Alan Hart, 12 aprile 2011
Il premier israeliano di quell’epoca, il molto calunniato Levi Eshkol, ricopriva allora anche la carica di ministro alla difesa e non aveva alcuna intenzione di fare entrare Israele in guerra. Né l’aveva il suo capo di stato maggiore, Yitzhak Rabin. La loro intenzione era di mettere pressione alla comunità internazionale mediante azioni militari molto limitate e per niente assimilabili ad una guerra, affinché spingesse il presidente egiziano Nasser a riaprire lo Stretto di Tiran.
Israele ha fatto la guerra perché così volevano i ‘falchi’ militari e politici, che a tale scopo insistevano che gli Arabi stessero per attaccare. Sapevano benissimo che era una menzogna, ma hanno sostenuto questa falsità per attaccare Eshkol sul piano politico, facendolo passare per un debole agli occhi del paese. Al culmine della campagna di diffamazione contro Eshkol i falchi hanno chiesto a gran voce che il premier passasse il portafoglio della difesa a Moshé Dayan, che tutti ricordiamo come il signore della guerra con la benda sull’occhio e maestro dell’inganno. Appena quattro giorni dopo avere ottenuto il ministero che voleva, mentre i falchi avevano ottenuto il via libera dal governo Johnson per annientare l’aviazione e l’esercito dell’Egitto, Israele ha iniziato la guerra. (Lindon Johnson era stato vice-presidente di John Kennedy, al quale era succeduto dopo l’assassinio del famoso presidente, n.d.t.)
Ciò che in realtà avvenne in Israele durante i giorni che precedettero la guerra fu qualcosa di molto simile ad un golpe militare, eseguito in segreto, a porte chiuse, senza colpo ferire. Per i falchi di Israele, in effetti, la guerra del 1967 significava portare a termine l’impresa iniziata nel 1948/49: creare la Grande Israele, con Gerusalemme -- l’intera Gerusalemme – come capitale. Avvenne questo. I falchi israeliani tesero una trappola al presidente egiziano Nasser minacciando la Siria. Sentendosi obbligato a salvare la faccia con la Siria, l’imprudente Nasser cadde nella trappola ad occhi aperti. Il giorno dopo l’inizio della guerra, il Generale Chaim Herzog, uno dei fondatori dei Servizi Segreti Militari di Israele, mi confessò questo in privato: «Anche se Nasser non fosse stato tanto stupido da fornirci un pretesto per la guerra, noi stessi ne avremmo creato uno nel giro di 12-18 mesi.»
Come dico nel mio libro, se l’affermazione che gli Arabi non avessero intenzione di attaccare e che l’esistenza di Israele non era messa a rischio fosse solo quella di un goy (un non-ebreo) - io nella fattispecie – tale affermazione potrebbe essere liquidata dai sionisti e dai sostenitori di Israele come una congettura anti-semita. Invece tale verità è stata ammessa, confessata, da molti leader israeliani. Ecco di seguito alcuni tra i tanti esempi.
In un’intervista pubblicata su Le Monde il 28 febbraio del 1968, il capo di stato maggiore Rabin disse questo: «Non credo che Nasser volesse la guerra. Le due divisioni che ha inviato nella Penisola del Sinai il 14 maggio (1967) non sarebbero state sufficienti a scatenare un’offensiva contro Israele. Lo sapeva lui e lo sapevamo noi.»
Il 14 aprile del 1971, un rapporto pubblicato nel giornale israeliano Al-Hamishmar conteneva la seguente dichiarazione di Mordecai Bentov, esponente del governo israeliano durante la guerra: «L’intera storia dell’annientamento (di Israele) è stata inventata in ogni suo dettaglio e perfino esagerata a posteriori per giustificare l’annessione di altre terre Arabe.»
Nel 1982 il primo ministro Begin si fece sfuggire questa osservazione in pubblico: «Nel giugno del 1967 avevamo una scelta. Le forze egiziane concentrate nel Sinai non erano affatto una prova che Nasser fosse davvero sul punto di attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi abbiamo deciso di attaccarlo.»
Tuttavia l’avvenimento più catastrofico del 1967 non è stata la guerra in sé stessa con la creazione di una Israele allargata (Eretz Israel, Greater Israel, o Grande Israele come viene definita in italiano – n.d.t.).
Dietro pressione degli Stati Uniti, e con la complicità finale dell’Unione Sovietica, l’evento più catastrofico si rivelò essere il rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condannare Israele in quanto aggressore.
Se lo avesse fatto, la storia della regione – e del mondo – potrebbe avere seguito un corso completamente diverso: ad esempio, un negoziato per la fine del conflitto israelo-arabo con la prospettiva per la pace entro un anno o due. A coloro che ritengono questa un’ipotesi non realistica dico questo: leggete il mio libro, che contiene un capitolo intitolato ‘Addio all’Integrità del Consiglio di Sicurezza’.
Domanda: Perché, in effetti, era così importante dal punto di vista dei sionisti che Israele non fosse marchiato come aggressore quando in realtà lo era? In sintesi, ecco perché.
Per prima cosa, agli aggressori è vietato rimanere in possesso dei territori che invadono con la guerra – hanno l’obbligo del ritiro incondizionato. Questi sono i termini della Legge Internazionale che peraltro costituiscono un principio fondamentale che le Nazioni Unite hanno l’obbligo di applicare e difendere – proprio come hanno fatto nel 1956 quando Israele aveva invaso l’Egitto con la complicità dell’Inghilterra e della Francia.
E inoltre esiste un principio, generalmente riconosciuto, che si applica nel caso in cui uno Stato venga attaccato e diventi quindi vittima di aggressione. Qualora lo Stato attaccato decidesse di fare la guerra per legittima difesa e invadesse di conseguenza il territorio dell’aggressore, avrebbe poi il diritto, in eventuali negoziati, di dettare condizioni per il proprio ritiro.
Sulla base dei principi illustrati, ecco dunque cosa è successo nelle Nazioni Unite dopo la guerra del 1967.
E’ vero che mediante la Risoluzione 242 del 23 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha applicato il principio del ‘divieto di acquisizione di territori per mezzo di guerre’, ma lo ha fatto favorendo i sionisti. Lo ha fatto attribuendo ad Israele – e non agli Arabi - il diritto di dettare condizioni per il proprio ritiro (cioè, l’aggressore sionista è diventato la vittima). La Risoluzione 242 ha in effetti consegnato ai leader israeliani e alla Lobby sionista in America il Veto su eventuali processi di pace.
Nel 1957 il presidente americano Eisenhower aveva detto che: se ad una nazione che avesse attaccato e occupato territori stranieri fosse concesso di dettare condizioni per il proprio ritiro, «ciò equivarrebbe a rimettere indietro l’orologio dell’ordine internazionale».
Ed è proprio questo che avvenne nel 1967. Il presidente americano Johnson, preoccupato della guerra in Viet-Nam, e dietro consiglio dei sionisti più estremi nella cerchia dei suoi consiglieri, ha rimesso indietro l’orologio dell’ordine internazionale.
Con ciò vennero effettivamente creati due pesi e due misure per regolamentare il comportamento delle nazioni:
– da una parte c’erano le nazioni del mondo, escluso Israele, chiamate ad agire in conformità con le leggi internazionali e con gli obblighi derivanti dall’appartenenza alla comunità delle Nazioni Unite;
- dall’altra c’era Israele, da cui non ci si aspettava - e a cui non veniva richiesto – di comportarsi come il resto del mondo, o meglio, come uno stato normale.
Dietro insistenza dei sionisti nel governo Johnson, il rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di bollare Israele come aggressore segnò la nascita del ‘doppio standard’ nell’interpretazione e applicazione delle regole per giudicare e sanzionare, dove appropriato, il comportamento delle nazioni. Questo ‘doppio standard’ rappresenta il motivo per cui dal 1967 ad oggi un vero e proprio processo di pace non è stato reso possibile.
A mio avviso non esiste la benché minima possibilità per un reale processo di pace fino a quando questo doppio standard – due pesi e due misure – non sarà abbandonato. Fino a quando, cioè, i governi delle maggiori potenze mondiali, con gli USA in testa, daranno ad Israele un messaggio forte e chiaro, che abbia questo significato: «Adesso basta. E’ nell’interesse di tutti noi che mettiate fine al vostro disprezzo del Diritto Internazionale. Altrimenti saremo obbligati a marchiarvi come stato canaglia e ad applicare boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni.»
Alan Hart, 12 aprile 2011
http://civiumlibertas.blogspot.it/2011/04/perche-israele-ha-il-veto-sul-processo.html
Come
ho spiegato durante il mio recente giro di conferenze in Sud Africa –
peraltro paese di Goldstone – dal quale sono appena rientrato, la
risposta alla domanda del titolo – e cioè «perché Israele ha il veto sul
processo di pace» consiste in ciò che è successo a porte chiuse nel
Consiglio di Sicurezza dell’Onu a New York, durante i mesi che seguirono
la guerra del 1967. Ma per capire davvero è necessario prima di tutto
rendersi conto che si è trattato di una guerra di aggressione da parte di Israele e non di legittima difesa come vorrebbe la fraudolenta versione sionista.
A
distanza di oltre 40 anni, la maggior parte della gente è ancora
convinta che Israele sia ‘entrata’ in guerra perché gli Arabi hanno
attaccato per primi (la versione iniziale di Israele), oppure perché gli
Arabi avessero l’intenzione di attaccare e Israele si sarebbe trovata
costretta ad una guerra preventiva. La verità su quella guerra può
essere riassunta in una semplice affermazione: gli Arabi non hanno
attaccato, né avevano intenzione di attaccare. L’intera verità,
tuttavia, documentata nel mio libro 'Zionism: The Real Enemy of The
Jews' (non ancora uscito in Italia), evidenzia i fatti seguenti.
Il premier israeliano di quell’epoca, il molto calunniato Levi Eshkol, ricopriva allora anche la carica di ministro alla difesa e non aveva alcuna intenzione di fare entrare Israele in guerra. Né l’aveva il suo capo di stato maggiore, Yitzhak Rabin. La loro intenzione era di mettere pressione alla comunità internazionale mediante azioni militari molto limitate e per niente assimilabili ad una guerra, affinché spingesse il presidente egiziano Nasser a riaprire lo Stretto di Tiran.
Israele ha fatto la guerra perché così volevano i ‘falchi’ militari e politici, che a tale scopo insistevano che gli Arabi stessero per attaccare. Sapevano benissimo che era una menzogna, ma hanno sostenuto questa falsità per attaccare Eshkol sul piano politico, facendolo passare per un debole agli occhi del paese. Al culmine della campagna di diffamazione contro Eshkol i falchi hanno chiesto a gran voce che il premier passasse il portafoglio della difesa a Moshé Dayan, che tutti ricordiamo come il signore della guerra con la benda sull’occhio e maestro dell’inganno. Appena quattro giorni dopo avere ottenuto il ministero che voleva, mentre i falchi avevano ottenuto il via libera dal governo Johnson per annientare l’aviazione e l’esercito dell’Egitto, Israele ha iniziato la guerra. (Lindon Johnson era stato vice-presidente di John Kennedy, al quale era succeduto dopo l’assassinio del famoso presidente, n.d.t.)
Ciò che in realtà avvenne in Israele durante i giorni che precedettero la guerra fu qualcosa di molto simile ad un golpe militare, eseguito in segreto, a porte chiuse, senza colpo ferire. Per i falchi di Israele, in effetti, la guerra del 1967 significava portare a termine l’impresa iniziata nel 1948/49: creare la Grande Israele, con Gerusalemme -- l’intera Gerusalemme – come capitale. Avvenne questo. I falchi israeliani tesero una trappola al presidente egiziano Nasser minacciando la Siria. Sentendosi obbligato a salvare la faccia con la Siria, l’imprudente Nasser cadde nella trappola ad occhi aperti. Il giorno dopo l’inizio della guerra, il Generale Chaim Herzog, uno dei fondatori dei Servizi Segreti Militari di Israele, mi confessò questo in privato: «Anche se Nasser non fosse stato tanto stupido da fornirci un pretesto per la guerra, noi stessi ne avremmo creato uno nel giro di 12-18 mesi.»
Come dico nel mio libro, se l’affermazione che gli Arabi non avessero intenzione di attaccare e che l’esistenza di Israele non era messa a rischio fosse solo quella di un goy (un non-ebreo) - io nella fattispecie – tale affermazione potrebbe essere liquidata dai sionisti e dai sostenitori di Israele come una congettura anti-semita. Invece tale verità è stata ammessa, confessata, da molti leader israeliani. Ecco di seguito alcuni tra i tanti esempi.
In un’intervista pubblicata su Le Monde il 28 febbraio del 1968, il capo di stato maggiore Rabin disse questo: «Non credo che Nasser volesse la guerra. Le due divisioni che ha inviato nella Penisola del Sinai il 14 maggio (1967) non sarebbero state sufficienti a scatenare un’offensiva contro Israele. Lo sapeva lui e lo sapevamo noi.»
Il 14 aprile del 1971, un rapporto pubblicato nel giornale israeliano Al-Hamishmar conteneva la seguente dichiarazione di Mordecai Bentov, esponente del governo israeliano durante la guerra: «L’intera storia dell’annientamento (di Israele) è stata inventata in ogni suo dettaglio e perfino esagerata a posteriori per giustificare l’annessione di altre terre Arabe.»
Nel 1982 il primo ministro Begin si fece sfuggire questa osservazione in pubblico: «Nel giugno del 1967 avevamo una scelta. Le forze egiziane concentrate nel Sinai non erano affatto una prova che Nasser fosse davvero sul punto di attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi abbiamo deciso di attaccarlo.»
Tuttavia l’avvenimento più catastrofico del 1967 non è stata la guerra in sé stessa con la creazione di una Israele allargata (Eretz Israel, Greater Israel, o Grande Israele come viene definita in italiano – n.d.t.).
Dietro pressione degli Stati Uniti, e con la complicità finale dell’Unione Sovietica, l’evento più catastrofico si rivelò essere il rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condannare Israele in quanto aggressore.
Se lo avesse fatto, la storia della regione – e del mondo – potrebbe avere seguito un corso completamente diverso: ad esempio, un negoziato per la fine del conflitto israelo-arabo con la prospettiva per la pace entro un anno o due. A coloro che ritengono questa un’ipotesi non realistica dico questo: leggete il mio libro, che contiene un capitolo intitolato ‘Addio all’Integrità del Consiglio di Sicurezza’.
Domanda: Perché, in effetti, era così importante dal punto di vista dei sionisti che Israele non fosse marchiato come aggressore quando in realtà lo era? In sintesi, ecco perché.
Per prima cosa, agli aggressori è vietato rimanere in possesso dei territori che invadono con la guerra – hanno l’obbligo del ritiro incondizionato. Questi sono i termini della Legge Internazionale che peraltro costituiscono un principio fondamentale che le Nazioni Unite hanno l’obbligo di applicare e difendere – proprio come hanno fatto nel 1956 quando Israele aveva invaso l’Egitto con la complicità dell’Inghilterra e della Francia.
E inoltre esiste un principio, generalmente riconosciuto, che si applica nel caso in cui uno Stato venga attaccato e diventi quindi vittima di aggressione. Qualora lo Stato attaccato decidesse di fare la guerra per legittima difesa e invadesse di conseguenza il territorio dell’aggressore, avrebbe poi il diritto, in eventuali negoziati, di dettare condizioni per il proprio ritiro.
Sulla base dei principi illustrati, ecco dunque cosa è successo nelle Nazioni Unite dopo la guerra del 1967.
E’ vero che mediante la Risoluzione 242 del 23 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha applicato il principio del ‘divieto di acquisizione di territori per mezzo di guerre’, ma lo ha fatto favorendo i sionisti. Lo ha fatto attribuendo ad Israele – e non agli Arabi - il diritto di dettare condizioni per il proprio ritiro (cioè, l’aggressore sionista è diventato la vittima). La Risoluzione 242 ha in effetti consegnato ai leader israeliani e alla Lobby sionista in America il Veto su eventuali processi di pace.
Nel 1957 il presidente americano Eisenhower aveva detto che: se ad una nazione che avesse attaccato e occupato territori stranieri fosse concesso di dettare condizioni per il proprio ritiro, «ciò equivarrebbe a rimettere indietro l’orologio dell’ordine internazionale».
Ed è proprio questo che avvenne nel 1967. Il presidente americano Johnson, preoccupato della guerra in Viet-Nam, e dietro consiglio dei sionisti più estremi nella cerchia dei suoi consiglieri, ha rimesso indietro l’orologio dell’ordine internazionale.
Con ciò vennero effettivamente creati due pesi e due misure per regolamentare il comportamento delle nazioni:
– da una parte c’erano le nazioni del mondo, escluso Israele, chiamate ad agire in conformità con le leggi internazionali e con gli obblighi derivanti dall’appartenenza alla comunità delle Nazioni Unite;
- dall’altra c’era Israele, da cui non ci si aspettava - e a cui non veniva richiesto – di comportarsi come il resto del mondo, o meglio, come uno stato normale.
Dietro insistenza dei sionisti nel governo Johnson, il rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di bollare Israele come aggressore segnò la nascita del ‘doppio standard’ nell’interpretazione e applicazione delle regole per giudicare e sanzionare, dove appropriato, il comportamento delle nazioni. Questo ‘doppio standard’ rappresenta il motivo per cui dal 1967 ad oggi un vero e proprio processo di pace non è stato reso possibile.
A mio avviso non esiste la benché minima possibilità per un reale processo di pace fino a quando questo doppio standard – due pesi e due misure – non sarà abbandonato. Fino a quando, cioè, i governi delle maggiori potenze mondiali, con gli USA in testa, daranno ad Israele un messaggio forte e chiaro, che abbia questo significato: «Adesso basta. E’ nell’interesse di tutti noi che mettiate fine al vostro disprezzo del Diritto Internazionale. Altrimenti saremo obbligati a marchiarvi come stato canaglia e ad applicare boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni.»
Alan Hart, 12 aprile 2011
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