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martedì 17 aprile 2012

Il mio amico Che, di Ahmed Ben Bella

Da vent'anni il Che richiama le nostre coscienze. Ed è dalla Bolivia che ha scelto di farlo. Da quella Bolivia il cui nome è ormai legato al suo - così come egli evoca il ricordo di Bolivar e di Sucre - e che fu già nel passato un paese fondamentale per la storia degli uomini, nella loro ricerca sconfinata di dignità e libertà. Al di là del tempo e dello spazio, udiamo ancor oggi l'appello lancinante del Che che ci costringe a rispondere: «Sì, solo la rivoluzione armata permetterà l'avvento di una società e di un uomo nuovo. Sì, solo la rivoluzione armata ci potrà liberare di tutte le forme più odiose di alienazione». Con la propria morte il Che ha già risposto.
Anche se il sol dell'avvenire non appare sempre puntuale agli appuntamenti della storia, anche se bisogna riprendere il lavoro da capo cento volte, sappiamo però con certezza che non vi sarà alternativa alla rivoluzione armata, fino a quando l'uomo sarà sfruttato, oppresso e alienato. Essa soltanto potrà dare un senso alla vita di coloro che sopravvivono stando in ginocchio o può restituire loro una dimensione autentica, sollevandoli forse addirittura a una statura da giganti. Ed essa soltanto può riuscire a fare dell'uomo un essere luminoso.
E' la stessa luce che abbiamo visto irradiare dal corpo nudo del Che, disteso in qualche luogo sperduto del Nancahuazu, in quelle foto apparse in tutto il mondo, mentre il mes­saggio profondo del suo ultimo sguardo penetrava nel più intimo della nostra anima. Quella luce e quel messaggio vivranno finché vivrà il mondo. Ci seguiranno all'infinito, come un appello insistente a trascendere noi stessi in quei momenti essenziali della vita che decidono il nostro futuro.
«In qualunque luogo ci sorprenda la morte - egli scriveva - sia la benvenuta, purché questo nostro grido di guerra sia arrivato a un orecchio ricettivo e un'altra mano si tenda per impugnare le nostre armi, e altri uomini si apprestino a intonare i canti luttuosi col crepitio delle mitragliatrici e nuovi gridi di guerra e di vittoria».2
Del Che questo ci resterà eternamente. Al di là degli episodi che hanno segnato la sua vita; al di là di tutta la critica malevola che pretenderebbe di sezionare i fatti e le sue gesta, aggrottando le sopracciglia e redigendo una contabilità del contesto che accompagnava quei fatti, dei successi e dei fallimenti; al di là di tutta la feccia dei vari «avrebbe dovuto fare così» o dei «se fosse andata in questo modo, allora...».
Che cosa allora...?
Al di là, infine, di questa lettura meccanica e superficiale della storia, che fa l'autopsia degli avvenimenti e dei fatti, ma tenta di ignorare l'uomo artigiano della storia, l'uomo col suo respiro di vita effimero, ma così grande e a volte così fragile. Quest'uomo, il cui corpo continua a non essere fatto d'altro che di carne e sangue e che nella sofferenza o nella malattia a volte lo tradisce. Capace anche di trascendere se stesso, di spingere ancora e sempre più lontano i propri limiti: quest'uomo è il vero miracolo della natura. E così era il Che.
E' un'altra lettura, ben più profonda, che si deve compiere, per ridare ai fatti e alle sue gesta il loro senso reale. Egli odiava soprattutto - e li odiava perché li conosceva troppo bene - i trucchi dell'opportunismo, con le sue volute e le sue finte sembianze. E riusciva a smascherarli anche dove essi si credevano meglio dissimulati. Egli sapeva invece che erano quelli i veri becchini delle rivoluzioni. Dotato di una lunga e ricca esperienza, con la mano ferma di un chirurgo che si serve del bisturi, operò per estirpare questo tumore maligno inserito nel corpo della rivoluzione.
Il Che ha parlato e scritto sulla guerriglia, ma non ha lasciato un codice preciso del perfetto guerrigliero. Tale codice gli uomini saranno sempre in grado di inciderlo sulle proprie tavolette, quando vi saranno costretti dalle circostanze e dagli avvenimenti, quando avranno finalmente accettato di rischiare la propria vita per un ideale e quando questo ideale si confonderà con la loro vita. Riusciranno a vincere? O forse perderanno? Poco importa, perché è la lotta stessa che arricchisce la vita, che conferisce all'uomo i titoli di nobiltà ed eleva la sua coscienza.
Più di tutto questo, più che un manuale di dialettica, il Che ha lasciato delle idee e un codice di vita, affinché - come egli diceva - «questo amore per l'umanità vivente si trasformi in fatti concreti, in atti che servano d'esempio, di mobilitazione».
Fidel ha detto di lui che «il suo tallone d'Achille era il suo assoluto disprezzo del pericolo». Forse fu questo il suo tallone di Achille, ma fu certamente anche la sua forza e la sua grandezza.
E' vero, il Che era un prode; ma un prode consapevole, col corpo indebolito dall'asma. A volte io l'accompagnavo sulle alture di Chréa, sopra a Blida, e vedevo arrivare la crisi, il suo viso farsi d'un colore verdastro. Chi ha letto il suo Diario boliviano sa in che stato fosse la sua salute, mentre affrontava le terribili prove fisiche e morali disseminate lungo il suo cammino.
Infine, al di là dell'immagine imperitura inscritta in fondo ai nostri ricordi e ai nostri cuori, il Che è per noi un'arte di vivere e di morire.

E' impossibile parlare del Che senza parlare di Cuba e dei rapporti particolari che ci univano, tanto la sua storia, la sua vita, sono legate a questo paese che fu per lui una seconda patria, prima di tornare dove lo chiamava la rivoluzione. Io lo conobbi alla vigilia della crisi internazionale legata alla questione dei missili e del blocco di Cuba imposto dagli Stati Uniti. L'Algeria accedeva all'indipendenza, il primo governo era stato appena costituito e il capo del governo algerino doveva partecipare, in quel mese di settembre del 1962, alla sessione dell'Onu in cui si sarebbe issata simbolicamente la bandiera algerina sopra la sede delle Nazioni Unite; una cerimonia che consacrava la vittoria della nostra lotta di libera­zione nazionale e l'ingresso dell'Algeria nel consesso delle nazioni libere.
L'ufficio politico del Fln aveva deciso che quella visita alle Nazioni Unite doveva essere seguita da una visita a Cuba. Ma più che di una visita, si trattava d'un atto di fede per sot­tolineare i nostri impegni politici. L'Algeria voleva dimostrare pubblicamente una solidarietà totale con la rivoluzione cubana e in particolare in quei momenti difficili della sua storia.
Invitato alla Casa Bianca, ebbi delle discussioni accese e franche con Kennedy, a proposito di Cuba. Alla domanda diretta che gli posi - «Intendete arrivare a uno scontro frontale con Cuba?» - egli non lasciò aleggiare alcun dubbio sulle sue intenzioni reali e mi rispose: «No, se non ci sono missili sovietici; sì nel caso contrario».
Tentò con insistenza di dissuadermi dal viaggiare a Cuba con un volo diretto in partenza da New York, arrivando addirittura ad evocare il pericolo di un attacco, contro l'aereo cubano che doveva trasportarmi, da parte dell' opposizione cubana residente a Miami. A queste intimidazioni a malapena velate, ribattei che ero un fellagha e che non mi lasciavo intimidire dalle minacce degli harkis, algerini o cubani che fossero.
Il nostro arrivo a Cuba si svolse in un'atmosfera d'entusiasmo popolare indescrivibile. Il programma prevedeva delle discussioni politiche nella sede del partito all'Avana, subito dopo l'arrivo della nostra delegazione. Ma le cose si svolsero in maniera del tutto diversa. Appena le nostre valige furono depositate nel luogo in cui dovevamo alloggiare, ci mettemmo immediatamente a discutere con una certa animazione con Fidel, Che, Raúl e gli altri dirigenti che ci accompagnavano. Restammo così a parlare per delle ore.
Ovviamente io riferii ai dirigenti cubani l'impressione che avevo ricavato dal mio incontro con Kennedy e i suoi propositi bellicosi. Alla fine di queste discussioni appassionate, condotte intorno a dei tavoli che avevamo messo uno di fronte all'altro, ci rendemmo conto di aver esaurito praticamente il programma dei temi che avremmo dovuto affrontare e che l'incontro alla sede del partito non aveva più ragion d'essere. Di comune accordo decidemmo quindi di passare direttamente al programma delle visite che dovevamo compiere attraverso il paese.
Questo aneddoto dà un'idea dei rapporti completamente liberi d'ogni protocollo che fin dall'inizio dovevano rappresentare la caratteristica essenziale, la norma dei legami che avrebbero unito la rivoluzione cubana e quella algerina, ma anche dei legami personali che mi hanno unito a Fidel e al Che. Lo stesso doveva verificarsi nel tipo di relazioni che i nostri due paesi hanno mantenuto attraverso le loro ambasciate. Per esempio, lo statuto particolare di cui godeva l'ambasciatore Serguera, insediato ad Algeri in una proprietà libera da oneri d'affitto; la possibilità che egli aveva d'incontrarmi in qualunque momento senza passare attraverso il Ministero degli affari esteri; le mie visite frequenti all'Ambasciata cubana e la reciprocità nei confronti del nostro ambasciatore a Cuba: tutto ciò conferiva ai nostri rapporti un calore che raramente si incontra nel campo delle relazioni diplomatiche e che stava a testimoniare una solidarietà senza incrinature.
La conferma doveva venire in maniera spettacolare in occasione del primo allarme grave che minacciò la rivoluzione algerina, all'epoca dei fatti di Tindouf, nell'ottobre del 1963. Il nostro giovane esercito - appena uscito da una lotta di liberazione e privo d'una copertura aerea, dal momento che non avevamo un solo aereo né forze meccanizzate - fu attaccato sul terreno a lui più sfavorevole, non potendo utilizzare i soli metodi che conosceva e che aveva sperimentato nel corso della lotta di liberazione: vale a dire la guerra di guerriglia.
Il deserto e le ampie distese erano lontane dalle montagne delle Aurés, di Djurdjura, dalla penisola di Collo e di Tlemcen, che erano stato il suo ambiente naturale e delle quali il nostro esercito conosceva tutte le risorse e i segreti. I nostri nemici avevano deciso che bisognava spezzare lo slancio della rivoluzione algerina prima che essa diventasse troppo forte e trascinasse ogni cosa al suo passaggio. Nasser ci fornì immediatamente la copertura aerea di cui avevamo bisogno e Fidel, Che, Raúl e i dirigenti cubani ci inviarono un contingente di blindati con alcune centinaia di soldati che furono diretti verso Bedeau, a sud di Sidi Bel Abbés. Lì feci loro una visita, dove si trovavano pronti a entrare in azione se la guerra nel deserto fosse continuata.
I mezzi corazzati inviati da Cuba possedevano dei dispositivi a raggi infrarossi che ne permettevano l'impiego di notte ed erano stati consegnati loro dai sovietici, con la condi­zione esplicita che non dovessero in nessun caso essere messi in mano a paesi terzi, ivi compresi dei paesi comunisti come, per esempio, la Bulgaria. Ebbene, nonostante le restrizioni imposte da Mosca e incuranti dei divieti, i cubani non avevano esitato a inviare i propri mezzi blindati in aiuto alla rivoluzione algerina in pericolo. La mano degli Stati Uniti era più che evidente dietro i fatti di Tindouf e noi sapevamo che gli elicotteri, che trasportavano le truppe di Hassan II, erano pilotati da americani. E ciò giustificava ampiamente la presenza dei carri armati cubani in Algeria. Al fondo sono le stesse ragioni di solidarietà internazionale che spingeranno in seguito i dirigenti cubani a intervenire al di là dell'oceano Atlantico, in Angola e altrove.
Le circostanze nelle quali si svolse l'arrivo di questo contingente meritano d'essere riferite perché mostrano, più di qualunque altro esempio, la natura dei nostri rapporti privilegiati con Cuba e i suoi dirigenti. A settembre del 1962, all'epoca della mia visita a Cuba, Fidel aveva tenuto ad onorare la promessa che il suo paese aveva fatto, di fornire un aiuto di due miliardi di vecchi franchi alla rivoluzione algerina: tenuto conto della situazione economica di Cuba, questi ci dovevano essere inviati non in valuta, ma in zucchero. Ma nonostante le mie proteste - visto che ritenevo che all'epoca Cuba avesse bisogno del proprio zucchero ancor più di noi - egli non volle darmi retta.
Pressappoco un anno dopo questa discussione, mentre si svolgeva la vicenda di Tindouf, una nave battente bandiera cubana giunse nel porto di Orano. Insieme al carico di zucchero promesso, avemmo la sorpresa di trovare alcune centinaia di soldati cubani e qualche decina di mezzi blindati, accorsi in aiuto della rivoluzione algerina.
Un dettaglio può riassumere lo spirito di quella iniziativa: su un foglio staccato da un quaderno di scuola, Raúl mi inviava un breve messaggio per annunciarmi quel gesto di soli­darietà.
Ovviamente non potevamo lasciar partire vuota la nave, e cosi la riempimmo di prodotti algerini e, dietro consiglio dell'ambasciatore Serguera, vi aggiungemmo alcuni cavalli arabi. Iniziava in tal modo tra i nostri due paesi un baratto a carattere non-commerciale, posto all'insegna del dono e della solidarietà e che, a seconda delle circostanze e anche delle necessità, divenne un elemento originale dei nostri rapporti con la rivoluzione cubana. Questo nuovo tipo di scambi, che rovesciavano tutte le concezioni mercantili delle relazioni commerciali - dal momento che anche i nostri ministri del commercio con l'estero non furono mai coinvolti in tale forma di baratto - fu praticato con altri paesi amici, come l'Egitto di Nasser, il Mali di Modibo Keita, la Guinea di Sékou Touré, la Tanzania di Nyerere, il Congo di Massemba-Debat o il Ghana di N'Krumah. Abbiamo dato, ma abbiamo anche ricevuto molto e non si è mai saputo quanto.
Il Che era consapevole in modo particolare delle innumerevoli restrizioni che ostacolano e indeboliscono un'autentica azione rivoluzionaria, così come dei limiti che incontra qua­lunque esperienza - sia pure la più rivoluzionaria - a partire dal momento in cui si trova ad affrontare direttamente o indirettamente le regole implacabili delle leggi di mercato e della razionalità commerciale. Egli le ha denunziate pubblicamente in occasione della Conferenza afroasiatica che si tenne ad Algeri.
D'altro canto, le condizioni umilianti con le quali si era conclusa la questione dei missili a Cuba e l'accordo intervenuto tra l’Urss e gli Usa avevano lasciato la bocca amara. lo ebbi all'epoca uno scambio di opinioni molto duro sull'argomento con l'ambasciatore sovietico. E tutto ciò, unito alla situazione che esisteva in Africa e che lasciava sperare in immense potenzialità rivoluzionarie, aveva condotto il Che a ritenere che l'anello debole dell'imperialismo si trovasse sul nostro continente e che egli vi dovesse ormai consacrare le proprie forze.
Al momento di abbandonare Fidel gli scrisse: «Altre terre del mondo reclamano il contributo dei miei modesti sforzi... Sui nuovi campi di battaglia porterò... la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l'imperialismo ovunque esso sia».[ii]
E ovviamente il Che intendeva partecipare fisicamente alle nuove battaglie che si preparavano.
lo cercai di fargli notare che forse non era quello il modo migliore di aiutare l'ascesa rivoluzionaria che si stava realizzando sul nostro continente. Anche se una rivoluzione armata può e deve trovare dei sostegni all'estero, essa deve ciononostante creare delle proprie basi interne sulle quali appoggiarsi per giungere alla vittoria. Essa deve dar vita a una propria dinamica interna, mossa da una sensibilità e da risorse mentali che il genio di un popolo produce su un suolo e un terreno particolari, nonostante il tipo di ideologia che li irriga.
Il Che però non ammetteva che il proprio impegno non fosse anche fisico e totale. Si recò a Cabinda, nel Congo-Brazzaville, a più riprese. Rifiutò l'aereo speciale che volevo mettergli a disposizione per garantire una maggiore discrezione nei suoi spostamenti. Avvisai allora gli ambasciatori algerini di tutta la regione di mettersi a sua disposizione in caso di necessità. Lo rivedevo a ogni suo ritorno dall'Africa e passavamo delle ore a discutere, a scambiarci le idee. E ogni volta tornava impressionato dalla favolosa ricchezza culturale del continente, ma poco soddisfatto dei rapporti con i partiti marxisti dei paesi che aveva visitato e le cui concezioni lo irritavano.
L'esperienza di Cabinda, unita a quella che in seguito doveva fare con la guerriglia attiva nella regione dell'ex-Stanleyville, lo avevano profondamente deluso. Si era potuto rendere conto finalmente della realtà di alcune delle difficoltà che avevo indicato nei nostri incontri e in particolare del fatto di intervenire, con un'azione fisica proveniente dall'esterno, su una determinata situazione rivoluzionaria.
Parallelamente al Che, noi svolgevamo un'altra azione per sostenere la rivoluzione armata nello Zaire occidentale. In accordo con Nyerere, Nasser, Modibo Keita, N'Krumah, Kenyatta e Sékou Touré, l'Algeria dava il proprio contributo inviando armi attraverso l'Egitto, per mezzo di un vero e proprio ponte aereo, mentre l'Uganda e il Mali si impegnavano a fornire i quadri militari. Fu al Cairo - dove ci eravamo riuniti su mia iniziativa - che fu elaborato questo piano di aiuti e avevamo iniziato ad applicarlo proprio nel momento in cui ci giungeva l'appello disperato dei dirigenti della lotta armata. Purtroppo e malgrado i nostri sforzi, l'iniziativa giunse troppo tardi e quella rivoluzione fu soffocata nel sangue con l'assassinio di Lumumba.
Durante uno dei suoi soggiorni ad Algeri, il Che mi fece una richiesta da parte di Fidel e della direzione rivoluzionaria cubana. Per loro non era più possibile intervenire effìca­cemente a partire da Cuba in aiuto alla rivoluzione armata in America latina. Poiché Cuba era sottoposta a una rigida sorveglianza, non si poteva organizzare nulla di serio in direzio­ne dell' America del Sud, per inviarvi le armi e i quadri militari che erano stati addestrati a Cuba. L'Algeria non si sarebbe potuta sostituire a Cuba?
Per quanto riguardava la distanza, ci si rese conto che non si trattava dopotutto di un grande svantaggio, e anzi poteva essere il contrario, tenendo conto che essa giocava a favore della segretezza necessaria per il successo di un'operazione di tale importanza.
La mia risposta fu ovviamente spontanea e positiva. E così cominciò immediatamente l'organizzazione delle strutture necessari ad accogliere i movimenti rivoluzionari dell' America latina, poste sotto controllo diretto del Che. Nel giro di poco tempo i rappresentanti di tutti questi movimenti rivoluzionari furono trasportati ad Algeri, dove io li incontrai a più riprese in compagnia del Che.
Uno stato maggiore composto dai vari movimenti si stabilì sulle alture di Algeri, in una grande villa circondata da giardini che, a titolo simbolico, avevamo deciso di donare loro. Quella Villa Sunini era stata un luogo famoso, il cui nome è passato alla storia. Durante la lotta di liberazione nazionale era stata un centro di tortura, in cui avevano trovato la morte molti membri della resistenza algerina.
Un giorno il Che mi disse: «Ahmed, abbiamo appena ricevuto un duro colpo; degli uomini addestrati alla Villa Sunini sono stati catturati alla frontiera tra il paese tale e tal altro - non mi ricordo più di quali paesi si trattasse - e ho paura che parleranno sotto la tortura».
Era molto inquieto e temeva che la segretezza del luogo in cui si preparavano le azioni armate venisse meno, permettendo ai nostri nemici di scoprire la vera natura delle società d'import-export che avevamo costituito in America latina per aiutare la rivoluzione armata e la cui attività reale non aveva evidentemente nulla a che vedere con la loro apparente ra­gione sociale.
Il Che era partito da Algeri, quando avvenne il colpo di stato militare del 19 giugno 1965, contro il quale del resto mi aveva messo in guardia. La sua partenza da Algeri, seguita dalla morte in Bolivia e la mia scomparsa per quindici anni, devono essere collocate nel contesto storico caratterizzato dal riflusso che seguì l'ascesa vittoriosa delle lotte di libera­zione. Quello stesso riflusso che suonò a morto, dopo l'assassinio di Lumumba, anche per i regimi progressisti che avevano visto la luce nel Terzo mondo e tra gli altri per quelli di N'Krumah, Modibo Keita, Sukarno e Nasser.
Questa data dell'8 ottobre [1967], inscritta a lettere di fuoco nelle nostre memorie, evoca una giornata incommensurabilmente triste per il prigioniero solitario che all' epoca mi trovavo ad essere, nel momento in cui le radio annunciavano la morte di quel mio fratello e i nemici che avevamo combattuto insieme intonavano il loro sinistro canto di vittoria.
Che non gioiscano troppo, tuttavia. Perché più ci allontaniamo da quella data e più si diradano nella memoria le circostanze in cui terminò la guerriglia quel giorno, li nel Ňan­cahuazu, più presente appare invece il ricordo del Che nello spirito di coloro che lottano e sperano. Oggi più che mai egli si inserisce nella trama della vita quotidiana. Qualcosa di lui resta attaccato ai loro cuori, alla loro anima, nascosto come un tesoro imperituro nella parte più profonda, più segreta e ricca del loro essere, riscaldandone il coraggio e attizzandone l'energia.
Un giorno, il silenzio opaco della mia prigione, gelosamente custodita da alcune centinaia di soldati, fu spezzato da un gran frastuono. Fu così che venni a sapere che a solo qualche centinaio di metri di distanza c'era Fidel, in visita a una fattoria-modello molto vicina, e ignaro certamente del fatto che io mi trovassi in quella casa moresca, isolata sulla collina e della quale egli poteva intravedere i tetti al di sopra delle cime degli alberi. Era stato certamente per le stesse ragioni di discrezione che quella casa era stata scelta dall'esercito colonialista come un centro di tortura.
In quel momento una marea di ricordi rimontò alla superficie, una coorte di volti, e davanti ai miei occhi passò come un film patinato dal tempo: da quando c'eravamo lasciati, il Che non era ancora mai apparso così vividamente nella mia memoria. In verità, il suo ricordo, ovunque noi andiamo, ci ha sempre accompagnato; ciò vale per me e per mia moglie, la stessa che vi legge queste parole che vi rivolgo e che gli rende, come ha sempre fatto, una venerazione senza pari. Nessuno più di lei aveva il diritto di leggervele.
Una grande foto del Che è stata sempre appesa sui muri della nostra prigione e il suo sguardo è stato testimone della nostra vita quotidiana, delle gioie e dei dolori. Ma un'altra foto, piccola e ritagliata da una rivista, che avevo incollato su un cartone e protetto con un foglio di plastica, ci ha sempre accompagnato nelle nostre peregrinazioni. E' la più cara ai nostri occhi. Oggi essa si trova a Maghnia, il mio villaggio natale, nella casa dei miei genitori che ormai non ci sono più e dove abbiamo lasciato i nostri ricordi più preziosi prima di partire per l'esilio. E' la foto del Che disteso, a torso nudo e dal cui corpo irradia tanta luce. Tanta luce e tanta speranza.



[i] Il testo scritto da Ahmed Ben Bella è stato letto dalla moglie Zohra Ben Bella nella cerimonia di commemorazione per l'anniversario della morte del Che, tenutasi ad Atene il 9 ottobre 1987. In francese nell'originale, è stato pubblicato dal grande quotidiano greco Tanea e da altri giornali. Già apparso inConoscere il Che, a cura di Roberto Massari, DataNews, Roma, 1988,  pp. 131-40, è stato poi ripubblicato in Ernesto Che Guevara, uomo, compagno, amico, a cura di Roberto Massari, Erreemme, Bolsena, 1994.
2 «Creare due, tre... molti Vietnam, è la parola d'ordine» (16 aprile 1967), in Scritti scelti, a cura di Roberto Massari , II, p. 677.

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