Pagine

venerdì 23 novembre 2018

A Dublino il primo convegno della campagna globale contro le basi Usa/Nato---- CONFERENZA COL BUCO, di Fulvio Grimaldi


https://www.youtube.com/watch?v=XF4TXgsRYb8&fbclid=IwAR1SJQ8GrHY3pvUN5Vhk-iQmyS3orEBsdCJTnXqff7N5bTtftoipPqwNYo0 (link allo streaming della prima giornata di lavori della Conferenza internazionale di Dublino. Il mio intervento, che indico solo perché me ne è stato chiesto verbale che non ho, va da 1.39’05 a 1.52’13)

Questo non un “report”, come quelli smart chiamano una relazione, un rendiconto, un rapporto, un ragguaglio. Questo cerca di essere un racconto, oggi si direbbe una narrazione, un po’ impressionistico, di quanto si è svolto a Dublino, nei giorni 15-18 novembre, alla “Conferenza internazionale contro le basi militari USA/NATO”. Per motivo di voli prenotati, mi sono perso la seconda metà dell’ultimo giorno, quando hanno parlato altri delegati italiani. Ne lascio in calce il riassunto che ci ha trasmesso Marinella Correggia.


Mezzo secolo di passi
Per tre giorni mi sono aggirato nelle sale della prima conferenza della Campagna Globale contro le basi Usa/Nato e, negli intervalli, tra i palazzi neoclassici irlandesi che hanno visto la gloriosa insurrezione di Pasqua del 1916, prodromo alla liberazione dal colonialismo britannico, con appesa al collo la targhetta-passi che diceva “International Conference against US/NATO military bases”. A casa, poi, l’ho appesa al braccio di una lampada, a fianco di un’altra dozzina di targhette simili che riportano a eventi non dissimili, alcuni lontanissimi nel tempo: Congresso del Popolo a Sabha, Libia, Convegno in Difesa dell’Umanità a Caracas, L’Avana tante volte contro l’imperialismo, Belgrado, Hanoi, Kyoto, Gerusalemme, Khartum, Asmara, Baghdad, Algeri per uno dei famosi Incontri Mondiali della Gioventù e degli Studenti… Se rifletti su cosa ne è venuto allora, su come si stava a fianco dei vari paesi in lotta, Vietnam, Iraq, Venezuela, Cuba, Palestina, Serbia, qualunque ne fosse il governo, e a come siamo finiti oggi, meticolosamente attenti a non comprometterci con chi risulterebbe non politicamente, democraticamente, corretto, ti viene il magone. Ha vinto il né-né nato tra Sarajevo e Porto Alegre, i celebrati Forum Sociali che schizzavano Hugo Chavez. E dato che passi ha il significato sia di lasciapassare che di passo al plurale, ecco che il passi di questa conferenza potrebbe anche alludere ai passi fatti in questi anni. Tanti, perlopiù sul posto.


Irlanda, una storia contro
Non so, nell’Europa di Bruxelles (sede UE e, dunque, Nato), quale altro paese avrebbe ospitato, con concorso di parlamentari, ministri e autorità dell’intelletto, un incontro come questo, vigorosamente contro le potenze dell’imperialismo, compresa quella accanto all’Isola di Smeraldo, contro la loro dependance militare (non solo) UE, contro l’enorme menzognificio con il quale queste forze della guerra e del dominio intossicano l’universo mondo. Trecento delegati di oltre 35 paesi, dai più diversi angoli del mondo, e abbiamo battezzato l’impresa proprio nel segno della rivoluzione irlandese (ahinoi non compiuta, con il Nord tuttora ostaggio del colonialismo), in presidio davanti al General Post Office, dove il patriota Tom Wolfe e il marxista James Connolly, nel 1916, accesero la miccia della liberazione. Oggi davanti a questo monumento della libertà, al posto della statua dell’ammiraglio Nelson, eretta dai britannici e fatta saltare dall’IRA, si erge e penetra nel cielo un’infinita cuspide d’acciaio, una specie di balzo della volontà  verso l’impossibile…


Sussurri e grida
Al netto degli inevitabili, sempre generosissimi, tipi un po’ particolari, logorati dall’impegno di decenni per la Causa, vano ma irriducibile, degli immancabili lanciatori di slogan desueti e di rabbiosissima foga retorica, a spese di dati e contenuti, la conferenza ha registrato interessanti contributi, inedita informazione, promettenti punti tematici da sviluppare tutti insieme. Molteplici le partecipazioni di peso, individuali e di organizzazioni. Ne cito quelle che mi sono sembrate le più significative: Consiglio Mondiale della Pace, Alleanza per la pace e la neutralità (Irlanda), Coalizione contro le basi militari Usa all’estero (USA), Codepink (USA), Congresso Canadese per la Pace, International Action Center (USA), Okinawa Peace Action Center (Giappone), Veterani per la Pace (USA), Comitato per la Pace (Turchia), Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza (Palestina), WILFT, Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà, oltre a decine di altre realtà. Dell’impegnativa ed eccellente organizzazione va dato merito a Bahman Azad, iraniano, rappresentante del Consiglio Mondiale della Pace presso l’ONU, sobbarcatosi con esili forze in una’impresa che, con tutti i chiaroscuri, resterà incisa nella storia dei movimenti contro la guerra.

Della trentina di interventi programmati, trascurando quelli, spesso anche più stimolanti, dalla platea nelle sessioni plenarie per domande e risposte, cerco di trarre i contenuti più significativi e condivisi. I nostri ospiti, parlamentari e militanti irlandesi come Roger Cole, coordinatore dell’Alleanza per la Pace e la Neutralità, e la giovanissima deputata Clare Daly, esponenti di un popolo che ha alle spalle una resistenza di 300 anni, ancora non vittoriosa per sei delle sue contee, con una misura di sofferenze e atrocità delle peggiori inflitte al mondo dal colonialismo-imperialismo anglosassone, hanno saputo trasmettere un’idea e un sentimento di lotta che non cede al tempo e alle sconfitte. L’apertura degli interventi è stata di Aleida Guevara. La figlia del Che ha riproposto un messaggio antimperialista e internazionalista di una Cuba che a molti, oggi, sembra più iconica che attuale. Gli irlandesi hanno insistito sull’occupazione colonialista del Nord e su quella imperialista di Shannon, fuoco delle loro lotte, aeroporto diventato negli anni un’enorme base di transito Usa, dalla quale passano le migliaia di soldati e i rifornimenti per le truppe di stanza in Europa.


Mi sono parsi di particolare significato gli interventi del greco Tsavaridis, impegnato sul meccanismo della UE quale strumento economico-giuridico di promozione della Nato che oggi, in una Grecia resa inoffensiva dalla Troika, vanta più basi Nato e israeliane in rapporto agli abitanti di qualunque altro paese; quelli dei vari relatori latinoamericani, tutti concordi nel denunciare la controffensiva continentale delle presidenze Obama e Trump all’avanzata dei movimenti e Stati emancipatori. Controffensiva reazionaria attuata tramite strangolamenti economici, colpi di Stato, minacce d’invasione e la massiccia penetrazione delle Chiese evangeliche, missionari del colonialismo come lo furono quelli cattolici nei secoli passati. Non poteva essere trascurata Guantanamo, da 115 anni base Usa e carcere della tortura per presunti terroristi nel corpo vivo di Cuba. Da lì, come dalla Colombia delle 7 basi Usa nei confronti del Venezuela, molti temono possa presto partire un’invasione.

Mal d’Africa

A partire da un rappresentante del Congo, gli africani hanno illustrato il ruolo di AFRICOM, il nuovo comando Usa che vanta sue presenze militari in ben 52 paesi sui 53 del continente. Rivelatrice l’informazione dataci sul genocidio del Ruanda negli anni ‘90, passatoci come eliminazione dell’aristocrazia Tutsi per mano degli Hutu, quando la verità dell’operazione, istigata dagli Usa, ci dice il contrario. I Tutsi hanno poi invaso il Congo dando vita a una delle più lunghe e spaventose guerre “civili” del continente, mirate a tenere il paese in ginocchio a vantaggio delle multinazionali dei minerali, in ispecie del Coltan, grazie al quale l’industria elettronica statunitense si è garantita ricchezze e dominio senza precedenti.
Curiosamente il sudafricano Matlhako, apprezzando come positiva la riconciliazione tra Etiopia, paese infestato da basi Usa e israeliane, ed Eritrea, fino a ieri unico paese del continente senza presidi militari stranieri, ha trascurato la recente installazione ad Assab, città portuale eritrea, di una grande base degli Emirati Arabi dalla quale parte l’aggressione allo Yemen, rendendo un paese, già avamposto dell’antimperialismo, complice del genocidio yemenita di Usa-UK-Francia-Arabia Saudita-UAE. 

Del resto, uno si sarebbe aspettato qualcosa di più anche sull’incandescente focolaio di tensioni e appetiti che è l’intera regione del Corno d’Africa, con al centro, sullo stretto di Bab el Mandeb, dal quale passano 25mila navi all’anno e il 40% del petrolio mondiale, le basi militari di sette paesi, compresa l’Italia, addensate nel minuscolo Gibuti. La Somalia in rivolta dei Shabaab contro il regime fantoccio di Formajo, malamente garantito dalle forze mercenarie dell’Unisom e dai bombardamenti, essenzialmente sui civili, degli Usa; l’operazione Ocean Shields che, col pretesto della lotta ai pirati, assicura alla Nato il controllo delle coste africane e dell’Oceano Indiano, con relativi diritti di pesca ai danni dei locali; e la drammatica questione delle acque del Nilo, disputate tra Etiopia, che ne detiene il rubinetto grazie alle dighe dell’Impregilo, Sudan ed Egitto.


E’ il Corno, dopo la Siria e l’Afghanistan devastati dalle guerre imperiali, l’area che fornisce il maggior numero di migranti diretti in Europa. Fenomeno naturale o gigantesca operazione imperialista, con il concorso delle Ong, mirata a privare il continente più ricco di risorse delle generazioni che dovrebbero costruirlo e garantirne l’autodeterminazione, per far posto alle predazioni multinazionali neoliberiste? Argomento nemmeno sfiorato.

La Libia? Roba passata
Al delegato africano, Marinella Correggia di NO War e del sito “sibialiria”, ha posto la questione, assurdamente trascurata, della guerra e della distruzione della Libia. Nella risposta è stato perlomeno riconosciuto come le menzogne con cui si è giustificata l’aggressione oscuravano la necessità, per i colonialisti, di impedire la valuta unica, fuori dal dollaro e dal CFA francese, programmata da Gheddafi per l’Africa, nonché una guerra condotta tramite mercenari reclutati dal terrorismo jihadista. Pochi accenni. Comunque, alla Libia e a Marinella è andata meglio che alla Siria e a me, come vedremo.

L’armata della Diarchia Merkel-Macron
Visto che la spesa di 6 trilioni di dollari con la quale gli Usa, con i serventi al pezzo Nato, hanno alimentato le guerre bushiane, obamiane e trumpiane, grazie al pretesto dell’11 settembre 2001, e hanno sostenuto un’economia fondata sul complesso militar-industriale, non offre sufficienti margini di profitto agli europei, ecco che l’euro-biarchia Merkel-Macron ha lanciato la proposta di una forza armata tutta europea, separata dalla Nato, ma, dati i rapporti di forza per i prossimi decenni, a essa inevitabilmente subordinata. Il tema è stato affrontato da molti relatori, al punto da diventare centrale per le mobilitazioni programmate, in particolare quella di Ramstein, la più grande base Usa in Germania, per il 2019. Nello stesso anno, il 4 aprile, 70 anni dalla fondazione della Nato, si conta di allestire una grande manifestazione internazionale a Washington, auspicabilmente con ricadute anche nei singoli paesi e al quartiere generale Nato di Bruxelles.
E’ stato notato come si debba con urgenza aprire un altro fronte, quello contro l’abbandono da parte di Washington del trattato INF. Accordo sul bando dei missili nucleari a medio raggio contro i quali a suo tempo ci facemmo rompere le teste dalla polizia quando li cacciammo da Comiso e che Trump vorrebbe installare nuovamente in Europa, come sempre “contro la minaccia russa”, ma anche per ribadire, di fronte alle tentazioni autonomiste di Merkel e Macron, che il dito sul grilletto resta quello a stelle e strisce.
Ho avuto due occasioni per intervenire. L’una, programmata, dal palco, la seconda dalla platea dopo gli interventi sulla Palestina, la terza negata dalla moderatrice afroamericana che non aveva gradito la mia precedente contestazione ai dimentichini relatori sulla Palestina. Avrebbe dovuto occuparsi dell’Africa, della Libia taciuta. Ci ha pensato Marinella.


E l’Italia…Itachè?
Ho titolato questo pezzo “conferenza col buco”. Un buco e alcune voragini, per la verità. Il buco era, nella giusta attenzione al riarmo e all’avanzata del militarismo in Europa, Africa, America Latina, la totale disattenzione al Mediterraneo dove un’Italia, dal ruolo strategico incredibilmente sottovalutato, ospita, per ragioni di colossale portata strategica, un decimo delle circa mille basi Usa sparse sul globo. Il mio tentativo di rimediare, in circa 13 minuti, a questa svista condivisa da tutti, in tutti ha infatti suscitato stupore e interesse all’approfondimento. Nulla sapevano delle quasi 100 basi Usa/Nato, alcune segrete perfino al parlamento, tra Aviano e Sigonella, passando per Ghedi, le 60-90 bombe atomiche B61, Vicenza Dal Molin, Camp Darby, i comandi Usa e alleati di Napoli, la 6. Flotta a Gaeta, la Sardegna martoriata dai poligoni utilizzati per esercitazioni a fuoco e esperimenti  delle industrie di esplosivi di tutti i paesi Nato e Israele. Nulla parevano ricordare di come queste basi fossero state decisive per lo smantellamento della Jugoslavia, la distruzione della Serbia, i bombardamenti di Libia e Siria, la proiezione militare da Sigonella con droni e forze speciali in Africa e Medioriente. Nulla sapevano del MUOS a Niscemi che, con altre tre stazioni satellitari, controlla, coordina e muove la forze Usa in tutto il mondo. E neanche sapevano delle straordinarie lotte condotte, nell’isolamento nazionale quasi totale, dai siciliani, dai sardi e dai vicentini, contro questa manomissione dei loro territori e l’uso che se ne fa per obiettivi di devastazione e morte.

Tanto meno avevano cognizione della filiazione Nato “Stay Behind”, da noi “Gladio”, garante del ruolo sussidiario dell’Italia anche nel suo ruolo di laboratorio del terrorismo e delle relative stragi ogni qual volta la rotta della “portaerei” ancorata nel Mediterraneo minacciava di deviare dal corso assegnato, sia per instabilità interne, sia per sbilanciamenti di governo (vedi Aldo Moro).

Le voragini cognitive, appresso a quelle che hanno inghiottito Russia e Cina, nazioni che pure dovrebbero essere oggettivi e inevitabili referenti della campagna, che si vuole globale,nel contrasto ai guerrafondai e alle basi che questi paesi accerchiano, riguardano la cronica e apparentemente insuperabile questione dei diritti umani e della democrazia nella formulazione con la quale ce li vendono coloro che ne sono i massimi violatori e che è tragicamente condivisa da una sinistra pacifista tale solo nelle intenzioni. Immaginiamo una cittadella medievale. In alto la fortezza cui spetta ospitare i difensori della comunità, tutt’intorno le case dei cittadini. Arriva l’esercito nemico e attacca la fortezza che custodisce le ricchezze della comunità. I difensori si affannano a creare ostacoli all’avanzata nemica, trincee e fossi davanti alle mura, spingarde e olio bollente sugli spalti, ponti levatoi sollevati, porte rinforzate. Chiedono agli abitanti delle case di accorrere in aiuto, per propria difesa e per rafforzare la resistenza. Ma questi indugiano, restano alle loro finestre, da dove lanciano rimproveri, riprovazioni, deplorazioni, reprimende, fin anatemi contro l’esercito attaccante. Cui non gliene cale per nulla. E le porte della fortezza stanno per cedere.


Siria, non aprite quella porta
Sessione sul Medioriente che finisce con l’essere sessione sulla sola Palestina. Dopo una serie di lunghi interventi sulla tragedia palestinese, iniziati con il “focolare ebreo” di Balfour in Palestina e arrivati agli accordi  fasulli di Oslo e stragi e sevizie odierne, tema ormai del tutto sdoganato in tutti i settori e, dunque, per quanto da sostenere sempre, universalmente condiviso, se si prescinde dallo “Stato degli ebrei” e relativa lobby, ho potuto chiedere ai relatori, un irlandese, Medea Benjamin di Codepink, una parlamentare del Knesset e un emigrato palestinese, cosa ci potessero dire della guerra alla Siria, all’Iraq, delle minacce di guerra all’Iran. Alla domanda è seguito uno sparuto applauso. La risposta si è dipanata tra espressioni di pietra, attimi di sospensione e imbarazzo, con i due palestinesi che si guardavano tra loro con aria interrogativa , la già effervescente Medea della fervida solidarietà agli oppressi palestinesi (ma anche reduce da cantonate su Aleppo ed Elmetti Bianchi) come rintanata in se stessa. Finalmente l’irlandese acciuffa il silenzio per la coda e prorompe in un inno ai diritti umani, alla democrazia, alla società civile, con sonoro sottinteso che di tali valori non è certamente portatore il presidente siriano Assad e, per la proprietà transitiva, neanche Milosevic, Chavez, Saddam e Gheddafi: “Noi stiamo con i movimenti di massa, non con leader autoritari”…conclude a petto in fuori, trascurando che alle ultime elezioni, accreditate corrette dagli osservatori Onu, l’80% dei siriani aveva votato per Bashar el Assad. Inezie.

Ormai privato del microfono, gli grido “Gli israeliani, di cui denunciavi le atrocità su Gaza, bombardano pure la Siria un giorno sì e l’altro pure e Nato/Usa ne occupano un terzo! Perché non ne parli? Non è Medioriente? Non è guerra imperialista?”. L’espressione dell’irlandese è implicita nel colorito carminio e nello sguardo a dardi: “Sciò, via, come ti permetti?”. Ma sul palco già si parla d’altro, mentre nell’aria aleggia il ricordo di una vecchia sciagura: “Ne con la Nato, né con Milosevic”. E s’è visto come è andata.

Egemonia e paralisi

Più tardi l’iraniano del Consiglio Mondiale della Pace, l’ottimo Bahman,  e il greco Hiraklis mi offrono comprensione e sofferte attenuanti: “Se si apre quella porta, succede il finimondo e l’unità va in pezzi”. L’egemonia ce l’hanno ancora i né-né e il rischio di mandare tutto, quel poco che c’è,  in frantumi la rafforza. Una combattente di antica data contro le guerre, Gina Nellatempo, ha lamentato in un suo scritto la dissoluzione di ogni vera, forte, mobilitazione contro la guerra. Tra le cause  che ha dimenticato di elencare credo sia prominente la nostra incapacità di sostituire, a quella del né-né, l’egemonia dello schieramento, chiara e inequivocabile, dalla parte dell’aggredito, chiunque esso sia, non pretendendo, una po’ razzisticamente, di imporre moduli di società da noi pretesi superiori. Il carnefice essendo sempre quello. Il peggiore di tutti. Aleida Guevara ha avuto l’astuta improntitudine di chiedere alla platea chi avesse meno di trent’anni. Si levarono quattro mani. I detentori di quelle mani vennero da Marinella e me, nell’intervallo, a dirci che su Siria e Libia stavano con noi e che sorvolare su Siria, Libia e altri paesi, prima ancora che di opportunismo, di ottusità eurocentrica e perciò inconsapevolmente colonialista, è segno di nebbia morale.

Il comunicato finale della Conferenza dice tra l’altro: “Consideriamo che le circa 1000 basi USA/NATO dislocate nel mondo e che costituiscono i pilastri del dominio imperialista globale di Usa, Nato e UE e la principale minaccia alla pace e all’umanità, debbano essere tutte chiuse. Le basi Nato sono l’espressione militare degli interventi nelle vite di paesi sovrani, al servizio degli interessi finanziari, politici ed economici dominanti e in chiara violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite”.

E’ stata una buona conferenza, a dispetto di certi “buchi”. La voce contro la macchina di distruzione e morte è stata levata forte e chiarissima. Le scadenze future dovrebbero vederci crescere. Ed è stato per molti di noi un vero e proprio sollievo, dopo tanto agitar di femminismo, populismo, razzismo, xenofobia, LGBTQ, patriarcato, violenza maschile, diritti umani, matrimoni e adozioni gay e altri depistaggi, muoverci in un vento che portava parole antiche e giovani come non mai: imperialismo, basi, Nato, militarismo, resistenza, lotta, crimini di guerra, multinazionali, capitalismo, sovranità, internazionalismo, popoli, élites, plutocrazia, ricchi e poveri, dominanti e dominati. Perfino rivoluzione.

Da Marinella Correggia
1) intervento di Fulvio sulle basi militari, 
2) la delegazione del Comitato No guerra No Nato ha proiettato il video sempre sulle basi militari e sul ruolo vergognoso dell'Italia a codazzo Usa, ed è intervenuta in plenaria
3) la Wilfp con Giovanna Pagani ha insistito nella riunione fra gli europei sulla necessità di coinvolgere gli ambientalisti stabilendo il netto ecopax (e sono d'accordissimo dal...1991, soprattutto quanto alla faccenda clima e guerre) 
4) Presente in rappresentanza del Comitato contro la guerra di Milano, Giampiero Tartabini  ha lanciato a titolo personale l'idea che, come a Okinawa, la presenza delle basi sia sottoposta a referendum
5) Giovanna Vitrano che ora vive a Dublino ma ha lavorato con i No Muos ha parlato appunto della lotta in Sicilia e anche dei vari arresti e vessazioni che ha subito
6) la sottoscritta ha ricordato brevemente (fingendo di fare una domanda... era il momento delle questions&answers, non ce n'erano altri!) il punto di svolta della guerra Nato alla Libia, e durante i sette mesi di  bombe il silenzio del movimento per la pace (compresi credo la grande maggioranza dei 300 presenti, salvo negli Usa) e il ruolo egregio dei paesi dell'Alba, un vero riferimento. 

Questo solo sulla presenza italiana
Ovviamente chi era presente potrà dire meglio di me

http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2018/11/a-dublino-il-primo-convegno-della.html

Nessun commento:

Posta un commento