mercoledì 30 novembre 2011

A cosa ha contribuito il maoismo, di Samir Amin

Il marxismo della II Internazionale, proletario-euro-centrico, condivideva con l'ideologia dominante del periodo una visione lineare della storia; un punto di vista secondo il quale tutte le società dovevano attraversare uno stadio di sviluppo capitalistico (stadio i cui semi venivano piantati dal colonialismo, che proprio per questo, era considerato “storicamente positivo”) prima di poter aspirare al socialismo. L'idea che lo “sviluppo” di alcuni (i centri dominanti) e il “sottosviluppo” di altri (le periferie dominate) fossero due facce della stessa medaglia, entrambi espressioni immanenti dell'espansione globale del capitalismo, era completamente estranea alla II Internazionale.

Ma la polarizzazione dovuta alla globalizzazione capitalista, un fatto di enorme rilevanza mondiale in termini politici e sociali, costituisce una sfida per qualsiasi visione storica che potevamo avere su come sorpassare il capitalismo.
Questa polarizzazione è all'origine della possibilità per larghe porzioni di classe lavoratrice e soprattutto per le classi medie dei paesi dominanti (il cui sviluppo è esso stesso favorito dalla posizione dei centri nel sistema mondiale) di andare oltre a un social-colonialismo. Allo stesso tempo trasforma le periferie in “zone di tempesta”(secondo l'espressione cinese) in ribellione permanente e naturale contro l'ordine capitalista mondiale.
Sicuramente ribellione non è sinonimo di rivoluzione. Contemporaneamente non mancano le ragioni, neanche al centro del sistema per rifiutare il modello capitalistico come, fra le altre cose, ha mostrato il 1968. Senza dubbio la formulazione della scommessa avanzata ad un certo punto dal Partito Comunista Cinese (PCC), “la campagna circonda la città”, è troppo schematica per essere utilizzata a livello mondiale
.
Una strategia globale per una transizione dal capitalismo verso il socialismo deve definire le relazioni tra le lotte nei centri e quelle nelle periferie del sistema.
All'inizio Lenin prese le distanze dalla teoria dominante della II Internazionale e con successo diresse la rivoluzione nell'anello debole, la Russia, ma sempre pensando che questa rivoluzione sarebbe stata seguita da un'ondata di rivoluzioni socialiste in Europa. Questa speranza fu disattesa; Lenin successivamente si spostò su posizioni che davano più importanza alla trasformazione delle rivolte in rivoluzioni in Oriente. Ma fu compito del PCC sistematizzare questa nuova prospettiva.

La Rivoluzione russa fu condotta da un partito ben radicato nella classe lavoratrice e nell'inteligentsia radicale. L'alleanza con i contadini (rappresentati in primis dal Partito Socialista Rivoluzionario) risultò naturale. La conseguente riforma agraria radicale realizzò il vecchio sogno de contadini russi: divenire proprietari della terre. Ma questo compromesso storico portava con sé i semi dei suoi stessi limiti: il mercato era, per sua stessa natura, destinato, come sempre, a creare una differenziazione crescente all'interno della classe contadina, il famoso fenomeno della “kulakizzazione”.
La rivoluzione cinese, dalle sue origini, o almeno dagli anni '30, si dispiegò su altre basi, garantendo una solida alleanza tra contadini poveri e classe media contadina. Contemporaneamente la dimensione nazionale, la guerra di resistenza contro l'invasione giapponese, permise, allo stesso modo, al fronte guidato dai comunisti di reclutare ampiamente presso le classi borghesi, deluse dalla debolezza e dai tradimenti del Kuomintang. In questo modo la rivoluzione cinese produsse una nuova situazione che si differenziava da quella post rivoluzionaria in Russia. La rivoluzione contadina radicale soppresse proprio l'idea della proprietà privata dei terreni agricoli e la rimpiazzò con la garanzia per ogni contadino ad aver ugual diritto di accesso ai terreni agricoli. Per questo, proprio oggi, questo vantaggio decisivo, condiviso da nessun altro paese, oltre al Vietnam, costituisce il maggior ostacolo ad una espansione devastante del capitalismo agrario.
La discussione attuale in Cina è ampiamente centrata su questa questione. Rimando la lettura al capitolo sulla Cina nel mio libro “Pour en monde multipolaire” (Parigi 2005) e al mio articolo “Teoria e pratica del progetto cinese di socialismo di mercato” (Alternative sud, volume 8, n.1 2001). Ma d'altro canto il passaggio di molti nazionalisti borghesi al partito comunista eserciterà necessariamente un'influenza ideologica favorevole al sostegno delle deviazioni di coloro che Mao definì i partigiani del capitalismo.
Il regime post rivoluzionario in Cina non ha avuto solamente a suo credito molte realizzazioni più che significative sul piano economico, materiale, culturale e politico (industrializzazione del paese, radicalizzazione della propria cultura politica moderna ecc..). La Cina maoista risolse il “problema dei contadini”, che fu il cuore del tragico declino dell'Impero cinese per due decisivi secoli (1750-1950). Qui faccio riferimento al mio libro “L'avenir du maoisme”, 1981.
Ciò che fece in più la Cina maoista fu raggiungere questi risultati evitando le tragiche deviazioni dell'Unione Sovietica: la collettivizzazione non fu imposta da una violenza omicida come sotto lo stalinismo, le opposizioni del partito non diedero luogo all'instaurarsi di una politica del terrore (Deng fu estromesso, poi ritornò…), lo scopo del raggiungimento di una impareggiabile uguaglianza relativa nella distribuzione del reddito sia tra contadini e operai, che all'interno delle due classi e fra entrambe e la classe dirigente fu perseguito, ovviamente tra alti e bassi, tenacemente e fu formalizzato dalle scelte di strategia di sviluppo che contrastavano con quelle dell'URSS, queste scelte furono formulate nei “dieci grandi rapporti”, all'inizio degli anni 60.
Sono questi successi che spiegano lo sviluppo successivo della Cina post-maoista dal 1980.
Il contrasto con l'India, precisamente a causa del fatto che l'India non ha avuto una rivoluzione, è di grande significato, non solo rispetto alle diverse traiettorie tra il 1950 e il 1980, ma anche per ciò che caratterizza le diverse prospettive probabili, e/o possibili, per il futuro. Questi successi sono la spiegazione del perché la Cina post maoista, affidando il proprio sviluppo alle “aperture” alla globalizzazione capitalista, è stata in grado di evitare shocks distruttivi simili a quelli che seguirono al collasso dell'URSS. Allo stesso modo i successi del maoismo non sono stabiliti definitivamente, in modo irreversibile così che le prospettive a lungo termine della Cina si potranno strutturare in modo più o meno favorevole nei confronti del socialismo.
Prima di tutto, poiché la strategia di sviluppo del periodo 1950-1980 aveva esaurito il suo potenziale, una apertura anche se controllata era indispensabile (cfr L'avenir du maoisme), una apertura che ha coinvolto come è stato dimostrato in seguito, il rischio di rinforzare le tendenze che spingono verso il capitalismo.
Anche perché il sistema maoista cinese ha unito tendenze contraddittorie, sia verso il rafforzamento che verso l'indebolimento delle scelte socialiste.
Conscio di questa contraddizione Mao cercò di raddrizzare la barra in favore del socialismo attraverso i concetti di rivoluzione culturale dal 1966-1974, e bombardare il quartiere generale, il Comitato Centrale del partito. Mao pensava che per realizzare la rettifica si sarebbe potuto basare sulla “gioventù”, che ispirò ampiamente gli eventi del 1968 in Europa, consideriamo ad esempio il film di Godard “La chinoise”. Il corso degli eventi ha mostrato l'erroneità di questo giudizio. Una volta che la rivoluzione culturale fu lasciata alle spalle, i partigiani del capitalismo furono incoraggiati a proseguire nell'offensiva.
La lotta tra la lunga e difficile via per il socialismo e la scelta capitalista ora in corso non è certamente “definitivamente superata”.
Come ovunque nel mondo il conflitto tra il perseguimento della realizzazione capitalista e della prospettiva socialista costituisce il vero conflitto di civilizzazione della nostra epoca.
Ma in questo conflitto il popolo cinese detiene le risorse maggiori, ereditate dalla rivoluzione e dal maoismo.
Queste risorse sono al lavoro in vari ambiti della vita sociale, per esempio si mettono fortemente in luce nella difesa da parte dei contadini della proprietà statale dei terreni agricoli e nella difesa della garanzia che tutti devono avere accesso ai suddetti terreni.
Il maoismo ha contribuito ad accertare in modo definitivo gli interessi e la sfida rappresentati dall'espansione globalizzata capitalista-imperialista. Ci ha permesso di porre al centro della nostra analisi di questa scommessa il contrasto centro-periferia, parte integrante dell'espansione, imperialista e polarizzante, per sua stessa natura, del “capitalismo reale”; e da questo ci ha permesso di imparare tutte le lezioni che implica per la lotta per il socialismo nei centri dominanti e nelle periferie dominate. Queste conclusioni sono state riassunte in una buona formula in stile cinese: “gli Stati vogliono l'indipendenza, le nazioni vogliano la liberazione e il popolo vuole la rivoluzione”. “Gli Stati, che in tutti i paesi del mondo sono le classi dirigenti ogni volta che rappresentano qualcosa di diverso dai lacchè, cioè cinghie di trasmissione per forze esterne, cercano di espandere la loro capacità di manovra nel sistema mondiale capitalista, e di cambiare la propria posizione da oggetti passivi, destinati a sottomettersi a scelte unilaterali ogni volta che l'imperialismo dominante lo richieda a soggetti attivi, che partecipano alla formazione dell'ordine mondiale.
Le nazioni, che sono i blocchi storici delle classi potenzialmente progressiste, vogliono la liberazione, intesa come sviluppo e modernizzazione. Il popolo che è costituito dalle classi popolari dominate e sfruttate, aspira al socialismo”. Questa formula ci consente di comprendere il mondo reale nella sua complessità e di conseguenza ci consente di formulare strategie efficaci per l'azione. Tutto questo si colloca in una prospettiva di lunga, molto lunga, transizione globale dal capitalismo al socialismo. Questo rompe con la concezione di “transizione breve” della III Internazionale.



http://62.149.226.72/rifondazionepescara/?p=2015

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