettabili, "The New York Times", "The Washington Post" e "Los Angeles Times", pubblicano sulle loro prime pagine estratti - e a volte trascrizioni integrali - dei discorsi di generali, di ministri e del presidente in cui si descrivono tattiche e strategie di distruzione di massa. I loro editoriali non sono uno spazio per manifestare dissenso.
Nella misura in cui queste armi di distruzione di massa si accumulano in Medio Oriente, e le truppe statunitensi si preparano a lanciare un’invasione di grandi proporzioni, i mass media si ingraziano i lettori pubblicando reportage "di interesse umano" su coppie piangenti che si abbracciano al momento del saluto, madri patriottiche che sventolano le loro bandiere e generosi datori di lavoro che si offrono di mantenere l’assistenza sanitaria dei propri impiegati mentre questi sono immersi… in una guerra genocida.
I preparativi annunciati e premeditati di questa guerra genocida sono presentati dai mass media insieme ai giocatori di basket, ai recenti scandali di Hollywood, alle previsioni del tempo e, naturalmente, alla pubblicità di deodoranti o di automobili e ai listini della borsa.
I mezzi di comunicazione hanno tentato di integrare il genocidio nella vita quotidiana dei cittadini comuni. Uccidere, mutilare, mettere in fuga milioni di persone si è trasformato in una semplice "misura di sicurezza", come gli inviti che appaiono nei giornali di provincia a chiudere la porta a chiave di notte. A livello psicologico, i mass media cercano di inculcare l’idea che coloro che perpetreranno il genocidio sono le vittime di un complotto mondiale per distruggere gli Stati Uniti, e che le vittime irachene di tale genocidio sono gli aggressori. La paranoia politica di massa indotta dai mezzi di comunicazione serve a lanciare una guerra genocida.
Ogni giorno la stampa statunitense inventa terroristi, offre spazio ad accuse infondate, gonfia incidenti minori, riporta le denunce fabbricate ad arte che il segretario di Stato Colin Powell presenta al Consiglio di Sicurezza e poi omette l’attenta confutazione che di esse fanno gli ispettori dell’Onu. In tutto il mondo si pubblicano notizie degli scandali enormi di intercettazioni telefoniche, di fax ed e-mail dei membri delle Nazioni Unite, ma tali notizie sono totalmente assenti sul "New York Times" e sul "Washington Post".
Funzionari statunitensi isolati (come il congressista Moran) che osano menzionare l’influenza sul governo di politici ebrei di destra (Wolfowitz, Perle, Cohen, Kagan, Abrams, ecc.) in relazione alla questione di Israele sono tacciati di antisemitismo e obbligati a ritrattare e a sottomettersi ad un’umiliante autoaccusa; soffrono lo stesso trattamento dei critici di Stalin negli anni ’30. Il rifiuto alla ritrattazione ha distrutto la carriera di molti impiegati pubblici capaci.
La marcia di Washington verso il genocidio è stata sospinta dal fanatismo in vari strati ideologici. Bush è un fondamentalista cristiano che, per l’orrore della comunità scientifica, proclama la storia biblica della creazione in forma letterale mentre fustiga le basi della teoria scientifica sull’evoluzione come si insegna nelle scuole secondarie e nelle università. Come molti alcolisti disintossicati, si è afferrato al fondamentalismo cristiano con un fervore che arriva all’estremo di tenere letture quotidiane della Bibbia nei saloni del governo federale. Afferma che Dio lo ha predestinato per essere presidente (con l’intervento divino di schede elettorali difettose in Florida e una corte in mano a repubblicani) e per guidare la nazione in una crociata contro il male che giustifica il genocidio del popolo iracheno (la Babilonia della Bibbia statunitense).
Il secondo potente strato ideologico è l’impegno fanatico e la lealtà cieca nei confronti dello Stato di Israele e della sua espansione e dominio in Medio Oriente, che caratterizza i politici della destra ebraica e militarista, gli architetti ideologici della dottrina della guerra permanente.
Il terzo potente strato sono gli ideologi civili ultrabellicisti, come Rumsfeld e Condoleeza Rice, i quali ambiscono al dominio mondiale e si vantano del fatto che con la potenza militare del loro Paese potrebbero combattersi due, tre o più guerre di sterminio.
Un quarto strato è formato da opportunisti come Colin Powell, che promuovono il genocidio come mezzo per rafforzare la propria posizione politica con l’intenzione in futuro di arrivare alla presidenza.
La confluenza di queste visioni di estremismo religioso, di contenuto etnico e militarista, che imperano nell’amministrazione Bush è il motore che alimenta il genocidio premeditato. La credenza che esiste "gente eletta da Dio" e "persone speciali" lava la coscienza di fronte a chiunque pensi alla sorte che correranno milioni di vittime irachene, e inoltre prepara il cammino per futuri assassini di massa in Siria, Iran, Corea del Nord, Libia e forse nell’"Europa antisemita", come l’ha chiamata Richard Perle, il principale consigliere militare di Rumsfeld.
I rispettabili mezzi di comunicazione, i loro prestigiosi giornalisti e i loro allegri editori forniscono il tipo di reportage che amplifica le politiche estremiste di questi dirigenti ideologicamente fanatici. Pubblicano fotografie di funzionari chiave che annunciano assassini di massa con il volto gioviale o pensoso di uno zio.
Il maggiore oltraggio dei mass media statunitensi è la forma in cui "normalizzano" i preparativi di un’invasione brutale, nello stesso modo in cui hanno normalizzato il perpetuo assassinio da parte di Israele dei suoi oppositori palestinesi. Nel presentare i piani per un genocidio come se si trattasse di un "evento" di routine, qualcosa i cui dettagli tecnici si discutono con i capetti statunitensi in interviste ossequiose, i mass media spogliano questo crimine di tutta la sua dimensione morale, umana e politica.
"Immaginatevi una bomba di nove tonnellate e mezzo, più grande della "Daisy Cutter" (la bomba fino ad oggi più grande del mondo, ndt), che pesava solo sette tonnellate e mezzo", annuncia allegramente il portavoce militare. "Più grande è meglio", dicono i militaristi. "Una forma più rapida ed economica di riordinare il Medio Oriente e purgarlo dal male", canta un coro di fondamentalisti cristiani e di fanatici del Likud. Nessun mezzo di comunicazione ha evocato l’immagine dei missili Cruise che incenerivano più di 400 civili iracheni nel rifugio antiaereo di Amiriya in un solo attacco, in una notte limpida del febbraio del 1991. Sono le diverse voci solenni, che lavorano in armonia per ottenere un sistema imperialista più violento e senza scrupoli, o, come suggeriscono i rispettabili mass media codardi, per "la speranza di un mondo più pacifico" per quegli iracheni che sopravviveranno e potranno godere della pax americana. Funzionari del Pentagono hanno annunciato recentemente il loro generoso piano di "impiegare" soldati iracheni arresi in lavori di pulizia (o per scavare fosse comuni).
Ma nonostante la loro irredimibile propaganda, che include grossolani tentativi di vincolare l’Iraq agli attentati dell’11 settembre del 2001 a New York e Washington, e alla rete fondamentalista Al Qaeda, i mass media non hanno avuto successo nel loro tentativo di convincere milioni di cittadini statunitensi. Più del 40% rifiuta la guerra; una percentuale minore si oppone alla guerra indipendentemente da qualsiasi risoluzione dell’Onu. Com’è che il potere combinato dei mass media e dello Stato non è riuscito a convincere decine di migliaia di statunitensi?
Le ragioni includono una ripugnanza morale rispetto ad un’offensiva bellica basata su accuse false, la paura di rappresaglie di terroristi, la preoccupazione che la crisi economica interna si aggravi, una sensazione di isolamento politico o di solidarietà con milioni e milioni di persone che all’estero si oppongono alla guerra. Forse, a un livello più profondo, esiste il timore che gli estremisti fanatici che spingono la macchina bellica senza controllo con misticismi religiosi, convinzioni militariste e intrecci all’estero possano provocare risultati catastrofici e imprevedibili per questo Paese.
Molti cittadini statunitensi conducono la loro vita quotidiana come sempre; guardano la televisione per troppe ore, consumano montagne di cibo spazzatura, sono preoccupati per l’insicurezza del posto di lavoro e si dedicano alla propria famiglia e alla propria comunità. Ai loro occhi, esiste una quotidiana banalizzazione di una guerra imminente, la preparazione unilaterale di una distruzione di massa senza alcun appoggio esterno, senza alcun argomento credibile. Una spudorata aggressione che ora abbatte un numero crescente di statunitensi di tutte le età e settori.
Per le strade di migliaia di città, paesi e comunità c’è chi protesta contro la guerra. Vi sono siti Internet che collegano all’informazione alternativa e alla stampa straniera più critica. Si ascolta il grido "Non in nostro nome" di una moltitudine di celebrità e di scrittori. Vi sono amici e vicini che discutono della guerra e decidono di opporvisi. Un’estesa nube di incertezza copre tutti gli Stati Uniti e tocca tanto gli investitori di Wall Street quanto i meccanici. Il prezzo del petrolio va alle stelle; di fronte al deficit insostenibile, si parla di inflazione e aumentano le proteste antibelliche. I mezzi di comunicazione hanno fallito nel tentativo di mobilitare il pubblico, malgrado i loro massicci sforzi di legittimare la guerra. C’è ancora speranza nel futuro.

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