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martedì 2 giugno 2015

Postfazione al libro “Il terrorismo impunito”, Zambon editore. Di Fulvio Grimaldi

Questo libro è utile, prezioso, necessario. Disfa tabù e assegna responsabilità inderogabili. Lacera le nebbie dell’ipocrisia collettiva, frutto di codardia, opportunismo, collusione. Mette sul banco degli imputati, in un maxiprocesso al confronto del quale quelli della mafia sono recite scolastiche, i protagonisti del terrorismo di Stato istituzionalizzato e diffuso nel mondo come paradigma delle nuove dominazioni. Soprattutto, rimettendo in piedi una realtà rovesciata nel suo contrario, codifica la differenza tra la violenza di chi aggredisce a torto e chi si difende a ragione.
Ho da aggiungere qualcosina anch’io che, credo, rientri a pieno titolo nel catalogo di questo terrorismo e della sua orripilante impunità. Andai in Palestina-Israele nel 1967, da inviato in quella guerra. Nell’avanzata di ciò che già allora era uno dei più potenti e protervi eserciti del mondo, forse non ancora tanto nell’efferatezza degli abusi, quanto nello Zeitgeist che andava consolidandosi in quelle sfere. Zeitgeist erede del cinismo verso chiunque contrastasse il legittimo  disegno di conquista sionista, che discendeva direttamente dalle imprese delle bande d’avanguardia, Stern, Irgun, Hagannah, ma che allora non era ancora condiviso, e me ne potei rendere conto tra tanti amici ebrei, da grandi settori della popolazione immigrata. L’impunità è ovviamente il fattore che ne ha promosso la diffusione, fino ad arrivare a quel 92% di cittadini israeliani che condivisero l’ecatombe di “Piombo Fuso” a Gaza.
Il radere al suolo villaggi palestinesi in Galilea, nell’avanzata di Tsahal  verso il Golan, osservato dalla torretta del carro armato che mi ospitava, alla luce della fenomenologia della recente guerra mondiale poteva al limite essere ancora inserito nella spietata, ma comunemente accettata, cultura della guerra. Si affrontavano eserciti, alla maniera in cui li avevo visti operare in Europa pochi lustri prima, anche se terrorismo andava già qualificato l’“effetto collaterale” della fuga e dello sterminio di civili palestinesi. Cosa che rigorosi sbianchettatori nell’ufficio della Censura Militare, per la quale – libertà di stampa violata: terrorismo mediatico – ogni dispaccio al mondo doveva passare, facevano scrupolosamente sparire. L’indifferenza, la gratuità e il piacere perverso che contrassegnano lo spirito terrorista, li sperimentai in un viaggio verso Al Arish occupata. Lungo la strada file di soldati egiziani che si stavano calcinando al sole. Perché non li seppellite, come prescrive il diritto di guerra? “Sono arabi, l’unico arabo buono è quello morto, meglio che tutti li vediate”, fu la risposta del capitano che ci faceva da guida. Logica conclusione di chi viveva tra muri o in scuole con scritte come arabi cani, scimmie, serpenti. Impostato così, il discorso “terrorismo” si volgeva in “bonifica”. Rampognai quel capitano, ne fui preso a pugni e, dopo aver scritto il pezzo, la mattina dopo fui espulso. Il pezzo non arrivò mai a Paese Sera.
Molti anni dopo riuscii a rientrare. Ed erano le Intifade, carri armati e fucilate contro sassi. Ai ragazzini gambe e braccia spezzate, quando non una pallottola nel cuore. Terrorismo contro inermi. Una risposta letale nei quartieri dell’usurpatore veniva, da Israele e dal fronte totalizzante dei suoi sostenitori, scagliata sul mondo come il macigno che avrebbe anche dovuto– effetto collaterale – seppellire nel mondo occidentale della perfezione ogni sussulto di insofferenza e ribellione. La decimazione di palestinesi a casa loro, per uccisione, depredazione, o espulsione nel nulla della storia, non era pulizia etnica, ma autodifesa delle vittime di terrorismo. Vittime rese tali in perpetuo da uno  sfruttamento strumentale delle autentiche vittime dell’olocausto allo scopo di giustificare la transizione da orrore subito a orrore inflitto e la nobilitazione di questo in riscatto e nemesi storicamente determinata.
Ho rivissuto la tragedia terroristica di Gaza e del Libano invasi, evolutasi dagli assassinii mirati in punizione stragista collettiva, mentre le macerie ancora fumavano e i sopravvissuti subivano il terrorismo della vita e della fame da cavernicoli rintanati tra i resti delle loro case e, con il blocco terroristico, destinati a strisciante genocidio. Terrorismo, i bambini-scudi umani legati ai blindati che avanzavano verso le scarse resistenza degli “indigeni”, terrorismo della tortura l’uso del fosforo e di armi proibite che ti si mangiavano dall’interno e ricordavano la fola, inventata da una parlamentare scozzese, di Saddam che “godeva nel graduale sminuzzarsi degli oppositori politici infilati per i piedi nella macchina che riduce la carta in coriandoli”.
In scenari di guerra, conflitto, destabilizzazione, repressione da parte di fantocci tiranni, non mi è mai stata risparmiata la dimensione del terrorismo di operativi israeliani e loro surrogati (paramilitari colombiani, tagliagole islamisti, sbirri locali), impegnati nel sostegno alla parte retriva, aggressiva, criminale di queste situazioni. Erano israeliani, perlopiù ex-Mossad, i consiglieri di quasi tutte le dittature latinoamericane al tempo dell’operazione Usa “Condor”. Erano israeliani gli organizzatori della normalizzazione terroristica di popolazioni in lotta per i loro diritti, dall’Honduras al Messico, dalla Colombia all’Ecuador, in quasi tutti i paesi africani. I sistemi di sicurezza per società a controllo totale nelle metropoli del continente erano spesso affidate a tecnologie ed esperti di Israele. Non si inventa il terrorismo moderno per nulla: il mercato della democrazia ferita, svuotata fino all’annientamento, della dittatura mondiale dell’1%, diventa sempre più vasto. Israele, qui, è modello ideologico, morale, culturale, tecnico e, spesso, operativo. Apprendisti da superare ogni stregone, quelli dell’11 settembre e seguenti. Ma anche prima, quelli di Piazza Fontana, o di Capaci. Falcone e Borsellino, e tutti gli altri, come gli scienziati iraniani, l’intellettualità irachena, gli avversari politici (Arafat, come s’è visto, incluso), abbattuti da squadre della morte per tutto il globo terracqueo. Il buon Obama, con la sua settimanale compilazione di assassinandi, perché “sospetti di terrorismo”, è 
l’apprendista insuperato.
Penso che se il terrorismo è diventato l’arma principe dell’aggressione e della continuità del dominio per tutti le classi dirigenti in Occidente e Israele ne è divenuto negli anni  protagonista per efficienza ed ubiquità, qualcosa dietro ci deve essere. E, mi perdonino i fedeli, come si fa ad esonerare una tradizione giudaico-cristiana che del terrore (del peccato, della morte, della punizione senza fine) innestato nei cuori fin dai loro primi battiti, ha fatto la chiave di volta dei suoi templi? Divinità, profeti, semidivinità che imperversano con minacce apocalittiche a chiunque attenti, propriamente o impropriamente, a leggi, proprie o improprie. Lì un Cristo che, felicità macabra per noi e rimedio ai nostri irrimediabili peccati originali e successivi, viene immolato, un po’ da Pilato (Stato), un po’ dai gerarchi ebrei (confessione), un po’ da Giuda (intelligence), un po’ da suo padre (autorità). Roba che ci dovrebbe far detestare i mandanti del crimine, i quali però, eterogenesi dei fini, risultano gli strumenti  indispensabili a compiere l’impresa della salvezza. Ne consegue che chi compie simili delitti si avvantaggia di una sacra giustificazione. Può valere per l’assassinio di uno scienziato nucleare iraniano, che preserva il popolo delle vittime da un attacco atomico, come per quei padroni della finanza e del resto che, per “salvare dal baratro tutti”, vi ci buttano il 99%.
Quello, articolatosi poi in inquisizione, monarchie assolute per investitura divina, conseguenti leviatani e dittature fasciste, crociate, guerre Gott mit uns, interventi umanitari, esportazione di democrazia, diritti umani, aggressioni di autodifesa in parti remotissime, è terrorismo nella sua dimensione storica e visibile. Lo ha reso possibile la ferinità di una dualismo amico-nemico divenuto ontologico nella formazione impartita dal padrone a partire da Adamo tentato da Eva tentatrice, Caino e Abele, ma anche, qui però ormai spento, nei miti fondativi di altre civiltà.
Quando, vigliaccamente approfittando dalla paura animale della morte, infliggendo punizioni, o minacciandole per un’eternità di dolore, pratichi apertamente, nel nome di una suprema e inconfutabile autorità, terrorismo, non c’è da meravigliarsi se tali “valori” non solo diventano comportamento “naturale”delle istituzioni, ma, da autorità minori e in linea, vengono promosse al terrorismo di modi statali di produzione, riduzione in schiavitù, eliminazione. Pulizia etnica, confessionale, politica, sociale, sanitaria, ambientale, culturale. Terrorismo israelo-euro-atlantico-vaticano, con surrogati islamisti, che viene da più lontano che dalla banda Stern del terrorista e primo ministro Itzhak Shamir e, per questo, ha potuto assurgere a metodo e impunità nella visione del mondo proposta dalla cupola dei potenti. L’arma totale non era quella di Hitler, o di Truman. E’ questa. L’oppio dei popoli è il papà, il figlio è il terrorismo. Qualcuno, un secolo e mezzo fa, l’aveva capito.
Se la belva del terrore utilizza con successo l’arma del vittimismo, non credo funzioni da gran contrasto il vittimismo di cui nostri solidaristi rivestono il popolo palestinese, che amano e compiangono  come nonviolento, tradito, reso quasi inoffensivo. Così vicino a noi, quelli del baratro. Chi viene schiacciato non può permettersi di fare la vittima. Ridare al terrorismo il suo vero autore e il suo vero volto, storico e attuale, psicologico e materiale, questo sì. In Palestina e nel mondo, presto o tardi, lo faranno gli ebrei di Israele e  di quella che chiamano diaspora. Loro per primi. Sarà catarsi vera, altro che Gesù.

Fulvio Grimaldi

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