Questo libro è utile, prezioso, necessario. Disfa tabù e assegna
responsabilità inderogabili. Lacera le nebbie dell’ipocrisia collettiva,
frutto di codardia, opportunismo, collusione. Mette sul banco degli
imputati, in un maxiprocesso al confronto del quale quelli della mafia
sono recite scolastiche, i protagonisti del terrorismo di Stato
istituzionalizzato e diffuso nel mondo come paradigma delle nuove
dominazioni. Soprattutto, rimettendo in piedi una realtà rovesciata nel
suo contrario, codifica la differenza tra la violenza di chi aggredisce a
torto e chi si difende a ragione.
Ho da aggiungere qualcosina anch’io che, credo, rientri a pieno
titolo nel catalogo di questo terrorismo e della sua orripilante
impunità. Andai in Palestina-Israele nel 1967, da inviato in quella
guerra. Nell’avanzata di ciò che già allora era uno dei più potenti e
protervi eserciti del mondo, forse non ancora tanto nell’efferatezza
degli abusi, quanto nello Zeitgeist che andava consolidandosi in quelle sfere. Zeitgeist erede
del cinismo verso chiunque contrastasse il legittimo disegno di
conquista sionista, che discendeva direttamente dalle imprese delle
bande d’avanguardia, Stern, Irgun, Hagannah, ma che allora non
era ancora condiviso, e me ne potei rendere conto tra tanti amici ebrei,
da grandi settori della popolazione immigrata. L’impunità è ovviamente
il fattore che ne ha promosso la diffusione, fino ad arrivare a quel 92%
di cittadini israeliani che condivisero l’ecatombe di “Piombo Fuso” a
Gaza.
Il radere al suolo villaggi palestinesi in Galilea, nell’avanzata di Tsahal verso
il Golan, osservato dalla torretta del carro armato che mi ospitava,
alla luce della fenomenologia della recente guerra mondiale poteva al
limite essere ancora inserito nella spietata, ma comunemente accettata,
cultura della guerra. Si affrontavano eserciti, alla maniera in cui li
avevo visti operare in Europa pochi lustri prima, anche se terrorismo
andava già qualificato l’“effetto collaterale” della fuga e dello
sterminio di civili palestinesi. Cosa che rigorosi sbianchettatori
nell’ufficio della Censura Militare, per la quale – libertà di stampa
violata: terrorismo mediatico – ogni dispaccio al mondo doveva passare,
facevano scrupolosamente sparire. L’indifferenza, la gratuità e il
piacere perverso che contrassegnano lo spirito terrorista, li
sperimentai in un viaggio verso Al Arish occupata. Lungo la strada file
di soldati egiziani che si stavano calcinando al sole. Perché non li
seppellite, come prescrive il diritto di guerra? “Sono arabi, l’unico arabo buono è quello morto, meglio che tutti li vediate”, fu la risposta del capitano che ci faceva da guida. Logica conclusione di chi viveva tra muri o in scuole con scritte come arabi cani, scimmie, serpenti.
Impostato così, il discorso “terrorismo” si volgeva in “bonifica”.
Rampognai quel capitano, ne fui preso a pugni e, dopo aver scritto il
pezzo, la mattina dopo fui espulso. Il pezzo non arrivò mai a Paese
Sera.
Molti anni dopo riuscii a rientrare. Ed erano le Intifade, carri
armati e fucilate contro sassi. Ai ragazzini gambe e braccia spezzate,
quando non una pallottola nel cuore. Terrorismo contro inermi. Una
risposta letale nei quartieri dell’usurpatore veniva, da Israele e dal
fronte totalizzante dei suoi sostenitori, scagliata sul mondo come il
macigno che avrebbe anche dovuto– effetto collaterale – seppellire nel
mondo occidentale della perfezione ogni sussulto di insofferenza e
ribellione. La decimazione di palestinesi a casa loro, per uccisione,
depredazione, o espulsione nel nulla della storia, non era pulizia
etnica, ma autodifesa delle vittime di terrorismo. Vittime rese tali in
perpetuo da uno sfruttamento strumentale delle autentiche vittime
dell’olocausto allo scopo di giustificare la transizione da orrore
subito a orrore inflitto e la nobilitazione di questo in riscatto e
nemesi storicamente determinata.
Ho rivissuto la tragedia terroristica di Gaza e del Libano invasi,
evolutasi dagli assassinii mirati in punizione stragista collettiva,
mentre le macerie ancora fumavano e i sopravvissuti subivano il
terrorismo della vita e della fame da cavernicoli rintanati tra i resti
delle loro case e, con il blocco terroristico, destinati a strisciante
genocidio. Terrorismo, i bambini-scudi umani legati ai blindati che
avanzavano verso le scarse resistenza degli “indigeni”, terrorismo della
tortura l’uso del fosforo e di armi proibite che ti si mangiavano
dall’interno e ricordavano la fola, inventata da una parlamentare
scozzese, di Saddam che “godeva nel graduale sminuzzarsi degli oppositori politici infilati per i piedi nella macchina che riduce la carta in coriandoli”.
In scenari di guerra, conflitto, destabilizzazione, repressione da
parte di fantocci tiranni, non mi è mai stata risparmiata la dimensione
del terrorismo di operativi israeliani e loro surrogati (paramilitari
colombiani, tagliagole islamisti, sbirri locali), impegnati nel sostegno
alla parte retriva, aggressiva, criminale di queste situazioni. Erano
israeliani, perlopiù ex-Mossad, i consiglieri di quasi tutte le
dittature latinoamericane al tempo dell’operazione Usa “Condor”. Erano
israeliani gli organizzatori della normalizzazione terroristica di
popolazioni in lotta per i loro diritti, dall’Honduras al Messico, dalla
Colombia all’Ecuador, in quasi tutti i paesi africani. I sistemi di
sicurezza per società a controllo totale nelle metropoli del continente
erano spesso affidate a tecnologie ed esperti di Israele. Non si inventa
il terrorismo moderno per nulla: il mercato della democrazia ferita,
svuotata fino all’annientamento, della dittatura mondiale dell’1%,
diventa sempre più vasto. Israele, qui, è modello ideologico, morale,
culturale, tecnico e, spesso, operativo. Apprendisti da superare ogni
stregone, quelli dell’11 settembre e seguenti. Ma anche prima, quelli di
Piazza Fontana, o di Capaci. Falcone e Borsellino, e tutti gli altri,
come gli scienziati iraniani, l’intellettualità irachena, gli avversari
politici (Arafat, come s’è visto, incluso), abbattuti da squadre della
morte per tutto il globo terracqueo. Il buon Obama, con la sua
settimanale compilazione di assassinandi, perché “sospetti di
terrorismo”, è
l’apprendista insuperato.
Penso che se il terrorismo è diventato l’arma principe
dell’aggressione e della continuità del dominio per tutti le classi
dirigenti in Occidente e Israele ne è divenuto negli anni protagonista
per efficienza ed ubiquità, qualcosa dietro ci deve essere. E, mi
perdonino i fedeli, come si fa ad esonerare una tradizione
giudaico-cristiana che del terrore (del peccato, della morte, della
punizione senza fine) innestato nei cuori fin dai loro primi battiti, ha
fatto la chiave di volta dei suoi templi? Divinità, profeti,
semidivinità che imperversano con minacce apocalittiche a chiunque
attenti, propriamente o impropriamente, a leggi, proprie o improprie. Lì
un Cristo che, felicità macabra per noi e rimedio ai nostri
irrimediabili peccati originali e successivi, viene immolato, un po’ da
Pilato (Stato), un po’ dai gerarchi ebrei (confessione), un po’ da Giuda
(intelligence), un po’ da suo padre (autorità). Roba che ci
dovrebbe far detestare i mandanti del crimine, i quali però, eterogenesi
dei fini, risultano gli strumenti indispensabili a compiere l’impresa
della salvezza. Ne consegue che chi compie simili delitti si avvantaggia
di una sacra giustificazione. Può valere per l’assassinio di uno
scienziato nucleare iraniano, che preserva il popolo delle vittime da un
attacco atomico, come per quei padroni della finanza e del resto che,
per “salvare dal baratro tutti”, vi ci buttano il 99%.
Quello, articolatosi poi in inquisizione, monarchie assolute per
investitura divina, conseguenti leviatani e dittature fasciste,
crociate, guerre Gott mit uns, interventi umanitari,
esportazione di democrazia, diritti umani, aggressioni di autodifesa in
parti remotissime, è terrorismo nella sua dimensione storica e visibile.
Lo ha reso possibile la ferinità di una dualismo amico-nemico divenuto
ontologico nella formazione impartita dal padrone a partire da Adamo
tentato da Eva tentatrice, Caino e Abele, ma anche, qui però ormai
spento, nei miti fondativi di altre civiltà.
Quando, vigliaccamente approfittando dalla paura animale della
morte, infliggendo punizioni, o minacciandole per un’eternità di dolore,
pratichi apertamente, nel nome di una suprema e inconfutabile autorità,
terrorismo, non c’è da meravigliarsi se tali “valori” non solo
diventano comportamento “naturale”delle istituzioni, ma, da autorità
minori e in linea, vengono promosse al terrorismo di modi statali di
produzione, riduzione in schiavitù, eliminazione. Pulizia etnica,
confessionale, politica, sociale, sanitaria, ambientale, culturale.
Terrorismo israelo-euro-atlantico-vaticano, con surrogati islamisti, che
viene da più lontano che dalla banda Stern del terrorista e primo
ministro Itzhak Shamir e, per questo, ha potuto assurgere a metodo e
impunità nella visione del mondo proposta dalla cupola dei potenti.
L’arma totale non era quella di Hitler, o di Truman. E’ questa. L’oppio
dei popoli è il papà, il figlio è il terrorismo. Qualcuno, un secolo e
mezzo fa, l’aveva capito.
Se la belva del terrore utilizza con successo l’arma del
vittimismo, non credo funzioni da gran contrasto il vittimismo di cui
nostri solidaristi rivestono il popolo palestinese, che amano e
compiangono come nonviolento, tradito, reso quasi inoffensivo. Così
vicino a noi, quelli del baratro. Chi viene schiacciato non può
permettersi di fare la vittima. Ridare al terrorismo il suo vero autore e
il suo vero volto, storico e attuale, psicologico e materiale, questo
sì. In Palestina e nel mondo, presto o tardi, lo faranno gli ebrei di
Israele e di quella che chiamano diaspora. Loro per primi. Sarà catarsi
vera, altro che Gesù.
Fulvio Grimaldi
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